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Mi è sembrato di vedere Signori
30 mar 2022
Cosa ha significato Signori per un tifoso della Lazio.
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28 min
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Quando dalla radio arriva la notizia che Sergio Cragnotti ha praticamente ceduto Beppe Signori al Parma, che «mancano solo le firme», che sul tavolo ci sono 25 miliardi di lire, sono seduto in macchina. Sono un bambino di otto anni che a casa ha una sciarpa blu elettrico, sopra c’è stampata la foto di Signori che esulta dopo un gol segnato contro la Cremonese (questo, ne sono abbastanza convinto) e la frase «E segna sempre lui» scritta con un font che ricordo bruttissimo. Non ho vissuto gli anni affannati e formativi della Serie B, non so cosa voglia dire vedere la squadra per la quale faccio il tifo sull’orlo del baratro della C.

Quello che so è quello che ho respirato attorno a me nelle poche partite viste allo stadio e in quelle seguite da casa, nei racconti di mia madre che per colpa mia (e di Signori) è tornata all’Olimpico dopo anni di assenza, lei che ancora maledice il fatto di non aver avuto il permesso di fare invasione in Lazio-Foggia del 1974, oppure in quelli di mio nonno, che a sentir lui qualunque avversario correva più di noi. O nelle frasi che senti dire allo stadio da sconosciuti che ti sembrano ancora più grandi di ciò che sono realmente, in quello strano senso di familiarità che si crea con persone che, con l’abbonamento in tasca, inizi a vedere con cadenza regolare, più di una zia o di un cugino lontano, e delle quali inizi a conoscere i rituali, le stranezze, gli slanci di sorprendente cortesia o di improvvisa e gratuita violenza verbale.

Di quella squadra che cercava di scrollarsi di dosso anni complicati, prenotando un posto al tavolo delle grandi, Beppe Signori non era semplicemente il calciatore più forte. In due anni, con 49 gol in campionato e due titoli di capocannoniere, aveva gettato le basi per un rapporto che andava oltre. Nel terzo, dopo un Mondiale in cui si era sacrificato in un ruolo non suo prima di far volare le sedie in uno scontro con Arrigo Sacchi, era diventato il capitano, l’icona, l’orgoglio. E così, quando dalla radio arriva la notizia, mi ritrovo in macchina. Non ricordo perché, non ricordo verso dove: penso di saperlo, ma potrebbe essere uno di quei ricordi distorti che costruiamo nella nostra mente a distanza di anni. Ma siamo stati tutti bambini e siamo stati tutti bambini tifosi. Ce l’abbiamo avuto tutti un poster appeso alla porta, al muro, sull’anta di un armadio. Il mio poster era Beppe Signori che urla verso qualcuno o qualcosa, i muscoli tirati e i pugni stretti, la fascia rossa da capitano con la C bianca stretta attorno al braccio. E quel giorno di giugno del 1995, non potendo immaginare ciò che sarebbe accaduto, sono un bambino di 8 anni che piange.

L’eredità di Ruben Sosa

Il romanzo di formazione “pre-Lazio” di Giuseppe Signori detto Beppe è storia sufficientemente nota a tutti: il repentino ingresso nel settore giovanile dell’Inter, il taglio a sedici anni in quanto troppo basso e gracile, le sgomitate nelle serie inferiori alla ricerca di una dimensione ben precisa fino all’arrivo a Foggia nell’estate del 1989. Anche in questo caso, l’aneddoto del primo incontro con Zeman è stato spremuto come un limone fino a diventare privo di interesse: Signori, che arrivava a Foggia da mezza punta poco consistente sotto porta negli anni con Leffe, Trento e Piacenza, sente il boemo salutarlo con l’appellativo di bomber e lì per lì pensa che Zeman stia parlando con Meluso. È una storia come un’altra, insomma, un allenatore che ha un’intuizione e un calciatore che trova finalmente la sua strada. Con Zeman, Signori diventa una micidiale ala sinistra. Un suo gol salva la panchina del boemo il primo anno – glielo farà presente praticamente sempre negli anni a venire – e il Foggia prende piano piano forma, fino a diventare la macchina perfetta che nella stagione 1990/91 ottiene la promozione in Serie A.

Decisamente più rilevante è il potenziale punto di svolta vissuto da Signori per ragioni che con il calcio hanno poco a che fare, ma che ci raccontano tutto il resto, il contorno profondamente religioso della sua famiglia, una devozione sconfinata per Padre Pio. Nel 1991, sulla San Severo-Apricena, Signori ha un terrificante incidente stradale. Roba da lasciarci la pelle. Ne esce illeso. Quel giorno, come spesso gli accade, ha addosso una maglia benedetta da Padre Pio. Facile parlare di miracolo, di un disegno più grande cucito su misura per quel ragazzo che è ancora basso e gracile, ma ha scoperto di avere un sinistro fuori dal comune. Gli esterni d’attacco a piede invertito sono ancora un miraggio, con Zeman in panchina Beppe ha il compito di tagliare spesso senza palla alle spalle di difese che non sanno come opporsi a una fase offensiva che pare provenire dal futuro. Nasce qui il tridente delle meraviglie con Baiano e Rambaudi, con quest’ultimo chiamato a mettere equilibrio per tutti a tre, anche se Signori sa cosa vuol dire il sacrificio: non si scompone davanti agli allenamenti di Zeman - «Bisognava sapersi gestire, se c’era da fare 9 volte i 1000 metri in 2’50”, 3’, l’ultimo lo considerava quello di carattere, e io lo facevo sempre in 3 minuti e mezzo. Vedevo tanti giovani che arrivavano a fare 2’30”, io gli dicevo “Siete matti, non avete capito che nel pomeriggio ci alleniamo ancora”. È vero che gli allenamenti erano duri, ma non erano così massacranti se ci si sapeva gestire» -, forse ripensa a quando, per arrotondare, riparava macchinari pur giocando già nelle serie inferiori. Il primo anno in A si chiude come l’ultimo in B: 11 gol, 11 come il numero di maglia che lo accompagnerà anche in tutta la sua esperienza laziale. Il bomber di quella squadra è Francesco Baiano. Per qualche mese, il nuovo proprietario biancoceleste, Sergio Cragnotti, coltiva l’idea di portarli entrambi alla Lazio. Ma il mercato è mutevole, Casillo capisce che dividere il pacchetto può fruttare più di un formato convenienza. Alla fine Baiano va alla Fiorentina, Cragnotti deve decidere in fretta. Non ha ancora grande esperienza, pur essendo squalo in un mondo di squali, è un mercato nel quale si lascia per esempio sedurre da un maxi affare con la Cremonese che porterà a Roma contemporaneamente i difensori Bonomi e Favalli e il centrocampista Marcolin, mentre insegue a lungo un portiere (Marchegiani e Ferron su tutti) rimanendo con un pugno di mosche in mano, costringendo Dino Zoff ad alternare senza troppa convinzione Fiori e Orsi. Spalle al muro, però, decide che il biondino del Foggia è l’uomo giusto per raccogliere un’eredità scomodissima.

La Lazio ha appena venduto Ruben Sosa all’Inter, l’uruguaiano era stato l’acquisto straniero più azzeccato della precedente gestione, quella di Gianmarco Calleri. Nei giorni di mestizia, quando la squadra si trascina stancamente da una parte all’altra dell’Olimpico, potete ancora oggi sentire uno dei cori a lui dedicati: una filastrocca che lo abbinava agli altri due stranieri della stagione 1989/90, Amarildo e Pedro Troglio, lascito di un calcio che non esiste più e riporta alla mente una Lazio che aveva poco da dare, ma quel poco lo gettava tutto sul terreno di gioco. Signori arriva per prendere il posto di un attaccante dai guizzi devastanti: rapido, baricentro basso, la capacità di inquadrare i pali con il sinistro da qualsiasi posizione. Di Beppe si parla bene, è già nel giro della Nazionale di Arrigo Sacchi, ma non ha la fama del realizzatore spietato: con Zeman ha segnato 37 gol in 100 partite tra Serie A e Serie B. Zoff gli disegna attorno una Lazio in grado di esaltarlo. Il suo teorico compagno d’attacco è Kalle Riedle, uno dei più incredibili saltatori – in relazione alla stazza – che siano mai passati per il nostro campionato. Ma quello è il suo ultimo anno a Roma, gioca all’incirca la metà delle partite, in più c’è la regola dei tre stranieri a complicare le cose, perché Winter a centrocampo è intoccabile, ma ci sono anche Thomas Doll e Paul Gascoigne. Capita spesso, dunque, di vedere Winter con addosso la maglia numero 9 e Signori unica punta effettiva di una squadra che ha un solo obiettivo: armare il suo sinistro.

Si presenta con una doppietta alla Sampdoria, poi segna anche con Fiorentina e Cagliari. Si prende un turno di stop con il Genoa e cala la prima tripletta in Serie A, contro il Parma: era stata anche la squadra destinataria del suo primo gol nella massima categoria ai tempi di Foggia. Diventa una tassa per le difese di tutta Italia.

