La commistione tra giovani calciatori con l’etichetta di "wunderkind" e inizi di stagione prorompenti distrugge tutte le nostre inibizioni. Ci invaghiamo, e sono invaghimenti che ci mettono un amen a trasformarsi in "big fails". L’esordio sfavillante ha per il minorenne talentuoso lo stesso effetto di una manciata di menthos inserite in un litro di coca-cola, esperimento che osserviamo sempre con una certa compiacenza entusiasta. Parlare di Giovanni Reyna oggi come la "next big thing" del calcio statunitense - che dico statunitense?, europeo, che dico europeo?, m*o*n*d*i*a*l*e - mi espone al rischio di un’euforia che potrebbe sgonfiarsi e scemare già tra qualche settimana, o mese, lasciandomi il ricordo un po’ imbarazzante di quella volta che non mi sono saputo controllare. Mi è già successo, continuerà a succedere.
Eppure, Gio Reyna sembra essere davvero un diamante, neppure troppo grezzo, pronto a rivelarsi in tutta la sua brillantezza. Non è solo questione di numeri, ma soprattutto di attitudine e contesto: la maniera in cui interpreta la prima, per calarsi nel secondo. Quanto delle sue qualità anticipano quello che ci aspetta, quanto sono solo di passaggio?
Primati che contano il giusto, ma hanno pur sempre il loro peso specifico.
Nouvelle vague
I calciatori yankee hanno smesso da un pezzo di essere cartoline da bestiario esotico, o comprimari pittoreschi: oggi sono una realtà solida, anzi spesso protagonisti brillanti di un movimento coinvolto in una crescita vertiginosa, della quale la mancata qualificazione ai Mondiali di Russia ci ha un po’ offuscato la percezione. Mettiamola così: Giovanni Reyna è l’ultimo, in ordine temporale, degli hypewagon del treno lanciato apparentemente senza freni della nuova generazione calcistica statunitense, quella che dovrebbe essere nel suo prime per i Mondiali del 2026, che giocheranno in casa. Quelli che dovrebbero, almeno nelle intenzioni, Make America Great At last, farla finalmente grande, almeno calcisticamente.
L’aspetto più interessante, forse, è che nessuno di loro, men che meno Gio, oggi sembra fuori contesto. Nel momento in cui scrivo Reyna ha giocato tutte le prime partite del Borussia Dortmund in questo inizio di Bundesliga, partendo sempre come titolare, collezionando un gol e tre assist, tutti nel match prima della finestra FIFA per le Nazionali, contro il Friburgo.
Il che fa di lui il più giovane autore di 3 assist nella stessa partita da quando in Bundesliga hanno cominciato a raccogliere dati di questo tipo, e cioè dal 1992, che è comunque un sacco di tempo.
Che questa possa essere la stagione della sua consacrazione lo dice la fiducia che Favre ripone in lui, una fiducia dalla crescita esponenziale. In fin dei conti l’esordio in prima squadra risale solo allo scorso gennaio: due settimane più tardi avrebbe segnato la sua prima rete, in Coppa di Germania, contro il Werder Brema; due settimane dopo, ancora, avrebbe anche esordito in Champions League, nella gara di andata degli ottavi contro il PSG, peraltro fornendo a Haaland (e chi, sennò?) l’assist per la rete del 2-1 (che verrà poi annullato dal 2-0 dei parigini al ritorno).
Il primo gol di Giovanni Reyna in maglia giallonera in una gara ufficiale vorremmo potesse dirci tutto, di Giovanni Reyna, e invece non ci fornisce che una lettura parziale, certo edulcorata, sicuramente fuorviante.
La meraviglia, ovviamente, il gesto che rapisce l’occhio, è la delicatezza della pennellata, la prodezza della balistica: il pallone, con l’eleganza leggiadra del volo di un’aquila sui canyon del Colorado, al termine della parabola plana esattamente in quel punto in cui planano tutti i palloni baciati dallo sbalordimento estetico. Il punto, però, il centro di gravità attorno a cui dovrebbe ruotare il processo di comprensione di Giovanni Reyna, è tutto nei tre secondi che precedono il tiro, piazzato dopo uno sguardo concentratissimo: e cioè nel controllo. Riceve palla da Brandt, con il sinistro l’ammaestra portandola sul destro, quasi la stoppa. Di lì, con un tocco leggero ma perentorio, accelera puntando l’avversario, lo aggira con un "put" leggero con l’esterno del destro e fa una pausa. Lì, ok, la meraviglia.
