Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
L'inferno, il purgatorio e il paradiso dei Glasgow Rangers
10 mag 2021
Una rinascita lunga nove anni.
(articolo)
21 min
Dark mode
(ON)

Il volto di Ally McCoist è sfigurato, paonazzo. È un urlo di gioia, di dolore, di un uomo consumato dall’orgoglio e dalla tristezza. Se non fosse per tutta la gente intorno a lui che esulta, con le braccia alzate e i pugni stretti al cielo, quest’uomo avvolto da una camicia che gli strangola il collo e da una cravatta sformata potrebbe essere nel bel mezzo di un crollo emotivo durante un funerale. Soltanto il fatto che non sia circondato da prefiche, ma da persone in tuta che fanno parte del suo staff, ci restituisce la vera dimensione di quello che sta accadendo. È il 25 marzo del 2012, e per certi versi è davvero un addio.

Ad Ibrox si sta giocando un Old Firm che potrebbe consegnare il titolo ai Celtic, e i Rangers proprio non vogliono che questo accada. Non così, almeno. Quella stracittadina drammatica la vincono 3-2, in un condensato di emozioni. Ma è il funerale dei Rangers, che stanno per sparire e lo sanno bene. Il club, travolto dai debiti, è in amministrazione controllata da un mese e mezzo, dal 14 febbraio, il San Valentino più amaro della storia della società, con una penalizzazione di dieci punti che cancella ogni speranza di concorrere per il titolo. Con 134 milioni di sterline di debito complessivo e la licenza Uefa respinta, una delle realtà simbolo del calcio scozzese sa benissimo di essere sull’orlo del baratro. Ma il calcio ha anche a che fare con l’orgoglio, e quello di McCoist è lo stesso di un Ibrox che urla, piange e si dispera, temendo di non poter più rivivere quelle sensazioni. Sono serviti nove anni di espiazione, di viaggi alla periferia della Scozia calcistica, di frammenti di terra che vanno dal Vallo di Adriano a salire esplorati con i dubbi di chi, con un passato glorioso, deve confrontarsi con i fantasmi del proprio presente. I Rangers sono tornati a vincere, un passo alla volta, presi per mano da un allenatore che quando indossava ancora calzoncini e scarpini era abituato a sentire You’ll never walk alone, la stessa che risuona nello stadio degli attuali arcirivali. Ma ai tempi di Anfield, il coro per Steven Gerrard ricordava, sabato dopo sabato e mercoledì dopo mercoledì, che «he’s big and he’s fucking hard». Proprio come i suoi Rangers.

Foto di Jeff Mitch / Getty Images.

Ripartire dagli inferi

Il declino dei Rangers, nella turbolenta tarda primavera del 2012, si scontra con le esigenze di sopravvivenza del calcio scozzese. Una Scottish Premier League priva dell’Old Firm con il Celtic vuol dire un taglio netto ai proventi dei diritti televisivi e tra i club della SPL si apre inevitabilmente un tavolo di confronto, che deve però tenere conto anche del parere dei tifosi. Sul piatto c’è la possibilità che una newco erediti asset e trofei passati dei Rangers, lasciando andare alla deriva la vecchia società. Aberdeen, Hearts, Hibernian, Inverness, St Mirren e Dundee United si dimostrano immediatamente contrari, la proposta necessita dei due terzi di voti favorevoli e le speranze dei Rangers si schiantano contro il voto del 4 luglio. Dieci no, un sì - l’autovoto dei Gers – e l’astensione del Kilmarnock. «L’integrità del gioco è un tema di fondamentale importanza. La decisione di rifiutare l’ingresso nella SPL dimostra la profondità dei sentimenti di tutte le parti coinvolte nel calcio scozzese», è la nota rilasciata dalla dirigenza del Celtic al termine della votazione.

