![](https://cdn.sanity.io/images/ba9gdw6b/production/07ac70a4f2c5311f18f68a259e3ab26a93bb8cad-5273x3515.jpg?w=1&q=40&auto=format)
Se ci si potesse specchiare negli ultimi quindici anni di calcio italiano sarebbe difficile non vedere l'immagine riflessa di Giuseppe Marotta. Quasi tutto racconta della sua influenza sulla Serie A, dalla sua progressiva scalata dei ruoli societari (da direttore generale ad amministratore delegato, e infine a presidente) ai bilanci dei due tra i club più grandi d'Italia, la Juventus e l'Inter, fino ovviamente ai risultati, persino personali. Marotta nel 2014 è entrato a far parte dell’Hall of Fame FIGC ma questo ovviamente è nulla rispetto a ciò che ha vinto "sul campo" con le sue squadre: dieci scudetti - contando anche quello da ex nel 2019, che stando agli almanacchi gli appartiene (a dire il vero gli si potrebbe riconoscere un credito anche per quello successivo) - sei Coppe Italia, sette Supercoppe italiane, tre finali di Champions League, che ok non sono trofei in senso stretto ma insomma. Per completare gli indizi si potrebbe parlare anche dei quattro trasferimenti più onerosi nella storia del campionato, tutti passati per una stretta di mano con Marotta: due in uscita, Paul Pogba e Romelu Lukaku, e due in entrata, Cristiano Ronaldo (ci torniamo) e Gonzalo Higuain.
Se tutti questi traguardi sono in parte frutto delle circostanze e delle opportunità di cui ha beneficiato, è anche vero che Marotta è uno dei primi motivi per cui Juventus e Inter hanno offerto quelle circostanze e opportunità, rispettivamente all’inizio del decennio scorso e a cavallo del successivo. In entrambi i casi c’è la sua firma sulle tante scelte che nel tempo si sono rivelate vincenti, ma sarebbe fuorviante pensare che il suo lavoro non sia cambiato in nulla tra Torino e a Milano. Anzi, i percorsi vissuti con le due rivali sono diversi, e non poco, uno dall’altro. Per i parametri con cui si è dovuto confrontare, innanzitutto: quelli europei imposti dal nuovo Fair Play Finanziario della UEFA (quindi il rapporto tra costo del lavoro e fatturato, che infatti è come il prezzemolo nelle sue interviste) e quelli imposti internamente dalle proprietà. Il modus operandi dello stesso Marotta, un po’ per necessità e po’ per scelta, si è dimostrato versatile, pur con qualche riconoscibile marchio di fabbrica. Ha costruito squadre dissimili nell’identità e nell’edificazione: prima la Juventus di Conte e poi quella di Allegri, quindi il breve ma intenso Conte-bis all’Inter e infine la transizione al calcio di Inzaghi e a un contesto profondamente mutato.
Le fondamenta
Al momento dell’arrivo a Torino - dopo una lunga scalata passata dalle dirigenze di Varese, Monza, Como, Ravenna, Venezia, Atalanta e Sampdoria - la Juventus era in fase di ristrutturazione dalle fondamenta. Sia per quanto riguarda gli asset societari, con lo Juventus Stadium prossimo all’inaugurazione (2011) e l’accordo con il Comune per l'acquisizione della Continassa, sia per il progetto calcistico vero e proprio. Oltre all’arrivo di Marotta (direttore generale) e della sua futura spalla Fabio Paratici (direttore sportivo), il neopresidente Andrea Agnelli accoglieva quell’estate un altro ex blucerchiato: Luigi Delneri, partner in crime dello stesso Marotta nelle (ottime) stagioni precedenti a Genova.
Il ciclo vincente entrerà nel vivo a partire dall’estate successiva, con l'arrivo di Conte in panchina. I lavori sulle fondamenta della rosa invece sono iniziati già nella prima sessione di mercato, tra addii significativi (Cannavaro, Camoranesi e Trezeguet, più avanti toccherà a Del Piero) e l’ampio ricambio in spogliatoio di quei mesi, che avrebbe portato alla Continassa alcuni dei futuri pilastri della rinascita juventina. Su tutti: Leonardo Bonucci (per 15 milioni circa, a fronte dei 42 incassati dalla cessione nel 2017), Andrea Barzagli (pagato meno di un milione a gennaio dal Wolfsburg), Andrea Pirlo (parametro zero in uscita dal Milan) e Arturo Vidal (10.5 milioni, poi venduto a più del triplo). Le basi insomma da cui la “Dynasty”, come direbbero oltreoceano, avrebbero preso forma, e piuttosto rapidamente.