Questo gol ci dice che ha del talento, è pacifico; che ha dell’inventiva, ovviamente. Ma è eloquente anche, soprattutto, della sua capacità di controllo, controllo emotivo. Della lucidità, e della consapevolezza, che aggiungono a quest’azione fluida e frenetica qualcosa di zen. Come un giovane di diciassette anni riesca ad avere tra le mani, o i piedi, tutti questi doni è un mistero sempre affascinante, che ci porta spesso a scomodare il concetto di predestinazione. Un concetto che nel caso di Giovanni Reyna, in qualche modo, ha forse più fondamento che per altri.
All’università dell’hype
La prima e forse più pesante confutazione alla predestinazione potrebbe venire dal fatto che Giovanni Reyna non sia sbucato dal nulla, da un college sperduto del New Jersey, da un campetto di periferia. Reyna vive circondato dal calcio da sempre e come una manciata di altri talenti scintillanti è finito per iscriversi all’università dell’hype del calcio europeo, il Borussia Dortmund, che ha cominciato a tenerlo sott’occhio quando aveva 14 anni: e cioè quando, nell’Aprile 2017, aveva aiutato il New York City Football Club (emanazione statunitense del Manchester City) a vincere la Generation Adidas Cup, una manifestazione U16, come MVP del torneo, tra l'altro. In quel momento aveva già esordito con la Nazionale americana U15.
Una giocata, contro il Real Madrid U16, che è anche uno spoiler del giocatore che diventerà.
Il suo allenatore nell’U15, Dave van den Bergh, dice che a impressionarlo era soprattutto la maniera in cui usava il corpo, in cui leggeva il gioco. E aggiunge come fosse chiaro che era pronto per fare il salto di livello, per essere allenato «da qualcuno più bravo». Nell’estate del 2017, dopo aver vinto il Torneo delle Nazioni con 4 assist e 4 gol (di cui uno, quello della vittoria, in finale), la morsa del BVB si è stretta. L’iter di arruolamento, per il Borussia, è sempre più o meno lo stesso: dopo i primi contatti i giovani prospetti vengono invitati al Signal Iduna, osservano una partita, subiscono la fascinazione del Muro Giallo: un processo di innamoramento indotto che non ha niente a che fare con il denaro, è più una promessa di divertimento, coinvolgimento emotivo, amore per il gioco. La certezza di condividere il campo con altri predestinati, come piace sottolineare a Michael Zorc, DS del BVB, un progetto che magari non contempla la vittoria, ma che non per questo non può essere considerato di successo.
È per questo che il Borussia, ogni anno, si ritrova a essere una squadra «vergognosamente giovane», come la definisce sempre Zorc, ma anche tremendamente cool. Oggi il quartetto d’attacco ha un’età media di 18 anni e 11 mesi, ed è perlopiù formata da prodotti del vivaio, che hanno scelto il Borussia attratti dalla prospettiva di un posto immediato tra i titolari di una squadra che non fa della giovane età una discriminante, anzi piuttosto il contrario. Sono giovani con tutte le caratteristiche per affermarsi nel calcio moderno, anche atleticamente. Simpatiche canaglie con l’istinto omicida dei Peaky Blinders. Se c’è una caratteristica che contraddistingue Gio (la stessa, per dire, di Ansu Fati) è quella di non sembrare fragile, ma anzi fisicamente già pronto per confrontarsi con il calcio professionistico, pur non avendo ancora l’età per prendere la patente.
Insisto sul punto del fisico già formato perché credo sia fondamentale per provare a immaginare quale possa diventare la sua posizione in campo. Spesso, nelle nazionali giovanili e nel BVB II è stato utilizzato come ala destra (più raramente sulla sinistra a piede invertito), soprattutto in virtù di uno scatto bruciante. A differenza però di Pulisic - un precedente fin troppo banale da eviscerare: entrambi nordamericani, entrambi maturati nelle giovanili del Borussia, entrambi giunti in prima squadra da giovanissimi - le sue qualità sembrano più adatte a giocare al centro del campo.
Si abbassa a ricevere nell’half-space: movimento propedeutico all’inserimento del laterale basso, che Reyna serve sulla fascia. Altrettanto spesso, però, Gio si accentra, salta l’uomo e punta la porta prefigurando già l'assist.
Per sua stessa ammissione la posizione che preferisce in campo è quella del "10". Dopotutto tra i suoi modelli calcistici cita spesso Zidane, De Bruyne, lo stesso Havertz e soprattutto Kakà, gente capace di tagliare linee con un passaggio, inventare trame invisibili agli occhi comuni, giocatori il cui talento si sublima, tra le altre cose, nella calma apparente con cui controllano il gioco, e poi nell’esercizio artistico dell’assist. Quando si tratta di servire i compagni, però, Reyna non cerca mai il colpo a sensazione, la giocata azzardata: il suo calcio in fin dei conti è semplice, si basa sull'aggiramento delle strutture difensive, sulla brutalità di un passaggio verticale. «Tu me la passi, e io segno», gli dice Haaland come se fosse l’assunto più scontato di questo mondo.
Un precedente assai pesante
Con il suo esordio di fine Gennaio Reyna è diventato il più giovane statunitense a debuttare in Bundesliga, che fino ad allora era stato Christian Pulisic. La ricerca di un parallelo tra i percorsi dei due quasi coetanei, ancora per qualche tempo, continuerà a inquinare ogni discorso su Reyna. È inevitabile. Entrambi sono entrati a far parte delle giovanili del Borussia a 16 anni, entrambi sfruttando il fatto di avere un doppio passaporto (croato Pulisic, portoghese Reyna), che gli ha permesso di evitare l’attesa di essere maggiorenni prima di trasferirsi all’estero.
Per Reyna è stato più complicato trasferirsi in Europa: Pulisic, per esempio, lo ha fatto seguito dal padre, mentre Reyna ha dovuto fare affidamento solo su se stesso, dal momento che i genitori sono dovuti rimanere negli States, dove il padre Claudio (protagonista di quattro Mondiali, e spesso capitano, con la Nazionale, e a sua volta wunderkid dei suoi tempi) aveva un doppio ruolo dirigenziale nella Federazione e nel NYCFC, nel quale ricopriva il ruolo di Direttore Sportivo. Un ruolo che gli ha attirato anche molte critiche per aver lasciato andar via un talento promettente come il figlio. «Credo totalmente in tutto quello che stiamo facendo al NYCFC», si è difeso lui, «ma devo togliermi il cappello da direttore sportivo, di fronte a Giovanni. Perché primo sono suo padre, e secondo - e terzo - lo supporterò in ognuna delle sue scelte».
Gregg Berhalter, allenatore della Nazionale statunitense che non lo ha ancora convocato, dice che a renderlo uno prospetto particolarmente speciale è l’assenza di paura con cui si mette in gioco, con cui compete, l’assenza di ogni timore reverenziale verso i palcoscenici che sta calcando. E forse è una questione di DNA: in campo ha l’aggressività, e al contempo la calma, del padre, ma anche l’esplosività di corsa della madre, Danielle Egan, a sua volta calciatrice professionista con 8 presenze nella Nazionale femminile.
Un paio di giocate di Reyna sr con la USMNT (nei quarti di finale del Mondiale 2002, contro la Germania), giusto per capire da chi ha ereditato, Gio, movimenti o letture tipo questo o quest’altra.
E poi Gio Reyna ha una storia familiare che deve averne forgiato il carattere. Aveva un fratello maggiore, Jack, nato a Glasgow quando Claudio giocava con i Rangers (insieme a Van Bronckhorst, all’amicizia con il quale Giovanni deve il suo nome), grande appassionato di calcio, che stava muovendo i primi passi nella squadra del suo college. A Jack nel 2010 è stato diagnosticato un glioblastoma al cervello, contro il quale ha lottato per due anni prima di spegnersi.
«Giocavano insieme», ricorda il padre. «Lottavano insieme. Jack affondava verso la porta e gli passava il pallone, e Gio ha iniziato a giocare per questo. Voleva essere come lui. Lo aveva idolatrato. Chi ha reso Gio come è oggi, in fin dei conti, è stato Jack». E il giorno successivo alla morte del fratello, Reyna ha detto ai genitori: «Non potrò mai diventare un calciatore professionista, tutto quello che so del gioco me lo ha insegnato Jack».
«Lo vedi già in allenamento che ha qualcosa di speciale», dice oggi di lui Favre. «I movimenti corretti, l’intelligenza in difesa. La capacità di combinare le due fasi». Ma soprattutto la calma con cui controlla il centro del campo e poi accelera per innescare Sancho o Haaland. «Sento già di poter far parte di una nuova generazione di grandi calciatori. Non voglio diventare solo un buon calciatore americano. Voglio essere uno dei dieci più forti al mondo». Presuntuoso? Può darsi. Eppure non si può davvero parlare di altezzosità quando c’è una così limpida visione di dove tutto è cominciato, e come finirà. «Quando ho giocato quella partita [contro il PSG in Champions League, NdR] e ho fornito quell’assist è come se qualcosa mi sia scattato nella testa. Tipo Wow, se continuo così posso davvero diventare un giocatore di classe mondiale. Quella partita ha dimostrato a tutti che non sono un talento che svanirà. Sono qua, e sono qua per restarci».