Archiviato il no dei big, i Rangers provano a bussare al piano inferiore, la First Division. Le reazioni, se possibile, sono ancora peggiori. Raith Rovers, Clyde e Falkirk si schierano apertamente contro questa possibilità e la Scottish Football League, con 25 voti su 30, decide di concedere alla newco di ripartire dalla quarta categoria del calcio scozzese, la Third Division, con un embargo sui trasferimenti di giocatori “over 18” di 12 mesi a partire dal primo settembre. Scatta una corsa contro il tempo, mentre sono tantissimi i calciatori che decidono di rifiutare la discesa in Third Division, con Naismith, Aluko, Whittaker, Lafferty, David e McGregor tra i più rappresentativi. Ma c’è anche chi rimane, come Alexander, Wallace, McCulloch e Broadfoot. Il 29 luglio, in Challenge Cup, al centro della difesa ci sono anche Goian e Bocanegra, che saranno poi ceduti in prestito. Vedere giocatori abituati a tutt’altri palcoscenici uscire passo dopo passo dagli spogliatoi del Brechin City trasmette una sensazione strana, nelle cronache del giorno dopo gli aggettivi più usati sulla caduta agli inferi dei Rangers sono “historic” e “terrific”. Il più attivo in quei giorni è Lee McCulloch, centrocampista della Nazionale scozzese, che si spende con i compagni per ricostruire da zero una squadra di vertice: «Non è questo il momento di lasciare i Rangers, è la cosa più facile da fare». Al fianco dei Rangers ci sono soprattutto i tifosi, che per la prima gara casalinga in Third Division affollano Ibrox: le 49.118 anime assiepate sugli spalti rappresentano un record mondiale per una sfida di quarta categoria. Qualcosa di simile si ripropone il 29 dicembre, quando sono 30mila, più o meno, i tifosi dei Rangers che invadono Hampden per la sfida con il Queen’s Park. L’1-0 di Hampden è la decima vittoria consecutiva in campionato: quel giorno, il terzino sinistro titolare del Queen’s Park è un diciottenne Andy Robertson.

Non la classica cornice di un match di quarta categoria.

I Gers dominano la stagione come da previsione, anche se con un calcio decisamente poco allettante se messo in relazione alla qualità media. La promozione è inevitabile, pur con qualche passaggio a vuoto indolore. Sullo sfondo, specialmente nei primi anni della risalita dei Rangers, si snoda una diatriba societaria impressionante, con una delle figure di riferimento della storia del club, Walter Smith, che rientra in società nel novembre del 2012 con un ruolo marginale e poi nel maggio 2013 con la nomina a “non-executive chairman” dopo aver provato, nel giugno 2012, a rilevare le quote del consorzio creato da Charles Green per la ripartenza del club. La parentesi di Smith dura pochissimo, le dimissioni arrivano già ad agosto, con il club impegnato ad aggirare l’embargo di mercato. Decisamente più nebulosa è la figura di Green, che arriverà a essere arrestato nel 2015 insieme all’uomo che aveva condotto i Rangers in amministrazione controllata, Craig Whyte: il processo scagionerà Whyte, che pure avrebbe il perfetto physique-du-role per interpretare la parte di un cattivo in un film di serie B, dall’accusa di condotta fraudolenta nell’acquisizione del club nel maggio del 2011. Whyte aveva messo le mani sul club versando una sterlina, lanciata provocatoriamente sul tavolo di un ufficio del Murray Group a Edimburgo il giorno successivo alla firma del contratto. Uno degli avvocati di Whyte, Gary Withey, ha rivelato durante il processo che i consulenti di David Murray, il precedente proprietario del club, non sembravano minimamente interessati al possibile introito della cessione: «Si è trattata dell’unica trattativa, tra le tante che ho seguito nel corso della mia vita, durante la quale chi vendeva spingeva per la chiusura dell’affare più dell’acquirente».

