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A Firenze gli stanno per dedicare un giorno, ma, io credo, lo avrebbero fatto in tutte le città in cui ha giocato, e anche in quelle in cui non lo ha fatto. Pochi calciatori sono stati trasversalmente amati come Giuseppe Rossi, in Italia e all’estero. L’universalità nel calcio, però, è un sentimento complicato. Si odiano i vincenti, si amano le figure tragiche. È stato anche per gli infortuni, le ricadute, le sfighe che è stato così ben voluto? È la prima cosa che gli chiedo quando lo incontro. «Sì, perché la mia è una storia in cui le persone, i tifosi, si possono ritrovare, no? Ci sono gli alti e i bassi, c’è il successo ma poi ci sono le ricadute… Tutti noi abbiamo le nostre cadute, e quindi ognuno deve trovare il suo modo per cercare di alzarsi, trovare le sue motivazioni. E io penso che magari qualche spunto, spero, di averlo dato alle persone, non solo ai tifosi delle squadre per cui ho giocato. Perché uno magari vede la mia storia, i miei infortuni, come ho provato a rialzarmi per realizzare i miei sogni, e questo è buono, no? Questa è la mia storia».
Siamo seduti - come da cartella stampa - “all’interno della prestigiosa cornice della Sala Pegaso di Palazzo Strozzi Sacrati, uno dei luoghi simbolo del rinascimento italiano”. Poche ore prima c’è stata la conferenza stampa di presentazione del Pepito day, una giornata a metà tra una festa e la partita d’addio al calcio di Rossi che si terrà il 22 marzo al Franchi (qui trovate i biglietti per l'evento, a cui parteciperanno anche Borja Valero, Seba Frey, Manuel Pasqual, Luca Toni, Antonio Cassano e addirittura Gabriel Omar Batistuta e Sir Alex Ferguson, il primo allenatore di Rossi).
Ovviamente non poteva essere che a Firenze, dove Rossi è stato un beniamino e ha rappresentato perfettamente lo spirito del tifo cittadino, quell’eterno rimpallo tra grandezza e angustia. È forse per questo che Firenze lo ha amato così tanto anche se l’ha visto giocare per appena 42 partite (meno di Arthur Cabral, Cristian Tello e Pol Lirola, per fare tre esempi a caso) e ha deciso di celebrarlo come se fosse un santo, o almeno una cosa loro, come il lampredotto o il Museo degli Uffizi. Prima della partita infatti ci sarà il Corteo Storico della Repubblica Fiorentina, si esibirà un gruppo rock di Firenze, poi ci saranno gli eventi per i bambini.
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Quando in redazione è arrivata la notizia di questa giornata, sono rimasto un po’ stupito. Giuseppe Rossi dà l’addio al calcio? Da una parte sapevo che, di fatto, non era più un calciatore, dall’altra l’immagine che ho di lui è quella di sempre, la faccia da bambino, il talento che mai davvero sfiorisce, l’idea che sarebbe stato il prossimo grande attaccante italiano per molti anni. Gli chiedo perché ha sentito il bisogno di esplicitare questa fine, se si trattava di chiudere un cerchio o cosa. «È stata una cosa di cui abbiamo parlato in due, io e la Fiorentina. Siamo arrivati alla conclusione che sarebbe stato bello dare una bella giornata ai tifosi viola di nuovo. Una cosa bella per me, certo, ma anche per i tifosi viola e per Firenze». Non glielo chiedo, ma quando dice «di nuovo» il pensiero va a quel Fiorentina-Juventus 4-2, tripletta sua dopo essere andati 2 a 0 sotto. È il ricordo che lo insegue in questa giornata, ma che insegue anche tanti altri dei presenti. Lo cita il presidente della Regione, lo cita l’assessore allo sport, lo citano le persone intorno. Mi dicono che quella partita, per una generazione di tifosi della Fiorentina, è stata LA partita. «Era il posto più bello dove essere quel giorno», dice uno. L’unica cosa che Firenze potrebbe volere più di una partita/festa per salutare Rossi, forse, è giocare di nuovo quella partita, con gli stessi giocatori, le stesse azioni, lo stesso risultato, tipo rievocazione della battaglia di Campaldino.
Ma la storia di Rossi non è solo Firenze, quella partita o gli infortuni che gli hanno sabotato la carriera. È la storia di un giocatore fenomenale e unico, quando ha potuto dimostrarlo.
Un calciatore anche atipico, sia per stile di gioco che per percorso, uno che a 12 anni ha lasciato gli Stati Uniti per diventare calciatore in Italia, che poi a 17 è andato al Manchester United e che, a 20 anni, e dopo aver salvato il Parma coi suoi gol, è andato in Spagna. Soprattutto questa ultima scelta di carriera mi è sempre sembrata curiosa, in un momento storico in cui i calciatori che stavano in Serie A restavano in Serie A. «Dopo il Manchester United», mi dice Rossi, «potevo scegliere tra Fiorentina, Villarreal e Sunderland, ma il Villarreal è stata la squadra che più mi ha voluto, che mi ha fatto capire che su di me ci puntava davvero. E infatti credo sia stata la scelta giusta. Lì sono stato per cinque bellissimi anni, ho giocato ad alti livelli e, credo, di aver fatto vedere il mio talento».
