Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Finalmente Lo Celso
30 apr 2019
30 apr 2019
Dalla iniziale esclusione dal Mondiale in Russia alla grande stagione al Betis.
Dark mode
(ON)

Giovani Lo Celso, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. O almeno questa deve essere stata la sensazione che ha provato Lo Celso quando si è trovato, agli albori dell’estate scorsa, all’improvviso e senza nessuna ragione specifica, fuori dall’undici Albiceleste a poche settimane dall’inizio del Mondiale di Russia. Un enorme insetto immondo.

Di quella Nazionale sarebbe dovuto essere un punto fermo, in un ruolo, quello di volante creativo, cinco, al fianco di Mascherano, che si era cucito attorno mettendosi in discussione. Il palcoscenico russo ne avrebbe potuto decretare la consacrazione, dopo una stagione e mezza in Europa, ma finì scavalcato nelle gerarchie di Sampaoli da Biglia, Banega, e addirittura da Enzo Pérez, che dalla lista dei convocati iniziali era stato tagliato fuori, per poi essere ripescato dopo l’infortunio di Lanzini. Lo Celso, in Russia, non giocò neppure un minuto.

Secondo Daniel Arcucci, l’antefatto alla metamorfosi in reietto si trova in un allenamento della Selección a Barcellona. Subito dopo una giocata di Lo Celso «un giocatore si è arrabbiato, ha calciato lontano la palla e ha detto così non possiamo giocare». Secondo molti - Arcucci si è guardato bene dal confermarlo - quel giocatore era Leo Messi.

Le leggende metropolitane raccontano che Lo Celso avesse battuto Messi più volte a calcio-tennis, nei giorni precedenti, e che lo avesse umiliato con un tunnel durante una partitella. È una motivazione sufficiente per estromettere un calciatore in forma dai piani di un commissario tecnico? Lo è, di certo, per mandare in fuoco le ali di una carriera già sulla rampa di decollo.


Foto di DAMIEN MEYER/AFP/Getty Images



A vederlo oggi, Lo Celso non sembra affatto un insetto immondo. Semmai, uno scarabeo d’oro. Quando la sera di Pasqua si è presentato sul dischetto, il suo Betis era sotto di due reti contro il Valencia: Giovani Lo Celso ha riaperto momentaneamente la partita segnando il suo sedicesimo gol stagionale - sedicesimo!!! - il nono in Liga. Non aveva mai timbrato il cartellino con questa frequenza, e se i gol non sono mai una certificazione assoluta del valore di un centrocampista, quelli messi a segno da Lo Celso sono quantomeno il segno eloquente di una risurrezione che ha richiesto trecentosessantacinque giorni di evoluzioni tattiche e ricerca di sé.

Lo Celso ha vissuto un periodo descrivibile perfettamente con la frase di Lao Tzu secondo cui quella che il bruco chiama la fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.

Una specie di nuova educazione sentimentale
La prima volta che ho scritto di Lo Celso, nell’estate del 2016, l’ho fatto perché mi aveva colpito la maniera in cui era riuscito a inserirsi nel solco di una tradizione, quella di esterno offensivo, che nel Rosario Central significava soprattutto Di Maria e Franco Cervi. Lo aveva fatto reinventandola, e già allora era evidente il suo istinto da enganche, che non disdegnava i compiti difensivi, che non si spaventava a sporcarsi le mani nelle due fasi. Avevo chiuso quel pezzo scrivendo: «Chissà che a Parigi, cercando il nuovo Di Maria, non si siano imbattuti in una specie di Verratti del futuro».

Lo Celso è arrivato a Parigi nel gennaio del 2017. Chiuso in campo proprio da Verratti, e se vogliamo Rabiot, ha cercato di modellare il suo gioco, ma non gli è stato sufficiente per raggranellare più di qualche presenza (107 minuti) nella sua prima stagione. Unai Emery, però, alla seconda stagione europea ne ha fatto un giocatore per certi versi nuovo. Anche complice l’infortunio di Thiago Motta, Lo Celso si è trovato titolare in un centrocampo a tre in cui veniva affiancato da Verratti e Rabiot (o Draxler, o Pastore). In un modulo fluido come quello di Emery, in cui i centrocampisti si scambiavano spesso posizioni e funzioni, Lo Celso ha cominciato ad affinare la sua capacità di mantenere il possesso del pallone, eludendo la pressione avversaria, smistando e verticalizzando.