L’estate 2013 è anche quella che dovrebbe vedere, teoricamente, i Rangers fermi sul mercato fino al primo settembre, vale a dire per l’intera finestra trasferimenti. Fatta la legge, trovato l’inganno. Il club decide comunque di portare a termine una campagna acquisti totalmente fuori scala per la Scottish League One, portando a casa Cammy Bell, Nicky Clark, Richard Forster, Stevie Smith, Nicky Law, Arnold Peralta, Bilel e Jon Daly, posticipandone la registrazione. Sono mesi in cui il club perde mediamente un milione di sterline ogni 30 giorni, e si stima che il solo ingaggio di McCulloch (7.000 sterline a settimana) superi l’intero budget del Livingston negli anni tra il 2009 e il 2011, quando il club, allenato da Gary Bollan, era riuscito a centrare il doppio salto dalla Third Division alla Championship. Il ritorno dei Rangers ai massimi livelli, dunque, non è una di quelle favole strappalacrime legate a una società illuminata, capace di compiere piccoli passi fino a ripresentarsi ai vertici. Specialmente nei primi due anni, è una risalita muscolare, caratterizzata da investimenti così massicci da essere ritenuti addirittura insensati. L’annata in League One si chiude con una dimostrazione di forza spaventosa, nelle 36 giornate di campionato i Rangers lasciano per strada solamente sei punti, chiudendo a quota 102 con una differenza reti di +88 e fermando la propria corsa in Coppa di Scozia solamente contro il Dundee United in semifinale.

Una società in crisi (di nuovo)

La stima dei problemi di gestione del club viene confermata già nel mese di ottobre, quando si certifica una perdita operativa di 14 milioni di sterline nei primi 13 mesi di attività del nuovo club. Nel mirino finiscono spese di ogni tipo: dagli ingaggi dello staff (McCoist accetta una robusta riduzione dello stipendio) a quelli dei giocatori (che invece rifiutano il taglio del 15%), passando per i 2 milioni spesi per dotare Ibrox di una connessione wi-fi e dei nuovi schermi Led. La guerra societaria raggiunge la resa dei conti nella stagione successiva, la prima in Championship per i nuovi Rangers. Dave King, che aveva già investito (e perso) come socio minoritario circa 20 milioni di sterline nel club in passato, emerge come figura prepotente già nella primavera del 2014, invitando i tifosi a disertare la campagna abbonamenti aperta in largo anticipo per provare a mettere ulteriormente in crisi il board e ottenendo un crollo dei “season tickets” di circa 15.000 unità. La contestazione dei sostenitori dei Gers esplode durante il match casalingo con il Queen of the South: i tifosi mostrano il cartellino rosso al minuto 18 e al minuto 72 (1872, l’anno di fondazione del club). Le cose non migliorando quando emerge che Mike Ashley, proprietario del Newcastle e del colosso Sports Direct, ha in mano i “naming rights” di Ibrox. Li ha acquistati da Charles Green nel 2012 per una sterlina. Anche Ashley ha in mente una piccola scalata al club, salendo oltre l’8% dopo essersi appoggiato a BNP Paribas per acquistare il 5%. A fermare l’ascesa di Ashley, che nel frattempo aveva anche finanziato il club con dei prestiti di 3 milioni di sterline pur di convincere l’attuale board a non cedere a Dave King – che aveva a sua volta messo sul tavolo una proposta di 16 milioni di sterline per rilevare le quote di maggioranza -, è la Scottish Football Association, che accusa il club e Ashley di aver violato le regole relative al controllo dei club, che nel frattempo ha visto salire nelle gerarchie Derek Llambias, un uomo di Ashley, fino di fatto ad affiancare il presidente David Somers.

Sul campo, nel frattempo, le cose non vanno come dovrebbero. Gli sforzi insensati della stagione precedente si ripercuotono sull’andamento in campionato. Mai si era vista una Championship così competitiva: oltre alle ambizioni dei Rangers, c’è da fare i conti con altre due nobili decadute, Heart of Midlothian e Hibernian. Il derby di Edimburgo si gioca dunque nella seconda serie ed è un bel problema per i Rangers, che per sostenere i costi di gestione tagliano dove possono. McCoist si dimette a metà dicembre dopo aver visto il suo staff decimato, il tutto mentre la battaglia per il controllo societario prosegue. King sale al 14,57% delle quote, mentre Sports Direct, e quindi Ashley, mette le mani con una “floating charge” (una particolare forma di garanzia rotativa tipica dei paesi anglosassoni) sul Rangers Training Center, sui marchi del club e sulla Edmiston House in cambio di 10 milioni di sterline, da restituire con un pegno sulle sponsorizzazioni fino al 2016-17 fino a estinzione del prestito. Inoltre, nell’ultimo giorno del mercato di gennaio, i Rangers ricevono cinque giocatori in prestito dal Newcastle, il club di Ashley: si tratta di Mbabu, Streete, Bigirimana, Vuckic e Ferguson.

La stagione finisce malissimo: i Rangers chiudono la regular season al terzo posto, guadagnandosi comunque l’accesso alla finale playoff per la promozione. La doppia sfida viene però dominata dal Motherwell, che strappa il pass per la Premier. Ai Rangers, che avevano anche riprovato il brivido di un Old Firm in semifinale di Coppa di Lega (perso 2-0), non resta che la consolazione societaria: Dave King vince la battaglia con Ashley e diventa il nuovo proprietario nel mese di maggio. Un successo momentaneo, visto che il patron di Sports Direct decide di ingaggiare un’estenuante battaglia di un anno nei confronti del nuovo presidente, prima esigendo la restituzione anticipata del prestito fornito qualche mese prima al club, poi arrivando anche a contestare il superamento del “fit and proper test” da parte di King: una sorta di verifica che la Scottish FA (così come le altre realtà inglesi) deve compiere prima di dare il via libera a un cambio di società.

Il nuovo allenatore per la scalata in Premier League è Mark Warburton, che decide di farsi affiancare dall’ex centrale dei Rangers David Weir. Le undici vittorie consecutive che aprono la stagione danno l’idea della cavalcata che poi effettivamente sarà compiuta verso l’obiettivo finale. Al centro dell’attacco c’è un’altra vecchia conoscenza di Ibrox, Kenny Miller, che a 36 anni si rimette sulle spalle la numero 9 dei Rangers e segna 21 gol in campionato. La concorrenza di Hibernian e Falkirk è coraggiosa ma insufficiente: dopo quattro anni di purgatorio, i Rangers rimettono il naso in Premier. E il 17 aprile, in semifinale di Coppa di Scozia, eliminano gli arcirivali del Celtic. I ragazzi di Warburton vanno avanti due volte: nei regolamentari, con un gol da serpente di Kenny Miller, e nei supplementari, grazie a un gioiello di Barrie McKay. Il destino, quel giorno, è tutto con i Gers, che sul 2-2, a pochi minuti dai rigori, vengono graziati dalla traversa su una punizione tonante di Leigh Griffiths: ai rigori passano i Rangers, che finiscono poi per perdere clamorosamente la finale contro l’Hibernian e per rinunciare così alla chance di ritornare in Scottish Premier League con un pass già prenotato per l’Europa. Per i Gers è una sconfitta bruciante, per gli Hibs un successo storico.

Il riassunto della semifinale vinta ai rigori.

Ten in a row?

La SPL in cui si riaffacciano i Rangers è ovviamente la terra di conquista del Celtic, che dal momento del fallimento dei rivali cittadini hanno dominato senza troppi problemi il campionato. In realtà, gli scricchiolii sono evidenti, così come è evidente che i Gers non possano subito contendere lo scettro agli avversari. Ma un campionato rimasto per anni senza l’unica fonte di interesse, vale a dire l’Old Firm, ha finito per depotenziare anche il Celtic, praticamente insignificante nelle sfide internazionali e sempre meno stimolato al duello interno. Meno appeal, meno competizione, meno soldi. I diritti tv crollano di colpo, perché la Scottish Premier League perde la gara che la teneva in vita e diventa un prodotto poco appetibile all’estero. E il Celtic, appiattito in un dominio troppo comodo, in queste condizioni fatica a mettere la testa fuori dalla Scozia, non riuscendo a darsi una prospettiva internazionale. Ma c’è un fantasma che agita le notti dei tifosi dei Rangers: il fatto che la Glasgow biancoverde possa festeggiare il traguardo dei dieci titoli consecutivi, il celebre “ten in a row” inseguito prima dal Celtic (dal 1965-66 al 1973-74) e poi dai Rangers (dal 1988-89 al 1996-97). È la prima cosa di cui si era iniziato a parlare nel momento del crollo dei Gers, fissando il traguardo dei dieci titoli in fila al 2020/21.