Ma qual è il talento di Rossi? Come ha detto Borja Valero, anche lui presente alla conferenza, «la gente non si rende conto di cosa aveva nei piedi». Anche io faccio fatica a rendermene conto, seppure sono certo che sia stato uno dei migliori calciatori italiani che ho visto giocare. Cosa aveva nei piedi Rossi? L’ho chiesto direttamente a lui, che prima si sminuisce - «l’ho pagato per dirlo» - poi prova a rispondere: «non so come mi percepivano i calciatori con cui ho giocato o anche i tifosi, io quello che posso dire è che ho sempre provato a giocare a modo mio. Se lui la pensa così mi fa piacere, significa che sono riuscito a trasmettere qualcosa, però io non mi sono mai sentito superiore a nessuno, ho cercato di essere un esempio nel modo in cui mi affrontavo gli allenamenti e le partite, questo è stato il pensiero che ha guidato la mia carriera. Sentire quelle parole da un amico, ma anche un grande calciatore, mi riempie di orgoglio».
L’argomento mi interessa, perché io Rossi l’ho visto crescere in campo diciamo (abbiamo circa la stessa età), ma se dovessi trovare un paragone, spiegare come giocava o collocarlo nel calcio di oggi, avrei qualche difficoltà. Anche il soprannome Pepito, genesi di Bearzot e che richiama il Pablito di Paolo Rossi, non mi sembra troppo azzeccato, visto che lo ha inquadrato in quel genere da attaccante di rapina, che non era, o almeno non propriamente. Quindi insisto sull’argomento che-calciatore-era-Rossi. Che faceva in campo? «Io facevo il ruolo del nove e mezzo», mi dice, «un centravanti che però veniva a giocare con i compagni, creava spazi, faceva uscire i difensori dalla loro posizione per metterli in difficoltà dove non si trovano a loro agio. Cercavo di giocare in questo modo, perché mi permetteva di fare quello che mi faceva comodo, cioè avere il pallone». E oggi? In che ruolo giocheresti oggi? Ala? «No, ala no, perché bisogna correre troppo». Centravanti? «No, perché oggi si gioca con un centravanti bello tosto, bello grande, che deve difendere il pallone, buttarsi in area di rigore, trovare lo spazio per fare gol. Però nello sviluppo di gioco non è molto presente. Come giocavo io… ti dico la verità? Quanti ci sono che la giocano oggi? C’è solo Messi, e ok, forse Dybala… però non so chi altro gioca in quel ruolo del nove e mezzo, un ruolo che non c’è più».
Come i due che ha citato, anche Rossi è mancino. Il suo piede magari non aveva altrettanta pulizia tecnica lungo tutto il campo, ma la rapidità e la precisione con cui calciava, come riusciva a coordinarsi nello spazio di un respiro, a restringere il tempo per l’intervento per i portieri mi è sempre sembrato il suo tratto distintivo, la differenza che gli permetteva di essere un incubo negli ultimi venti metri di campo, anche senza avere il fisico di un corazziere. Gli chiedo se è qualcosa d’innato oppure se ci ha lavorato. «Io quando ero piccolo... cioè quando ero nel Manchester United avevo un grande maestro davanti a me che si chiamava Ruud Van Nistelrooy, e vedevo il modo in cui lui si girava e tirava in porta, come il difensore non trovava mai il tempo di fermarlo e il portiere di arrivarci, e questo perché era così veloce nel tirare in porta che non avevano il tempo. Io avevo capito questa cosa qui e ho iniziato a lavorarci, perché in area di rigore per un attaccante lo spazio è sempre poco e quindi bisogna sfruttare quell'attimo di spazio che hai. Se sei capace di tirare in porta o di fare qualche giocata nel poco spazio disponibile, diventi un re in area di rigore. Riesci a fare gol, a fare giocate decisive. Quindi è grazie a lui che ho capito, e poi da lì ho sempre cercato di migliorare».
Rossi è stato un re in area di rigore, ma quand’è che si è sentito veramente inarrestabile? «Quando ho fatto 32 gol con il Villarreal (la stagione 2010/11, nda), in estate poi mi volevano il Barcellona e la Juventus. È stata un’annata bellissima quella per me, purtroppo poi all’inizio della successiva mi sono rotto il crociato, e poi è successo quello che è successo con gli infortuni…». A questo punto sembra aver esaurito la sua risposta, però poi ci pensa e aggiunge: «Però guarda, ti dico la verità: anche con la Fiorentina… durante quei 6/7 mesi prima di infortunarmi mi sentivo quasi sullo stesso livello. Mi sentivo intoccabile, che ogni palla che toccavo era oro, sentivo che ogni volta potevo fare gol o assist, o comunque una bella giocata. Mi sentivo in grado di cambiare la partita con qualsiasi pallone avevo tra i piedi. Sentire questa sensazione su un campo da calcio è molto raro ed è bello sentirlo in maniera continuativa. Io purtroppo l’ho sentito solo per una stagione o per 6/7 mesi… i grandi lo sentono per anni, anni e anni. Per questo riescono a fare più stagioni con 40-50 gol, perché, se glielo vai a chiedere, loro ti dicono che si sentono intoccabili».