I due settimi posti consecutivi da cui era reduce sono diventati un ricordo lontano già nel 2012, con la sorprendente vittoria del campionato. Da outsider, almeno ai nastri di partenza, e da imbattuti: quello Scudetto atteso da nove anni era nuovamente cucito sul petto. La Juve non se ne priverà più fino al campionato interrotto dalla pandemia, che segnerà un prima e un dopo per la storia bianconera.
Allo stesso modo, all’arrivo a Milano nel dicembre 2018 (a stagione in corso), Marotta è stato investito della responsabilità di rivedere la strategia dell’Inter in campo ma soprattutto nei conti. Due anni prima si era insediata in Viale della Liberazione la nuova proprietà, riconducibile a Suning e rappresentata da Steven Zhang, che si era presentata con tante buone intenzioni ma con idee forse poco adatte al calcio italiano. Una serie di scelte tecniche poco oculate (come i 75 milioni sborsati per Joao Mario e Gabriel Barbosa), unite più avanti a un ferreo blocco dei capitali imposto da Pechino e ai danni collaterali della pandemia, costringeranno Suning a diminuire sensibilmente gli investimenti e fare più attenzione ai paletti del Financial Fair Play. Una necessità che, insieme a quella di costruire un gruppo dirigenziale forte, aveva portato a individuare proprio in Marotta il punto di partenza del nuovo corso, e poi ad affidargli sempre di più le chiavi dell’Inter, fino all’attuale poltrona di presidente.
Marotta è approdato in nerazzurro dopo soli due mesi dal travagliato - più mediaticamente che nella sostanza degli accordi tra le parti - addio ai bianconeri. Un passaggio, questo, che ha cominciato a scavare il solco nelle stagioni a venire tra le due squadre: da un lato la Juventus che, tra scelte avventate e guai giudiziari, è stata protagonista di anni di navigazione a vista; dall’altro l’Inter, ispirata da una nuova guida e oculata nella scelta degli allenatori (Conte prima, Inzaghi poi).
Il mandato di Marotta è iniziato con un imperativo: programmare su base pluriennale per il raggiungimento di un equilibrio sostenibile, senza compromettere - eccessivamente - la competitività della rosa e lavorando per rilanciare nel breve termine un’Inter a digiuno dal triplete del 2010. Si chiedeva insomma a Marotta di trovare il modo, all’inizio con un massiccio dispiegamento di forze e poi in regime di austerity, di replicare quanto fatto Torino.
A Milano ha trovato inizialmente Luciano Spalletti, uno dei tantissimi allenatori con cui aveva già lavorato in passato - vent’anni prima, a Venezia - ma che deciderà di liquidare al termine della stagione 2018/19. Il tecnico toscano era l’artefice del “ritorno a vedere le stelle”, come recitava il claim dei nerazzurri per la qualificazione in Champions (all’ultima giornata), ma a raccogliere il frutto del suo lavoro sarebbe stato un volto più che noto nell’ambiente, anche se fino ad allora come rivale: Antonio Conte. Un ricorso storico della prima estate dell’ex amministratore delegato bianconero, che avrebbe potuto anche trasformarsi nell’incipit di un eterno ritorno dell’uguale nell’estate 2021, dopo l’addio di Conte all’Inter, nel caso si fosse concretizzata l’idea di dare l’incarico a Massimiliano Allegri.
È con l'arrivo di Conte, un'altra volta, che vengono gettate le fondamenta della nuova squadra. Romelu Lukaku (67 milioni), Nicolò Barella (40), Stefano Sensi (25, tra prestito e riscatto) e Valentino Lazaro (21); cui si sono aggiunti poi Ashley Young, Victor Moses e soprattutto Christian Eriksen (in scadenza di contratto, ma pagato comunque 27 milioni per battere la nutrita concorrenza) durante il mercato di riparazione. Tutte spese finanziate in parte con le cessioni o i prestiti di giocatori non più al centro del progetto come Joao Mario, Gabriel Barbosa, Nainggolan, Politano (a gennaio) e Perisic (nel primo anno di Conte), oltre alle partenze dei giovani Radu, Pinamonti (entrambi riacquistati), Puscas, Vanheusden, Adorante e Sala. Anche in questo caso molto è passato per la cessione di un ex capitano. La magistrale operazione che ha portato nelle casse dell’Inter 50 milioni per la cessione di Mauro Icardi, al centro di un caso mediatico e sostanzialmente fuori rosa: l’argentino aveva un valore contabile di soli 1.8 milioni, dunque il prezzo negoziato con il PSG garantiva all’Inter di registrare un’enorme plusvalenza.
Dopo questa fase iniziale, però, la famiglia Zhang ha subito gli effetti della crisi del gruppo Suning e della pandemia. A quel punto la strategia è cambiata. Investimenti mirati, occasioni a parametro zero e plusvalenze sono diventati veri e propri mantra in società, ciò nonostante Marotta e soci sono riusciti a dare seguito alla crescita sportiva del club, come chiesto dalla proprietà e confermato dalla finale di Champions League (2023) e dallo scudetto della seconda stella (2024), ma anche anche dai quattro trofei alzati nel frattempo sotto la guida tecnica di Simone Inzaghi (Coppa Italia 2022 e 2023, Supercoppa Italiana 2023 e 2024). «Quando sono arrivato, forse la tifoseria mi ha visto come un intruso, o peggio, per il mio trascorso alla Juve», ha raccontato Marotta in una recente intervista. «Nello sport, però, sono i risultati che contano - e, per merito e per fortuna, da quando sono arrivato all’Inter sono arrivati buoni risultati. Quindi ora credo di essere simpatico a buona parte degli interisti».
Metodo-Marotta?
Le analogie tra l’inizio del ciclo alla Juventus e l'inizio di quello all'Inter risiedono principalmente nella costruzione della rosa, anche se forse sono meno di quelle che ci immaginiamo. Se volessimo sistematizzarle potremmo individuarne tre, in particolare.
La convinzione, reiterata un’estate dopo l’altra, nel puntare su un “nucleo italiano” e su giocatori di esperienza nel nostro campionato. Qualche esempio: i già citati Bonucci, Barzagli e Pirlo, ma anche Pjanic, Lichtsteiner, Ogbonna, Cuadrado (più volte), Kolarov, Vidal, Sanchez, Darmian, Barella, Politano, Calhanoglu e Acerbi.
La ricerca, capillare e quasi ossessiva, di occasioni a parametro zero (Pirlo, Anelka, Khedira, Emre Can, Llorente, Dani Alves, Godin, Moses, Calhanoglu, Mkhitaryan, Sanchez, Onana, Thuram, Zielinski, Taremi), giocatori in scadenza o comunque “usato sicuro” a prezzo di saldo (Barzagli, Evra, Tevez, Young, Moses, Dzeko, Acerbi, Darmian, Sommer). Una lunga lista di scarti di lusso che ha rappresentato in questi anni il “serbatoio” della Juve e soprattutto dell’Inter, e che in controluce ci fanno vedere la sua abilità nel convincere giocatori di grande esperienza e personalità.
L’oculatezza degli investimenti più ingenti, verso profili che potessero dare la sicurezza di un salto di livello in campo (come Dybala, Higuain, Lukaku, Hakimi o Barella) senza dissanguare i conti della società (e qui non si può citare Cristiano Ronaldo 33enne, operazione che infatti è stata un punto di non ritorno nel suo rapporto con la Juventus).
Come per tutti i dirigenti che si occupano di costruire o modellare una squadra, non sono mancate operazioni infelici, per un motivo o per l’altro: Caldara, Pjaca, Alex Sandro, Bernardeschi, Lazaro, Vidal (2019), Sensi, Vanheusden, Correa, Gosens.
I punti di forza di Marotta si sono incastrati particolarmente bene con le esigenze del calcio durante e dopo la pandemia, e del nuovo scenario che si è andato delineando in Serie A con i problemi della Juventus. Anche in situazioni diverse, e in momenti storici diversi, si possono riconoscere alcuni fili rossi, che poi sono l'essenza del lavoro di Marotta. Possiamo fare un paragone tra Barzagli e Darmian, ad esempio? Non parliamo di livelli tecnici, bensì di occasioni e rapporto tra qualità, prezzo e funzionalità, per due giocatori magari non osannati dai media, ma fondamentali all’interno di gruppi vincenti. O ancora, è forzato un parallelo tra Pirlo e Calhanoglu? Anche in questo caso non in termini di cifra tecnica, nonostante l’analoga posizione del campo, ma come opportunità a parametro zero colte da una diretta concorrente, e rivelatesi determinanti per (ehm) “spostare gli equilibri”.
Un’ultima importante signature di Marotta riguarda il volume e il peso all’interno dei bilanci delle plusvalenze generate dal player trading. Negli otto anni a Torino l’incidenza media sul fatturato totale di queste operazioni si è aggirata intorno al 13%, cifra simile a quella registrata tra il 2019 e il 2023 a Milano (11%, complice il calo dei prezzi di mercato e le ridotte possibilità di investimento dei club europei).
Le differenze
Detto di qualche analogia, è giusto ribadire la diversità tra i contesti in cui Marotta ha operato negli ultimi quindici anni. La Juventus gli ha garantito infatti ampia libertà di investimento, più o meno ininterrottamente, mentre l’Inter soltanto nell’estate del 2019, quando sembrava stesse per iniziare un nuovo ciclo insieme a Conte. Negli anni a Torino il dominio sul campo era tale da permettergli un approccio egemonico anche in sede di mercato, con mosse atte a rinforzare la Juve e allo stesso tempo a indebolire le diretti concorrenti; pensiamo a Benatia e Pjanic, arrivati dalla Roma, oppure a Higuain, strappato al Napoli pagando la clausola da 94 milioni. Operazioni che a Milano non ha potuto mettere in atto con continuità, trovandosi i nerazzurri nella posizione di «doversi creare le possibilità sul mercato», come dice l’attuale presidente.
Un’altra sostanziale differenza tra i due ambienti, infine, riguarda la questione stadio, e si tratta di uno spartiacque non da poco. Lo Juventus Stadium è stato infatti un punto di forza per i bianconeri, che sono una delle poche squadre di Serie A con un impianto di proprietà. Soltanto nel 2017/18, i ricavi da qui generati hanno scollinato quota 55 milioni di euro (56.4), toccando l’11.2% del totale degli introiti iscritti a bilancio; un dato rimasto nel range 10.5% - 14.5% per tutta l’era Marotta, e cresciuto notevolmente con il suo arrivo rispetto agli anni precedenti - sia in termini percentuali (7.7% nel 2009/10), sia in assoluto (17 milioni nel 2009/10).
Lo stadio insomma ha rappresentato un valore per la "Vecchia Signora", mentre è un tema delicato le due storiche rivali milanesi. Inter e Milan sono da anni sono al comando nella classifica di spettatori medi in Serie A, ma si ritrovano impantanate in un estenuante trattativa con Regione Lombardia e Comune di Milano, tra possibili interventi su San Siro e progetti nell’hinterland (Rozzano e San Donato) che sembrano non sbloccarsi mai. I nerazzurri l’anno scorso hanno incassato quasi 80 milioni dalla vendita dei biglietti per le partite casalinghe di Serie A, Champions League e Coppa Italia: una cifra che potrebbe crescere ulteriormente in futuro, potendo contare su uno stadio di proprietà.
Lo stesso Marotta ne ha parlato in questi termini qualche mese fa: «Lo stadio è la casa dell’appartenenza calcistica, il luogo dei sentimenti, la storia, ma anche una fonte di reddito per le squadre, e pure in questo il calcio italiano è enormemente indietro rispetto ai principali campionati europei. Gli stadi devono essere strutture moderne e molti stadi italiani, invece, sono vetusti. San Siro va rispettato come icona, perché è stato un contenitore di grandissime emozioni, di passioni, rappresenta la storia - ma bisogna guardare avanti. Purtroppo, gli interventi strutturali sugli stadi in Italia sono regolamentati da un’infinita serie di livelli burocratici e amministrativi, tanto che diventa impossibile realizzare qualsiasi cosa. Questa situazione ha fatto sì che le due società di Milano abbiano cercato altre strade».
E così, mentre l’Inter lavora per risolvere quanto prima la questione stadio, una nuova stagione si sta affacciando all’orizzonte, insieme all’arrivo dell'ultima settimana del calciomercato estivo. Un’altra sessione in cui il neo-presidente ha condotto le operazioni, semplicemente, à la Beppe Marotta: priorità ai rinnovi di chi ha conquistato da protagonista la seconda stella (Lautaro, Barella, Inzaghi); svincolati top di gamma (Taremi e Zielinski) per garantire ulteriori profondità, soprattutto nel reparto offensivo; operazioni in uscita (Carboni e Agoumè, il prossimo potrebbe essere Dumfries) per dare seguito alla sanificazione dei conti; e acquisti mirati dal campionato italiano (Martinez per il dopo-Sommer, probabilmente non sarà l’ultimo).
Il suo sogno, a tre anni di distanza dall’età cui ha sempre dichiarato di meditare il ritiro (70 anni), sarebbe chiudere con quel traguardo sfiorato in più occasioni, ma mai agguantato: la Champions League. L’obiettivo più concreto, e realisticamente più alla portata, è difendere il tricolore cucito sul petto e andare a caccia del bis. Dopo la scorsa stagione, Lautaro Martinez e compagni sono i favoriti d’obbligo, nonostante una concorrenza rinforzata e potenzialmente in grado di regalare un campionato imprevedibile per tutti i primi piazzamenti. Tra le grandi aspettative riposte sulla Juventus di Thiago Motta, il nuovo Milan di Fonseca, l’Atalanta vincitrice dell'Europa League, il Napoli del vecchio amico Conte e una Roma iperattiva sul mercato, è molto difficile oggi delineare una gerarchia. L’unica certezza, forse, è l’etichetta di “squadra da battere” che si può attaccare ai nerazzurri.
Se sarà ancora #MarottaLeague, come si dice sui social network, sarà il tempo a dircelo. Di sicuro per scommetterci contro serve coraggio, dopo quindici anni del genere e dopo due lunghi mandati in cui ha lasciato le briciole agli avversari. Essere Beppe Marotta alla fine significa proprio questo, risultati alla mano: vincere, che notoriamente aiuta a vincere.