Un orizzonte troppo lontano per i Rangers, costretti a organizzarsi per tornare competitivi anche ai piani alti, pur partendo da un livello medio comunque superiore a quello della ideale metà destra della classifica della SPL. Si riparte da Warburton in panchina, da alcuni acquisti di molta (troppa?) esperienza come Joey Barton e Niko Kranjcar, da una fase di inevitabile ambientamento che prevede, purtroppo per i tifosi, anche i cinque schiaffoni (5-1) subiti dal Celtic nel primo Old Firm stagionale: per incredibile che possa sembrare, non saranno gli ultimi. Il momento di appannamento nato con il ko nella seconda stracittadina di campionato (1-2 ad Ibrox il 31 dicembre) si trascina anche dopo la ripresa, con i Rangers che all’improvviso perdono tre partite in 20 giorni. Le scommesse Barton – contratto rescisso a stagione in corso – e Kranjcar – infortunio ai legamenti crociati del ginocchio – si rivelano un disastro, a metà febbraio le strade di Warburton e dei Rangers si separano, scatenando una ridda di potenziali successori: dal sempreverde McCoist all’altra leggenda del club Alex McLeish, passando per un ulteriore ex come Frank de Boer. Dopo un mese di stallo, il board sceglie il portoghese Pedro Caixinha per la panchina, proponendogli un contratto triennale. Si rivela una delle decisioni più sconclusionate della lunghissima storia del club. Agli ordini del lusitano, i Rangers perdono 1-5 anche l’ultimo Old Firm della stagione, un passivo che mai si era verificato ad Ibrox. Il 17 maggio la sconfitta interna con l’Aberdeen è un altro evento pressoché inedito in epoca recente – non accadeva da 26 anni – e i Rangers chiudono terzi in classifica la stagione, a 39 punti dal Celtic. Forte del triennale, Caixinha si presenta alla guida del club anche nell’estate 2017, incassando un’inconcepibile sconfitta nei turni preliminari di Europa League per mano dei lussemburghesi del Progres Niederkorn, una squadra che nella sua storia, fino a quel momento, aveva segnato un solo gol nelle competizioni europee. L’esonero si consuma a ottobre, dopo un pareggio con il Kilmarnock: i 229 giorni di Caixinha da manager dei Rangers sono la parentesi più corta di un tecnico sulla panchina del club. Poco amato dal pubblico e deriso dalla critica – «La grande sorpresa non è che Caixinha abbia perso il suo lavoro, ma come abbia fatto a ottenerlo: è stato un disastro dall’inizio alla fine», scrive la BBC nel giorno del suo esonero – viene sostituito dal “caretaker” Graeme Murty, che aveva già guidato la squadra nel breve interregno tra Warburton e il portoghese. La campagna di Caixinha aveva portato a Glasgow un piccolo nucleo lusitano (Bruno Alves, Daniel Candeias, Fabio Cardoso e Dalcio), ma anche alcuni giocatori teoricamente di sicuro rendimento come Graham Dorrans e Declan John. L’acquisto più indovinato, in realtà, si rivelerà quello di un semi-sconosciuto colombiano proveniente dall’HJK Helsinki: Alfredo Morelos.