L’aria che si respira all’Olimpico nel momento in cui Signori, che sia a 20, 15 o 10 metri dalla porta, accarezza il pallone per portarlo in posizione di sparo col mancino, è qualcosa di complicato da rendere a parole. Esistevano, esistono ed esisteranno tanti attaccanti che non hanno bisogno di vedere la porta per trovarla. Signori era uno di quelli. L’attimo di sospensione che si creava nel momento in cui caricava il mancino era un brivido lungo la schiena, un bambino che aspetta Babbo Natale, la figura della persona che si ama che si staglia in lontananza in una di quelle sale senz’anima di un aeroporto, tutte uguali una all’altra se non fosse per le persone che le popolano. Era attesa, emozione, felicità, bellezza. Era una scarica elettrica. Ho cercato per anni qualcuno che calciasse in quel modo, volevo rivedere un giocatore in grado di aprirsi verso sinistra e incrociare con una combinazione di potenza e precisione che teoricamente dovrebbe essere impossibile, considerati gli angoli che Signori andava a esplorare. È come se quel modo di concludere verso la porta fosse sparito insieme agli anni Novanta. Batistuta era un altro esemplare incredibile di attaccante in grado di pescare l’angolo opposto in diagonale scagliando delle saette imprendibili. Forse erano quei palloni più pesanti di ora a rendere ancora più magica la ricerca di questo modo di calciare dritto, senza effetto: la strada più rapida per raggiungere il punto B partendo dal punto A. Geometria emozionale.

La partita in cui Signori dimostra di essere un attaccante di un’altra categoria. Sugli spalti, uno stupefatto Ruben Sosa si confronta con un Enrico Montesano ancora non alle prese con i retropensieri dell’era Covid.

Una settimana prima del gol all’Inter che vedete qui sopra c’era stato quello bellissimo al Pescara, oscurato da una delle reti più incredibili degli ultimi 40 anni di Serie A, il corpo di Paul Gascoigne che per qualche attimo si fonde con quello di Thomas Stangassinger e passa attraverso tutta la difesa abruzzese. E una settimana più tardi segna un altro gioiello in una partita d’altri tempi: neve alta e pallone rosso ad Ancona, in contropiede si trova la palla accomodata da una scivolata di Doll e decide che la cosa più semplice da fare per battere Micillo è scavalcarlo con un pallonetto che ai miei occhi non ha tutt’ora alcun senso. Le scelte dei grandi campioni ci raccontano un calcio che non sembra essere alla nostra portata: pensare di andare a colpire da sotto quel pallone rosso, scavando alla ricerca di un pezzetto d’erba in mezzo al ghiaccio e alla neve, è una questione di attimi, una frazione di secondo per decidere cosa fare. Ragionandoci per davvero, evitare di andare in conduzione è effettivamente la soluzione più logica. Ma perché il pallonetto, perché aggiungere uno strato di difficoltà rispetto a quella che poteva essere una conclusione di potenza, o anche solo un bel sinistro a giro?

C’è anche un altro gol, disseminato nella prima parte di stagione, in cui Signori dà la percezione di essere qualcosa di diverso dagli altri. La retorica bomberista cita spesso Pasquale Bruno come emblema del difensore che, trasportato nel calcio di oggi, darebbe filo da torcere ai migliori realizzatori del nostro campionato. In questa azione, Signori può attaccare Bruno in campo aperto. Il pallone gli si avvicina poco dopo centrocampo, sta rotolando verso la linea laterale. Quando vediamo per la prima volta le due sagome, Beppe-gol è in vantaggio sul pallone ma la posizione di Bruno è teoricamente quella giusta, a negargli la possibilità di un attacco diretto alla porta. Teoricamente. Nel momento in cui tocca il pallone, i due sono praticamente in linea. Se fosse una gara di Formula 1, diremmo però che Bruno può fare la curva “all’interno”. Signori deve trovare un modo per arrivare a concludere partendo da una posizione di svantaggio. Lascia che il pallone faccia la strada per primo, lo tocca una sola volta. Non è uno stop, è un volersi togliere il pensiero: che vada pure da solo, mentre io ingaggio il duello. La postura dello scatto di Signori si fa sgraziata, è totalmente proiettata verso la figura di Bruno: vuole tenerlo a distanza, ma per farlo sembra una di quelle piante che finiscono per mutare la loro posizione originale alla ricerca del sole. Per un brevissimo momento gli mette quasi la testa sotto l’ascella. A questo punto Bruno sa di non poter più fare fallo, perché siamo già in area di rigore: allarga le braccia e Signori è proprio dove voleva essere all’inizio dell’azione. Spostato leggermente sulla sinistra, a un paio di metri dal vertice dell’area piccola. Vuol dire solo una cosa: diagonale, gol.

La visione dall’alto (che trovate qui) ci restituisce l’insieme, mentre questa telecamera bassa, tipica dei servizi di Domenica Sprint e della Domenica Sportiva, che si differenziavano dal taglio asciutto ed essenziale di Novantesimo Minuto, ci aiuta a vedere l’incredibile sforzo fisico di Signori, che a un certo punto sembra tagliare l’aria con la testa.

Alla fine della stagione, Signori è capocannoniere con 26 gol segnati in 32 partite giocate. La Serie A ha anche scoperto il suo modo di calciare i rigori: non ne aveva mai tirati con la maglia del Foggia, mentre a Roma è il rigorista di riferimento. Ricordo ancora la paura che provavo ogni volta che lo vedevo sul dischetto. Una paura irrazionale, visto che la percentuale di trasformazione di Signori era più che buona. La scelta tra il piatto aperto, col portiere spesso seduto dall’altra parte, e il mancino incrociato, potentissimo, a buttare giù la porta, passava da un trucchetto da campo di periferia: lo sguardo fisso sulle ginocchia del portiere, per capire l’angolo e scegliere quello opposto. Non ero l’unico ad avere paura: Roberto Di Matteo, che sarebbe arrivato alla Lazio all’inizio della seconda stagione biancoceleste di Signori, si piazzava nel cerchio di centrocampo con le spalle rivolte alla porta del rigore. Per non vedere, e limitarsi a sentire il boato.

Diventare re

Definire tormentata la prima parte del campionato 1993/94 è un eufemismo. Signori è fuori per infortunio e la Lazio apre la stagione malissimo, uscendo in Coppa Italia contro l’Avellino e finendo nel vortice della contestazione dei tifosi. Ci si ritrova in mezzo anche lui, con tanto di macchina danneggiata: «Se dovesse accadere nuovamente una cosa del genere, prenderei decisioni drastiche sul mio futuro». Il rapporto tra Signori e il tifo della Lazio è stato spesso ondivago, c’è chi ancora gli rinfaccia una frase contenuta in una sua autobiografia dei primi anni 2000, nella quale elogiava la tenacia dei tifosi romanisti a discapito della volubilità dei laziali. Ma c’è una robusta fetta di 30-40enni di oggi diventata laziale grazie a lui, ai suoi gol, alle sue esultanze in cui alternava gioia pura e qualche vaffa.

Il primo gol del secondo anno arriva solo all’ottava giornata, alla sua seconda presenza in campionato. Difendere il titolo di capocannoniere sembra un’utopia, ma a sostenere la sua risalita arriva un nuovo partner d’attacco: Cragnotti porta a Roma Alen Boksic, che ho provato a descrivere così tante volte da aver finito le parole. Prendo in prestito quelle di Alessandro Del Piero: «Era fisiologicamente inumano. Uno così alto e grosso non poteva essere così veloce. Se avesse segnato il 20% delle occasioni che creava, staremmo parlando di un attaccante da 1.200 gol». Nasce una coppia perfetta: Boksic ad aprire spazi con la sua potenza fisica straripante e una tecnica fuori da ogni logica, Signori ad affondare in profondità a piacimento. Quella Lazio è un’icona degli anni Novanta, un 4-4-2 scolpito nella roccia, con Fuser a martellare la fascia destra. A fine girone d’andata il bottino di Beppe-gol è di sette reti: ne infila sedici nel girone di ritorno, in sole quattordici partite. La già citata doppietta alla Cremonese al rientro da un altro guaio fisico, la tripletta col Cagliari.

Arriva anche il marchio a fuoco nel derby, il primo della sua carriera. Una girata di destro al volo, nella nebbia dei fumogeni, dopo soli sei minuti. Signori ha la fascia al braccio per l’uscita repentina di Bergodi per infortunio: segna sotto la Sud e si fa 100 metri di campo per andare a esultare sotto la Nord e mai come stavolta il coro «Mi è sembrato di vedere Signori», visto il nebbione, ha senso. È il gol che decide la partita e interrompe una striscia di sette pareggi consecutivi nel derby della Capitale: sei 1-1 e uno 0-0, un filotto impressionante di mediocrità, calcioni e battaglie per posizioni secondarie del campionato, nobilitate solo ogni tanto da qualche giocata fuori dagli schemi, come i gol di Völler e Sosa, il primo centro italiano di Gascoigne, un destro insensato di Piacentini. Signori segnerà altre due volte nei derby, entrambe su rigore e sotto la Nord: una volta togliendosi la maglia e andandosi ad aggrappare alla vetrata in una stracittadina che non avrebbe neanche dovuto giocare per le sue condizioni fisiche approssimative, un’altra a 5’ dalla fine per il definitivo 1-0, correndo verso la curva e facendosi espellere in quanto già ammonito. Daniele Manusia, in un pezzo nel quale celebrava alcuni dei gol segnati da Signori con il Bologna, tornava sull’esperienza laziale scrivendo che per lui, da romanista, «Signori è stato come crescere con un dolore al ginocchio a cui non potevo smettere di pensare».

Note di colore: le lacrime di Gascoigne, Mihajlovic con la maglia della Roma, una mezza rissa tra Boksic e Cappioli, Totti che al suo primo derby, non ancora diciottenne, si abbatte sulla partita come un uragano procurandosi il rigore che poi Giannini sbaglierà.

A fine anno, Signori è ancora una volta capocannoniere, con 23 reti in 24 presenze: ci infila anche una tripletta su punizione contro l’Atalanta. Ad attenderlo, nella prima gara in casa della stagione successiva, c’è una corona: la festeggerà con una doppietta al Torino, ma in mezzo sono successe molte cose. C’è stato, soprattutto, il Mondiale che lo porta a rompere con la Nazionale: Arrigo Sacchi, mai persuaso dalla possibile convivenza di Signori e Baggio come tandem d’attacco nel suo 4-4-2, si lascia convincere proprio alla vigilia del torneo statunitense, anche a causa delle amichevoli pre-mondiale risolte tutte da Signori (1-0 alla Svizzera, 1-0 al Costa Rica). Ma è come se aspettasse il primo segnale negativo per rinunciare.

All’esordio nel Mondiale, con la coppia Baggio-Signori, nei primi 45 minuti l’Italia va sotto contro l’Eire. Sacchi infila subito la retromarcia, inserendo Massaro e destinando Signori, reduce da 49 gol nelle ultime due stagioni, a fare il soldatino sulla fascia sinistra. Beppe mastica amaro ma accetta. Con la Norvegia, dopo l’espulsione di Pagliuca, gioca una partita irreale, pennella l’assist per l’altro Baggio, Dino, e quasi non fa sentire all’Italia l’inferiorità numerica. Ma quella posizione gli sta stretta, sente di non poter incidere, e dagli ottavi in avanti, con l’esplosione tonante di Baggio, diventa una comparsa, nonostante il disperato assist proprio per il Divin Codino contro la Spagna. Alla vigilia della finale, con le condizioni della stella azzurra in forte dubbio, Sacchi prende da parte Signori e gli spiega che ha ottime chance di partire titolare insieme a Massaro. Quando invece il ct decide di forzare la presenza di Baggio, Signori, che già contro Spagna e Bulgaria era partito dalla panchina, rompe con il commissario tecnico, pregiudicandosi la possibilità di entrare a gara in corso contro il Brasile: «Tornassi indietro, chiederei di giocare a centrocampo. Chissà, magari avrei battuto io un rigore e lo avrei segnato», ha raccontato al Foglio qualche mese fa.

Una curva in piazza

Superato il Mondiale, prima dell’incoronazione della Nord, Signori ritrova Zdenek Zeman: la grandeur cragnottiana ha individuato nell’architetto di Zemanlandia l’uomo giusto per sognare l’assalto allo scudetto. È un passo più lungo della gamba, ma è comunque uno step necessario per diventare davvero grandi. Ci si aspetta un’annata furoreggiante di Beppe-gol, ma la realtà è che il calcio di Zeman esalta tutti gli attaccanti, non solo uno. A Roma arriva anche Rambaudi, il braccio armato perfetto per le idee del boemo sull’out di destra. Con Signori dall’altra parte, Boksic e Casiraghi devono lottare per una maglia e spesso il croato finisce in fascia a discapito di Rambaudi, ma l’abbondanza dell’attacco non trova corrispondenze negli altri reparti. Per il nuovo capitano della Lazio la stagione è un passo indietro dal punto di vista realizzativo: “solo” 17 gol in campionato. La squadra chiude al secondo posto, anche se a distanza siderale dalla Juventus capolista, ed esce ai quarti di finale di Coppa Uefa contro il Borussia Dortmund. Nel cammino europeo, Signori non trova mai la via della rete: è una maledizione quasi inspiegabile. Nel quarto di andata contro i tedeschi ricordo di essere entrato allo stadio nel corso del primo minuto della partita: cercavo di sporgermi dagli scalini mentre la Lazio attaccava e riuscii a malapena a vedere la traiettoria del mancino di Beppe che colpiva prima un palo e poi l’altro. Per i tifosi laziali più masochisti, qui c’è la riproduzione integrale di quella partita: una vittoria più larga di quell’1-0 striminzito forse avrebbe impedito al BVB di ribaltare il discorso al ritorno e avrebbe cambiato la storia di quella Lazio.

Quando mi ritrovo a parlare di Signori, a cercarne i frammenti su YouTube in dei momenti di noia, finisco sempre per vedere un determinato gol in loop. È una rete che segna nel 4-0 rifilato al Milan all’Olimpico, una di quelle classiche partite zemaniane in cui tutto sembra andare alla perfezione, con la Lazio che fa quattro gol ma potrebbe segnarne sei, sette, otto. Quel pomeriggio, il 19 febbraio del 1995, Signori realizza una tripletta che solamente le regole dell’epoca derubricano in doppietta, togliendogli la quarta rete per una deviazione di Baresi che oggi non verrebbe neanche considerata. In mezzo, tra il gol per il quale provo quella che può essere definita un’ossessione e la deviazione di Baresi, c’è il solito rigore calciato da fermo. Quello che mi interessa è il primo gol, quello del momentaneo 2-0. A Signori arriva una palla direttamente dalla trequarti, prende bene il tempo alla difesa e si trova alle spalle del pacchetto arretrato milanista. Da quella posizione, segnare non è difficile, specialmente per un attaccante con quella confidenza verso la porta. Ma farlo nel modo in cui lo fa Signori è qualcosa che mi fa sobbalzare sulla sedia ogni volta.

Per come arriva questo pallone, e per come è posizionato Signori in quel momento, calciare al volo non è la soluzione più immediata. Ma deve aver visto, in qualche modo, il corpo di Sebastiano Rossi spostato fin troppo sul secondo palo, che sarebbe peraltro la destinazione più logica per una conclusione al volo. Gli esce un tiro impossibile, un esterno sinistro schiacciatissimo. Il pallone resta radente al suolo, Rossi è piantato sulle gambe perché la soluzione scelta da Signori non ha praticamente senso. Il coefficiente di difficoltà è incredibile, è come se sullo specchio della porta fossero comparsi degli ipotetici bersagli con punteggi diversi e avesse scelto quello più alto, lo stile che incontra l’efficienza. Esulta battendo i piedi a velocità supersonica, un’esultanza tipica del suo repertorio post-gol. È una di quelle partite in cui chi si è occupato di stampare i numeri ha finalmente trovato la giusta distanza tra i due 1 che porta sulle spalle: nell’epoca pre-nomi sulla maglia, l’11 di Signori era sempre troppo largo o troppo stretto. Nonostante questo idillio, i tifosi della Lazio rischiano di non vederlo più, quell’11.

Nel giugno del 1995, Cragnotti è pronto a sacrificarlo sull’altare del mercato. Il patron della Lazio, che ha lasciato a Zoff il ruolo di presidente dopo aver portato Zeman a Roma, ha chiuso la trattativa con il Parma dell’amico Calisto Tanzi. È un fulmine a ciel sereno: il 10 giugno Zoff dichiara Signori incedibile per mezzo stampa, mentre il sacrificabile pare essere Boksic, troppo bizzoso per piacere a Zeman. Contemporaneamente c’è anche Baggio in uscita da Torino, e nessuno immagina che Roma stia per trasformarsi in una polveriera, proprio come quando il non ancora Divin Codino stava per lasciare Firenze per Torino. Manca ancora qualche mese alla rivoluzione della legge Bosman, la scadenza di contratto di Baggio fa gola a Cragnotti, che può prenderlo versando il “parametro”, fissato a 21 miliardi di lire, o imbastire una trattativa con la Juventus, che sta già parlando col Milan da qualche settimana. La notizia di un possibile addio di Signori appare sui giornali il 12 giugno: offerta del Parma di 25 miliardi di lire, i buonissimi rapporti tra Tanzi e Cragnotti non fanno immaginare possibili cambi di scenario.

A Roma scoppia il delirio. Il capitano della Lazio, in Brasile insieme alla squadra in una di quelle cervellotiche tournée di fine anno tipiche del periodo (tre amichevoli con Atletico Mineiro, Santos e Guarani), manda segnali inequivocabili: «Sono al corrente dell’interessamento ma io voglio rimanere alla Lazio, questo sia ben chiaro». La replica di Cragnotti è altrettanto sibillina: «Un’offerta alla quale non si può dire no». Le scritte sui muri delle prime ore si trasformano in un tornado d’odio. Una manifestazione di massa che passa per le vie del centro con destinazione via Novaro, la sede del club, non potendo trovare sfogo in via dei Cappuccini, dove abita il patron. Cori, proteste, incidenti. Quello che non era riuscito ai tifosi della Fiorentina riesce invece agli Irriducibili, che guidano il corteo all’insegna del «Signori non si tocca» e «Se Signori se ne va bruceremo la città». Le parole nei confronti di Cragnotti sono pesantissime – si va da «Cragnotti attento» a «Cragnotti come Gardini», con riferimento a Raul Gardini, uno degli uomini più importanti per l’ascesa professionale di Cragnotti, suicidatosi il 12 luglio 1993 nel bel mezzo dell’esplosione di Mani pulite, con l’inchiesta che aveva iniziato a scavare sulla vicenda Enimont – e al termine di una giornata di delirio, con le confezioni di pomodori Cirio e latte Parmalat distrutte in strada a fare da monito, è Dino Zoff a dare l’annuncio della retromarcia: «Posso comunicare che Signori viene tolto dal mercato e rimarrà qui almeno fino al giugno ’98, come da scadenza contrattuale. Cragnotti è rimasto deluso dall’atteggiamento dei sostenitori, che non riescono a capire i suoi sforzi. La rinuncia al bomber gli sembrava utile al futuro rafforzamento della squadra. Amarezza comprensibile, e il patron sta addirittura pensando di lasciare il pacchetto azionario».

Per la prima volta, l’immagine dell’affarista implacabile e senza cuore scricchiola. Cragnotti si trova costretto a ritirare la cessione di Signori, con tanto di pessima figura con l’amico Tanzi che sentenzia «Questo non è sport», e annuncia di aver messo in vendita la società: «Ho appena abbandonato la Lazio, separandola dalla Cragnotti and Partners. I fatti accaduti sono gravi e intollerabili. Non si può condurre senza completa autonomia una sana gestione imprenditoriale». Signori continua a parlare dal Brasile, denunciando di non essere mai stato coinvolto nella gestione della trattativa lampo: «Non sono stato certo io a chiedere di andarmene. Hanno fatto tutto loro, sono stato l’ultimo a saperlo. Volevo vincere qualcosa a Roma, con la Lazio, e comunque quello che decide sono io, non certo l’azionista di maggioranza o il presidente. Non posso che essere contento di rimanere alla Lazio».

È una storia che probabilmente nasconde più di quanto effettivamente si sia saputo nel corso degli anni – in molti sostengono che Cragnotti possa avere ricevuto anche pressioni politiche - ma che in quel momento ribadisce con forza un concetto: in quella determinata fase, Signori è la Lazio. Mettendolo in vendita in fretta e in furia, Cragnotti stava ignorando il suo enorme impatto, il significato che aveva un singolo giocatore dopo anni di difficoltà, l’orgoglio ritrovato. Ma anche nel calcio non ci si bagna mai per due volte nello stesso fiume.

«Tu vuoi fare un film sull’Italia senza Gianfranco Fini, Renato?»

Una notte a Vienna

Signori, in tutta risposta, infila un’altra stagione (1995/96) da capocannoniere: ventiquattro gol in campionato in coabitazione con Igor Protti, che troverà come compagno di squadra nel torneo successivo. Alla sua quinta stagione con la Lazio raggiunge il traguardo dei cento gol in Serie A in biancoceleste: è un pallonetto di destro sull’uscita bassa di Pagliuca contro l’Inter, su invito di Nedved. L’acquisto del centrocampista di Cheb è una delle poche intuizioni indovinate di una stagione complicatissima per la Lazio, con l’esonero di Zeman e il ritorno in sella di Zoff.

L’inchino di Signori dopo il gol numero 100 in Serie A con la maglia della Lazio.

La sensazione che si ha nel corso di quella stagione è che Signori sia poco esplosivo, meno razzente. Gli manca la progressione palla al piede, anche se col sinistro continua a trovare la porta da angoli impensabili per i comuni mortali. A fine anno i gol in campionato sono 15 in 32 presenze, una media più che rispettabile ma che per i suoi standard è quasi un flop. Soprattutto, sta nascendo una Lazio diversa. Per la stagione 1997/98, direttamente dalla Sampdoria, arrivano infatti Sven-Göran Eriksson, che a Roma vuole scollarsi di dosso l’etichetta di perdente di successo, e Roberto Mancini. È impressionante come i giornali identifichino in maniera praticamente immediata l’arrivo di Mancini come un ostacolo alla leadership totale di Signori. Tra le prime domande rivolte all’ex stella della Sampdoria c’è proprio quella di una difficile convivenza con Signori: «Ma io non arrivo a Roma per fare il numero 1, la Lazio ha già la sua bandiera, si chiama Beppe Signori. Non capisco questa storia dei miei problemi con lui. Ci conosciamo da un pezzo, abbiamo vissuto assieme più di un ritiro azzurro, tra noi c’è stima e intesa».

Signori ha qualche problema alla schiena e si ritrova in fretta indietro nelle gerarchie di un reparto offensivo che vede la presenza, oltre che di Mancini, anche di Casiraghi e Boksic. Quattro stelle per due maglie, e una, visto il rapporto Eriksson-Mancini, è praticamente sempre assegnata: troppo importante il numero 10, ideale estensione tecnico-tattica dell’allenatore svedese, per rinunciarci. Signori trova il tempo per realizzare un paio di gol pesantissimi a inizio stagione, entrambi in pieno recupero, contro Milan e Bari. Quella contro i biancorossi è la sua ultima rete in campionato con la maglia della Lazio, la numero 107: una punizione di seconda calciata di esterno sinistro in pieno recupero per il momentaneo 2-2 (Nedved troverà il 3-2 al 94’). Il rapporto con Eriksson peggiora di domenica in domenica. Nel giorno della prima grandissima recita biancoceleste di Mancini, il derby del primo novembre 1997, Signori siede mestamente in panchina, è una figura di contorno, l’uomo che si alza di scatto per esultare insieme ai titolari. Il 25 novembre arriva la rottura definitiva.

La Lazio gioca a Vienna, contro il Rapid, l’andata degli ottavi di finale di Coppa Uefa. Signori, anche stavolta, è in panchina. Eriksson lo manda a scaldarsi all’inizio della ripresa, in Europa aveva spesso trovato posto anche per meri calcoli di turnover. Con la squadra avanti 2-0, l’espulsione di Mancini stravolge i piani del tecnico svedese, che spende il cambio Venturin-Fuser. Signori è un leone in gabbia, ferito e incazzatissimo. Scappa dalla panchina, va negli spogliatoi. Chiede immediatamente a Cragnotti di essere ceduto nel mercato di novembre. Ci pensa il Milan, ci riesce la Sampdoria, ironia della sorte proprio la vecchia squadra di Eriksson e Mancini. Ma è una Samp male in arnese, quasi quanto la schiena di Beppe-gol, e sarà una parentesi triste. Il 30 novembre all’Olimpico c’è l’Udinese. Piove, fa freddo, è uno di quei giorni in cui Roma non sembra neanche Roma. Mentre ripenso a quel giorno, a quella sensazione di cupezza su uno stadio depresso per la sconfitta in rimonta e rabbioso per i cori contro Eriksson e Cragnotti, è come se in sottofondo ci fosse Via con me di Paolo Conte. Via, via, vieni via di qui. Niente più ti lega a questi luoghi, neanche questi fiori azzurri. Via, via. Neanche questo tempo grigio. In realtà c’è uno stadio che canta “E segna sempre lui” a squarciagola, per un calciatore che quel giorno non è neanche lì. Un modo per ricordarci di quell’orgoglio, di tutti quei bambini che grazie a Signori sono diventati della Lazio. No, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, e stavolta la contestazione non va in porto.

Signori lascia Roma guidato da papà Giobattista, che è al volante mentre si allontanano dalla sede della Lazio. Si sfoga qualche giorno più tardi: «Eriksson ha fatto le sue scelte, non le discuto. Discuto il modo con il quale ha scelto. Sono stato messo da parte, meritavo maggiore rispetto. Avevo accettato con fatica la rotazione ma il turnover è stato gestito male. Ho capito che era finita a Vienna. Sono stato trattato come un ragazzino della Primavera. Quella notte siamo tornati a Roma alle tre. Ho guidato fino alle cinque e mezza, girando da solo per la città con la macchina. Pensavo e ripensavo, cercavo di capire i perché di questa situazione. È stato terribile, quella notte mi sono reso conto che dovevo andare via. Con Eriksson non sarebbe cambiato niente, tra me e il tecnico si era creata una situazione particolare, non potevo tornare indietro. Ma non porto rancore a nessuno. Quei cori contro l’Udinese non li dimenticherò mai: nessun giocatore al mondo ha vissuto una cosa così bella». Non andrà bene a Genova, andrà invece molto meglio a Bologna, a raccogliere l’eredità di Roberto Baggio, ancora una volta nello stesso ricorrente incrocio di anime: la coppia che doveva essere e che non è stata in azzurro, nonostante pubblicità girate insieme e un’intesa che teoricamente avrebbe potuto reggere, magari in un altro tempo calcistico.

Poi sono seguiti anni strani, di presunti scandali, di macchine del fango azionate alla velocità della luce. Di misteri, di assoluzioni. Mi sono chiesto a lungo cosa ci fosse di vero, se il mio, il nostro amore, fosse stato in qualche modo tradito. Finiamo per innamorarci di un calciatore senza in realtà conoscere la persona che c’è dietro, investendolo di un’aspettativa totalmente fuori dal buon senso comune. Ma avrebbe davvero senso seguire il calcio in maniera asettica? Dimenticandoci che è una delle cose che ci fa regredire allo status di bambini, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta? Non mi sono mai dato una spiegazione. Per un po’, per un bel po’, di Signori quasi non si è potuto parlare. Anche scrivendo questo pezzo mi sono immaginato i commenti che lo seguiranno, i riferimenti alle scommesse, le battute che non facevano ridere prima, figuriamoci adesso, che per lui sembra iniziata una nuova vita. Una delle poche cose che so è che ogni volta che metto su un video con i suoi gol torno a essere quel bambino di 8 anni. Non ho idea di che fine abbia fatto quella sciarpa blu elettrico. Era kitsch. Era orrenda. Era bellissima.

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