Se gli infortuni non sono tutta la storia di Rossi, sono un eterno ritorno da cui è impossibile sfuggire. Ricostruirne la cronologia è doloroso: il 27 ottobre 2011 si rompe per la prima volta il crociato, mentre è il terzo miglior attaccante della Liga dopo Messi e Ronaldo. Durante la riabilitazione, si rompe di nuovo lo stesso legamento dello stesso ginocchio. In totale perde 558 giorni. In questi due anni il Villarreal retrocede e lui viene ceduto alla Fiorentina. Torna in campo con i Viola il 19 maggio 2013, poi il 6 gennaio 2014 si infortuna di nuovo al ginocchio in una partita contro il Livorno, mentre è saldamente capocannoniere del campionato e la Fiorentina sta lottando per un posto in Champions League. Torna dopo 116 giorni, ma non riesce a farsi convocare per il Mondiale. In estate, poi, si scoprono nuovi problemi al ginocchio che lo costringono a saltare anche la stagione successiva. Mi fermo qui, ma siamo solo a metà.
Quando hai capito che non saresti più tornato al picco della tua carriera? Gli chiedo in una maniera che, mi accorgo ora, è abbastanza brutale. «Dopo l'ultimo crociato al Celta Vigo (sì, perché c’è un’altra rottura del crociato nella sua carriera, nda). Al Celta Vigo mi sono rotto di nuovo e ho dovuto rifare tutto… tutto il ginocchio, tutto da capo. Da lì sono tornato, però mi mancava qualcosa. Quindi ho cercato di coprire quello che mi mancava con altre cose a livello psicologico. Ho cambiato il modo di giocare, giocare più di prima, più da fermo. Perché uno si deve adattare al fisico che ha. Lì ho capito che a certi livelli era finita, ma potevo ancora divertirmi giocando. Mi sono divertito… non era quello che volevo ma va bene, perché alla fine io volevo giocare a un livello più alto, avevo quell’ambizione, però il percorso è stato questo, il destino era quello e quindi bisognava camminare su quella strada lì».
C’è una cosa di cui mi sono accorto cercando di recuperare la sua storia. Rossi non parla mai di dolore, oppure di sfortuna, non se la prende mai con l’avverso. Le frasi che dice in quegli anni, tra una riabilitazione e l’altra, mi hanno stupito: «Se hai deboli le ginocchia, non puoi permetterti di avere anche la testa fragile», oppure «La cosa peggiore che tu possa pensare è di essere perseguitato dalla sfortuna. Questo meccanismo si mette a creare dubbi nella testa e ti distrae». «Non ho mai sentito dolore, era solo per la tristezza per aver sentito quel crack… non era bello sentirlo di nuovo». Quello che gli chiedo è se è venuto a patti con questa tristezza, se è possibile superarla col tempo. «Magari ti fai delle domande», mi dice Rossi, «adesso che ho finito col calcio dico che sono orgoglioso di quello che ho fatto, però a volte penso “cavolo, se non mi succedeva quello che mi è successo, chissà dove potevo arrivare…”, però sono domande che bisogna toglierle subito dalla testa, perché da una domanda poi ne fai due, ne fai tre, ne fai quattro, poi vai in giro per la casa col muso lungo». Si ferma un attimo, poi continua: «Devo ricordarmi che la carriera è finita. Hai dato tutto Giuseppe? Sì, e allora stai tranquillo, perché tutto quello che potevi controllare, lo hai controllato. Non andare in giro col muso lungo, perché hai una moglie e due figlie che contano su di me. Questa è la mia scusa per non andare in giro col muso lungo».
L’intervista è finita, per Rossi è stata l'ultima di una lunga giornata. Con tutti è stato disponibile e gentile, con tutti ha parlato di Fiorentina-Juventus 4-2, degli infortuni, di cosa poteva essere e non è stato. Fuori il cielo è grigio, c’è un sottile velo di nebbia, ma non ferma i turisti che sciamano intorno al Duomo. Penso che sia il clima giusto per una giornata così, vissuta nel ricordo e nella malinconia. Poi però mi torna in mente un’altra frase che mi ha detto Rossi, parlando dell’affetto avuto dalla gente: «Sentivo l’amore di Firenze e il rispetto degli altri. Mi faceva sentire davvero orgoglioso e credo che tutti i calciatori vogliono questo prima: il rispetto dei propri compagni, il rispetto dei tifosi e di tutto il mondo del calcio». Rossi questo lo ha avuto e non c'è infortunio che possa toglierglielo.