Nella lenta rinascita dei Rangers, come abbiamo già visto, le vicende societarie sono di importanza capitale. Nel maggio 2016, alcune associazioni di tifosi si fondono nel Club 1872, una realtà che unisce Rangers First e Rangers Supporters Trust. A guidare questa organizzazione, un motto semplice ed efficace: «Never again». Aumentando gradualmente la partecipazione all’interno della società, il Club 1872 è arrivato a essere uno degli azionisti dei Gers, e l’obiettivo è di arrivare al 25% delle quote grazie a un accordo, annunciato a dicembre 2020, con Dave King, da 13 milioni di sterline: «Esistiamo per assicurare ai tifosi dei Rangers che non saranno mai più costretti a sopportare eventi come quelli che hanno trascinato il nostro club in fondo al calcio scozzese».

La svolta Gerrard

L’annata iniziata con Caixinha e proseguita con Murty vive un altro momento di shock in seguito alle rovinose sconfitte contro il Celtic (4-0 in Scottish Cup, 5-0 in campionato). Anche Murty viene dunque rimosso dall’incarico, affidato per la fine della stagione al suo vice Nicholl. Tutto è pronto per l’arrivo dell’uomo che cambierà la storia dei Rangers, andando a negare al Celtic il “ten in a row”. Il 4 maggio 2018, con un colpo a sorpresa e senza aver mai allenato a livello professionistico, Steven Gerrard diventa il nuovo manager dei Gers, firmando un quadriennale: «Quando ho ricevuto la chiamata dei Rangers non ci ho pensato un attimo. Ho sentito una sensazione diversa nello stomaco rispetto alle altre offerte che avevo ricevuto, qualcosa di speciale. Per me è un’opportunità speciale, sono consapevole delle dimensioni del club. Non mi preoccupa essere sotto pressione, ci ho giocato per una vita e ci ho vissuto da quando ho lasciato la scuola. Da quando ho smesso di giocare mi è mancata la pressione di giocare per i tre punti: so che in molti mi metteranno sotto i riflettori ma è quello che amo di questo sport. Sono qui per una ragione: intraprendere una sfida e far progredire il club. Ho grande fiducia nei miei mezzi, altrimenti non sarei qui ora. Voglio vincere, è quello che amo fare». Gerrard sceglie Gary McAllister come suo assistente, uno scozzese atipico, che mai aveva indossato la maglia dei Rangers da calciatore ma che aveva incrociato la propria strada con quella di Stevie G a Liverpool.

L’altra mossa decisamente illuminata di Gerrard è inserire nel suo staff Michael Beale, un totem del calcio giovanile (e non solo) inglese, che nel corso dei suoi anni al Chelsea e al Liverpool aveva agevolato lo sviluppo di calciatori come Mason Mount, Tammy Abraham e Trent Alexander-Arnold. Gerrard lo aveva voluto con sé dopo averlo osservato al Liverpool, dove Beale era tornato in seguito a un breve incarico al San Paolo, in Brasile. «Quello che io non farò mai è cercare di fare il lavoro di qualcun altro quando questa persona è nettamente più brava di me nel farlo: mi ci vorrebbero 15 o 20 anni per diventare bravo quanto lo è al momento Michael sul campo. Lascio che Mick faccia il suo lavoro, perché lui è l’esperto», ha dichiarato Gerrard in un’intervista concessa al suo vecchio amico Robbie Fowler. Per mesi, prima di ricevere la chiamata giusta, Gerrard ha lavorato sotto traccia, cercando di individuare le persone che avrebbero potuto seguirlo nella sua prima avventura: «Ho provato a delineare il mio team nei mesi in cui ho lavorato con il Liverpool Under 18 e Under 19. Nessuno sa quanto io abbia osservato da vicino le persone di cui mi sarei voluto circondare una volta arrivata l’opportunità che stavo aspettando. Non mi sono ritirato presto, non ho avuto la possibilità di sviluppare l’esperienza da allenatore sul campo che possono aver sviluppato tecnici come Rodgers, Mourinho o Beale. Quello che posso fare è essere lì, sempre, allenamento dopo allenamento, pronto a intervenire se necessario».

Il processo di ricostruzione progettato da Gerrard passa dal mercato, dalla ricerca di giocatori funzionali per le sue idee di calcio e in grado di dare stabilità a una squadra che dal suo ritorno in SPL non ne aveva avuta, raggiungendo il podio del campionato per inerzia più che per meriti reali. Gli arrivi di Arfield, Barisic, Goldson e Katic sono i primi pilastri eretti da Gerrard, costretto a ereditare una squadra sfibrata, troppo spesso priva di una struttura solida, e che nell’ultimo anno aveva subito la bellezza di 50 gol in campionato. Un’enormità per chi spera di puntare al vertice. Il nuovo manager chiede pazienza alla dirigenza e parte dalle fondamenta, blindando la difesa con un sistema basato sulla grande importanza del pressing e del controllo del pallone. Durante la sua prima stagione, riporta i Rangers a ridosso del Celtic – un dignitoso -9 in classifica, sbarazzando la concorrenza per il secondo posto – e dando lustro al percorso europeo, uscendo per un soffio nella fase a gironi perdendo la sfida decisiva a Vienna con il Rapid. A fronte dei progressi evidenti nel gioco, però, i Rangers non riescono, nel primo biennio di Gerrard – complice anche lo stop provocato dalla pandemia – a mettere in bacheca trofei, con la bruciante sconfitta in finale di Coppa di Lega contro il Celtic (8 dicembre 2019) che lascia decisamente l’amaro in bocca per lo sviluppo del match.

Una partita dominata per larghi tratti dai Rangers: una sconfitta amara ma costruttiva.

A febbraio, dopo l'eliminazione contro gli Hearts in Coppa di Scozia, Gerrard non ha paura di mostrare al mondo il suo disappunto: «Dobbiamo riflettere seriamente nelle prossime 24, 48 ore. Sto male in questo momento, perché voglio vincere in questo club, lo voglio disperatamente. La prestazione di oggi non è stata neanche lontanamente buona quanto doveva esserlo». Una delusione acuita ancor di più dalla sconfitta in campionato con l'Hamilton ad Ibrox una settimana più tardi. Lo stop per il coronavirus, paradossalmente, ha consentito a Gerrard e ai Rangers di prendersi del tempo per congelare le idee, evitare di prendere decisioni drastiche. Parlarsi, capirsi. La stagione straordinaria che ha permesso ai Rangers di sventare la minaccia del “ten in a row” del Celtic è nata dalla pazienza, dalla voglia di non disperdere un cammino iniziato due anni prima. Ha lavorato sulla testa dei suoi giocatori fino a convincerli di essere al livello del Celtic. Nelle prime sette partite della SPL 2020-21, i Rangers non hanno subito gol. Non si sono più guardati indietro, tornando a vincere il campionato, fermandosi in Europa League in una notte pazza contro lo Slavia Praga negli ottavi di finale, mostrando principi di gioco moderni e giocatori estremamente cresciuti nel corso degli anni (Tavernier e Morelos in particolare). A inizio marzo, durante una partita contro il Dundee, il Celtic è stato costretto a veder sfilare in cielo lo striscione «Adesso potete vederci? 55 titoli», mandato con un aeroplano dai tifosi rivali.

Il prossimo obiettivo, per Gerrard, è la qualificazione ai gironi di Champions League, un traguardo che andrebbe a nobilitare il percorso dei suoi Gers, che fin qui hanno perso solo 6 partite europee su 45 ai suoi ordini, il tutto partendo dal ricordo di quell’infamante eliminazione in Lussemburgo. L’incontro di due situazioni estreme – una squadra che non riusciva a trovare la propria strada, un allenatore alle prime armi – ha dato vita a uno scenario tra i più intriganti in Europa, anche se sullo sfondo del campionato scozzese continua a esserci il desiderio, espresso anche da Gerrard nel corso della sua esperienza, di vedere Celtic e Rangers aggregate alla Premier League inglese.

Quel che è certo è che ci sono voluti nove anni, vissuti pericolosamente, per capire fino in fondo che quello sguardo sfigurato e paonazzo di Ally McCoist non era quello di chi stava partecipando a un funerale.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura