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Ci vuole un po' di pazzia per essere Giorgio Chiellini
17 mag 2022
Un ritratto del capitano della Juventus all'indomani del suo addio.
(articolo)
10 min
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Quando Giorgio Chiellini è stato sostituito è sembrato leggermente sorpreso. Era il sedicesimo del primo tempo e stava battendo una rimessa dal fondo quando tutto si è fermato. Doveva saperlo, dovevano essersi messi d’accordo, con Allegri, eppure è sembrato l’ultimo a capire che fosse arrivato il suo momento. Uscendo dal campo si è tolto la fascia da capitano e l’ha infilata al braccio di Paulo Dybala, forse il giocatore in campo più vicino all’essere il suo esatto contrario. Quella contro la Lazio - un pareggio subìto a tempo scaduto dopo essere stati in vantaggio di due gol, riassunto di una stagione in cui alla Juventus è mancata quella capacità di gestire il tempo e gli avversari che aveva nel ciclo precedente di Allegri - è stata soprattutto la partita di Chiellini e Dybala, dei loro addii intrecciati anche se dai significati profondamenti diversi.

Già in quello scambio di fascetta il contrasto era evidente. Chiellini con la faccia scavata e spigolosa da uomo consumato, il profilo dantesco e le ossa delle spalle sporgenti, spalle larghe da mostro di Frankenstein in cui è concentrato il suo carisma, spalle che terrorizzano gli avversari e rassicurano i compagni. Dybala che invece sembra più giovane di quando è arrivato alla Juventus, sempre più simile ai bambini che lo piangono in tribuna a fine partita, persino nel taglio di capelli che sembra fatto in casa, e che per salutare il pubblico a fine partita sale sulla schiena di Vlahovic proprio come un bambino che non ha voglia di camminare. A fine partita, nel momento dell’addio vero e proprio, il contrasto sarà ancora più forte. Chiellini sereno e sorridente mentre guarda con le figlie le immagini più belle della sua carriera. Dybala disperato, inconsolabile, e imbucato alla festa di Chiellini.

È il privilegio di chi resta così a lungo in una sola squadra: qualcuno vince di più, qualcuno di meno o quasi per niente, ma al momento di andarsene difficilmente resta qualche rimpianto. In un’intervista, pochi mesi fa, Chiellini diceva che per come è fatto lui gli sarebbe piaciuto viaggiare, conoscere culture diverse, ma che tutto sommato guardandosi indietro è fiero di essere rimasto così a lungo nella Juventus, una cosa in cui sono riusciti in pochi. Oltretutto, non era affatto detto che ci riuscisse lui.

Quando la Juventus lo ha preso dal Livorno, strappandolo alla Roma furibonda che ne possedeva metà cartellino, per poi girarlo un anno alla Fiorentina, era difficile prevedere una carriera come la sua. Aveva iniziato come esterno a tutta fascia, poi terzino, era un ragazzo di cui si lodavano la «forza sovraumana» e «il fisico da decatleta». Raccontava di essere cresciuto con i poster di Paolo Maldini in camera ma la distanza che lo separava da quel tipo di giocatore era la stessa che separa, nei racconti di fantascienza, gli esseri umani in carne e ossa e i primi prototipi di robot umanoidi. Se guardassimo una raccolta di azioni di loro due, anzi, si direbbe che sia Maldini il giocatore più moderno, mentre Chiellini starebbe bene coi mutandoni e le maglie di lana a righe dell’ottocento.

Ormai ci è passato di mente, ma i primi anni ci sembrava quasi un miracolato per il semplice fatto che giocasse nella Juventus, aiutato dal fatto che la sua seconda stagione in bianconero è stata in Serie B, il difensore che andava sostituito con uno migliore se si voleva veramente ambire all’élite. Chiellini è stato a lungo il parente troppo ruvido di cui vergognarsi, quello che a discapito della riuscita economica e sociale tradisce le origini umili di tutta la famiglia. Un grande Europeo nel 2008 lo rese definitivamente difensore centrale, ma il giudizio su di lui era sempre un po' influenzato dal suo essere scoordinato, così diverso dalla grande scuola dei difensori italiani, capaci di fermarti tenendo un libro sulla testa. Di fatto ha dovuto aspettare che Antonio Conte passasse alla difesa a tre, un contesto in cui la sua aggressività acquistasse senso e non fosse solo irruenza, imprecisione.

Alla lunga, però, Chiellini ha costruito un monumento alla perseveranza. Alla tenacia che serve per lavorare il talento che si ha a disposizione, lavorando intorno ai propri limiti, concentrandoti sulle cose che sai fare meglio te. D’altra parte se ti dicono fin da ragazzo che devi compensare i limiti tecnici con la determinazione significa che la tua non è la storia del bruco che si trasforma in farfalla. Bruco sei e bruco resterai, tanto vale diventare un bruco pericoloso, di quelli urticanti. O meglio, un bruco corazzato, con le spine e gli artigli. E poi, come i cantanti longevi a un certo punto è tornato di moda, in un calcio intenso in cui le marcature a uomo, anche se solo a momenti, magari, sono usate più o meno da tutti. Forse è cambiato anche caratterialmente - lui dice di essere migliorato «nella gestione della vita, mi lascio scivolare tanti problemi e provo a cogliere il positivo da ogni situazione» - ma sembra che il calcio contemporaneo gli sia andato incontro dando sempre più importanza ai duelli individuali.

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Giorgio Chiellini è stato il peggior avversario degli italiani che non tifavano Juventus. Quel tipo di avversario che ti è difficile tifare quando veste la maglia della Nazionale. Eppure negli ultimi anni è venuto fuori qualcosa di sempre più affabile in lui, un sorriso che non sembrava semplice furbizia, che non serviva solo a nascondere la faccia violenta del suo gioco. Di Chiellini ricorderemo sostanzialmente due cose. Quelle entrate che nel migliore dei casi potevano essere scomposte ma pulite e nel peggiore erano scomposte e assurde, in cui gli avversari si sollevavano letteralmente da terra, o si contorcevano con una gamba presa in una trappola per orsi. E quell’aria stranamente giocosa e - mi sembra strano scriverlo, ma penso Chiellini si sentisse sinceramente così - innocente.

Ricorderemo per forza di cose Chiellini che scherza con Jordi Alba, manipolandolo come un burattino e dandogli del «mentiroso» - e Chiellini scherza sempre con gli avversari, anche con Milinkovic-Savic prima della sua ultima partita; mentre Milinkovic-Savic aveva un’aria vagamente oscura e seriosa, da sicario sudamericano. Tanto quanto lo ricorderemo mentre prova a decapitare Bukayo Saka con la maglia dell’Inghilterra.

Perché Chiellini è sempre così gentile e sorridente con i suoi avversari? Ipocrisia strategica, subdolo doppiogiochismo, schizofrenia? Magari un po’ di furbizia c’è, dopotutto. La furbizia del capitalista che accetta la violenza in contesti nascosti, privati - la violenza dello sfruttamento delle risorse o di lavoratori lontani, coperta con abiti sartoriali e post motivazionali su Linkedin - dato che Chiellini è laureato in economia, con master, qualcosa avrà pur imparato su come funziona il mondo.

Ma la risposta a cui sono arrivato, quella che mi pare tocchi più in profondità l’unicità del sorriso sghembo di Giorgio Chiellini - “that damned smile” - è che la sua simpatia è una forma sincera di rispetto. Mi spingo a dire, anzi, che dietro c’è l’idea, la consapevolezza, che Chiellini non sarebbe nulla senza un attaccante contro cui difendere e, certo, occasionalmente, massacrare. L’attaccante è il ruolo più egoista che c’è, a malapena può permettersi di pensare ai propri compagni, i difensori poi non esistono, li disumanizza, li trasforma in ostacoli materiali da manipolare. Il difensore, al contrario, si nutre dell’energia dell’attaccante, esiste esclusivamente in sua funzione - anche se oppositiva.

Il rapporto tra attaccante e difensore è asimmetrico per sua natura, ma se l’attaccante è un narcisista il difensore è quello che ama veramente, che crea una dialettica. La maggior parte degli attaccanti vive con infantile frustrazione la competizione col difensore che li marca, con il fastidio di chi non ama essere toccato, come se l’area di rigore fosse un autobus e il difensore un maniaco che approfitta della calca per palpeggiarti. I grandi attaccanti, in compenso, riconoscono le attenzioni che gli vengono dedicate, ne sono quasi lusingati. «È davve­ro difficile giocare contro di lui, non ti lascia spazio, non ti fa re­spirare», ha detto Ibrahimovic con ammirazione, aggiungendo: «Fra di noi ci sono sempre stati bellissimi duelli».

Quando un giocatore del genere se ne va solitamente si passa la spugna sulla lavagna dei peccati. Nel suo caso si dice che era sì ruvido, ma mai cattivo. Non voglio fare lo stesso errore. Cosa significa cattivo? Chiellini, semmai, non dava mai l’impressione di essere arrabbiato con i suoi avversari. Non era uno di quei giocatori adrenalinici a cui si spegne il cervello, le sue entrate, anche quelle più sproporzionate, oltre i limiti (tipo questa a Morfeo), erano sempre più o meno calcolate. E infatti con la maglia della Juventus è stato espulso solo due volte - espulsione diretta, ma anche per doppia ammonizione appena tre volte in tutto - e la seconda volta per una presunta gomitata su Cristiano Ronaldo (nel 2013) mentre correvano appaiati. Ma il fatto che fossero calcolate rende le sue entrate meno violente? O di più? Cambia qualcosa, in fin dei conti?

A testimoniare la sua durezza a volte esagerata ci sono le compilation di falli su YouTube, e tutti quegli avversari che nonostante i sorrisi e la conversazione brillante per forza di cose conservano di lui un ricordo spiacevole. Bergessio, dopo che lo aveva infortunato con un’entrata da dietro, rompendogli il perone, ha passato la partita di ritorno della stagione 2013-14 a vendicarsi, facendosi prima ammonire e poi espellere per due gomitate (la seconda, a dire il vero, piuttosto leggera, accentuata da Chiellini che a terra si dimena e quando sbirciando vede che l’arbitro l’ha espulso si alza come se niente fosse). Persino Ronaldo ha assaggiato il cinismo di Chiellini quando a un minuto dalla fine della semifinale di andata di Champions League (2014-15) c’era da portare a casa il 2-1. E Chiellini, bendato come un eroe di un film di guerra, non ci pensa due volte a tirarlo giù con una scivolata in fascia, come fosse una pedina sullo scacchiere da far cadere con il rovescio della mano.

Persino nel video proiettato dalla Juventus c’erano più entrate dure, al limite, che esultanze. «Io mi trasformo in campo? Devo farlo», ha detto. «Devo trovare un “nemico” in ogni partita, per un difensore la sfida contro l’attaccante è fondamentale, ma ora sono molto più calmo rispetto a quando ero giovane».

E dato che nella sua ultima partita è uscito dopo un quarto d’ora, l’ultimo suo gesto significativo, di cui abbia traccia almeno, è un’entrata fuori tempo su Dzeko, nella finale di Coppa Italia persa con l’Inter. È una situazione ambigua, la palla schizza via dalla coscia di Dzeko ma Chiellini ha ormai lanciato il suo corpo e l’impatto è inevitabile. Dzeko, un uomo alto quasi due metri, viene strappato da terra come un albero aspirato da un uragano.

Sono momenti strani, come se Chiellini avesse portato in campo qualcosa che in campo non avesse davvero posto. Ma era proprio questa la cosa che lo rendeva speciale, quell’eccitazione che lo accompagnava nelle partite più importanti. Si è detto per anni che i difensori si sarebbero dovuti evolvere, che farli giocare troppo con la palla, anzi, gli avrebbe fatto dimenticare le basi del mestiere - menare. Proprio lui ha parlato della cattiva influenza che avrebbe avuto Guardiola, come causa della scarsità di difensori italiani di livello nelle generazioni più giovani della sua. Ma la verità è che di difensori come lui ce ne sono sempre stati pochi. Persino Bonucci non ha le sue qualità puramente difensive, né le sue doti atletiche.

La verità è che ci vuole un pizzico di follia per difendere come si stesse ballando insieme all’attaccante - ma l’unico a conoscere la coreografia sei te. Ci vuole quel rispetto per le qualità degli attaccanti che ti spinge a fare sempre qualcosa in più, a fare magari troppo, sempre per non fare troppo poco. Chiellini era il tipo di giocatore che portava in campo tutto quello che aveva. E quando usciva qualcosa magari gli era rimasto sulle gambe degli attaccanti, ma a lui in tasca non era avanzato niente.

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