Il ruolo classico, insomma, che spetta al cinco. Il ruolo in cui, secondo Fernando Redondo, «si incrocia ogni cammino».

Giocando in quel ruolo, Lo Celso è diventato irrinunciabile. Ha segnato in finale di Coppa di Francia e nella partita decisiva per il titolo con il Monaco, di testa, in un’incursione che in qualche modo non gli apparteneva, prima di quel momento. Ha guadagnato posizioni sulla candidatura di Leandro Paredes, in Nazionale, fino a scalzarlo nelle gerarchie di Sampaoli.

Ha anche fallito, ovviamente.


Foto di CURTO DE LA TORRE/AFP/Getty Images



Il giorno di San Valentino del 2018, a Madrid, da cinco ha giocato forse la peggiore partita della sua carriera. Innocuo in fase offensiva, nocivo in quella difensiva. Ha causato un rigore su Kroos, rischiando di venire espulso.

In un’intervista poco prima di trasferirsi in Francia, a El Gráfico, aveva raccontato che la sua frase mantra è «cadere è permesso, ma rialzarsi obbligatorio». Il tentativo di nuova educazione sentimentale si era trasformato, nella percezione di chi lo circondava, in sperimentazione d’emergenza, adattamento infelice.

Ma si sa, se c’è qualcosa che guida l’evoluzione, quel qualcosa è il fallimento. Dopotutto, il primo pesce che ha deciso di muoversi fuori dall’acqua non ha sentenziato la sua fine. Piuttosto, ha dato inizio a qualcos'altro.

Un passo indietro, che sono tre passi avanti
Quando negli ultimi giorni di mercato Lo Celso ha deciso di trasferirsi al Betis, l’impressione generale è stata che fosse un affare per tutti. Il PSG si liberava di un calciatore che non rientrava nei piani di Tuchel; il Betis acquisiva un prospetto potenzialmente esplosivo, contestualizzato nelle trame di Quique Setién.

Quello che poteva sembrare un passo indietro, per Lo Celso si è trasformato nell’opportunità irripetibile di trovare il proprio posto nel mondo.

Nel 4-3-3 di Quique Setién, in cui si predica e applica il juego de posición, servono giocatori concreti. Palleggiatori che non solo siano associativi, ma anche capaci di creare superiorità numerica, come dice Eder Sarabia, l’allenatore in seconda del Betis, in una bella intervista su Panenka 78. «Noi cerchiamo l’essenza di ogni calciatore».

La sua essenza, Lo Celso, non l’ha mai persa di vista. Non è scomparsa del tutto, almeno, durante gli ultimi anni difficili. Lo Celso lo ha sempre saputo di essere un calciatore con una sensibilità di tocco nello stretto stupefacente, grazie alla quale sa come ci si scrolla della pressione avversaria e ci si apre spazi in pertugi angusti. Un calciatore che vede linee di passaggio precise come solchi nella sabbia nell’istante che precede la tormenta.




Tipo questo assist al Bernabeu, contro il Real.



E sa anche come si cerca la palla abbassandosi tra le linee: quando si ritaglia la posizione abbassa sempre le braccia, indicandosi i piedi, destinazione ideale delle trame dei compagni in impostazione; o trovare gli spazi tra quelle avversarie, nell’ultimo terzo di campo.

Ma nella sua essenza più profonda, Lo Celso sa di essere un uomo offensivo. Con inesplorate tendenze al gol, e soprattutto alla costruzione di trame.




Nel derby perso contro il Siviglia Lo Celso ha segnato il gol del momentaneo 1-1: un’incursione in area partendo da una posizione defilatissima, con la quale si è fatto trovare pronto all’impatto con il cross di Junior Firpo.



Per questo ha sposato con entusiasmo la riconversione, operata da Quique Setién, in mezzala a piede invertito (una posizione che effettivamente esalta le sue caratteristiche, e nella quale anche Scaloni lo ha schierato spesso, nelle ultime uscite dell’Albiceleste) o più spesso trequartista. Ma all’occorrenza anche esterno d’attacco o, perché no, falso nueve, come spesso gli è capitato di giocare nell’ultimo mese - anche nell’Argentina, perché il più grande merito di Scaloni è quello di cavalcare le intuizioni che hanno i tecnici che allenano quotidianamente i giocatori della sua Selección.




Nella partita con il Villareal Lo Celso ha segnato la sua prima doppietta in Liga. Giocando da falso nueve. Nel primo gol, al di là del pallonetto che cattura l’occhio, andrebbe notata la partenza da nove puro, l’affondo con cui attacca lo spazio nella maniera in cui lo farebbe qualcuno davvero a proprio agio in quel ruolo.



Nello stesso numero di Panenka in cui compare l’intervista a Eder Sarabia, un numero monografico dedicato al beticismo, Antonio Luque, un cantautore sivigliano, paragona lo stile di gioco del Betis di Quique Setién alle nubas, composizioni musicali arabo-andaluse caratterizzate da una lunghezza spesso eccessiva, e una tristezza malinconica di fondo. In una nuba, Lo Celso sarebbe il movimento che spezza il ritmo, la suite che si manifesta in occorrenze sempre diverse.

Ritrovando lo spirito offensivo, un’anima che aveva vorticato così libera da impedimenti soltanto nei primi periodi al Rosario Central, prima che la sua tendenza alle geometrie si trasformasse in gabbia dorata, Lo Celso a Siviglia ha ritrovato anche la magia. È tornato a essere un tango, improvvisazione estrosa. Però reinterpretato, riletto, 2.0. Un tango dei Gotan Project.

Dribbla di più (in media due volte in più a partita rispetto a Parigi, il primo in questa statistica in squadra nella stagione in corso), tira di più (un aumento di quasi il 50% a partita, che ne fa il giocatore del Betis che più volte ha tirato contro la porta avversaria quest’anno): è più vicino all’idea primigenia di Giovani Lo Celso, ma con il bagaglio d’esperienza, anche e soprattutto tattica, della precedente incarnazione di Lo Celso.

La sua stagione attuale è la più tersa dimostrazione che non esistono calciatori buoni o scarsi in senso assoluto, ma soprattutto giocatori adatti. E Giovani Lo Celso si è scoperto, quest’anno, perfettamente adatto ai dettami del suo tecnico, in un processo di accrescimento reciproco.

«Non ci ho pensato neppure un attimo, quando mi ha chiamato il Betis» ha dichiarato subito dopo essere giunto a Siviglia in prestito, nell’estate scorsa. Poteva sembrare una frase di circostanza. «Mi ha colpito come gioca questa squadra. Ha un’identità che mi motiva». Probabilmente lo era, ma plausibilmente Lo Celso si era convinto, tastando con due dita il terreno, che su quel terroir le vigne del suo talento sarebbero potute tornare ad avere la miglior resa.




Lo Celso in purezza, vendemmia tardiva 2018. Un’ottima annata.



«Quando sei in campo, divertiti. Gioca con serietà, però goditela soprattutto». Sembra sia il consiglio che gli ha dato Marco Rúben, suo capitano al Rosario Central, prima di lasciare la cuna de la bandera. In Europa, Giovani Lo Celso aveva giocato, e con serietà, ovviamente. Divertirsi, però, come si sta divertendo quest’anno a Siviglia, raramente gli era successo.

Qualche giorno fa è stato ufficializzato il suo passaggio a titolo definitivo al Betis, che l’ha riscattato dal PSG. Trecentosessantacinque giorni fa, Giovani Lo Celso era un giocatore differente. Due mesi più tardi, sembrava un giocatore bruciato. Oggi, è un giocatore nuovo. Più complesso, più completo.

E il mio innamoramento, si sarà capito, non accenna a scemare.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura