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Gli Hateful Eight della Serie A
05 feb 2016
Gli otto giocatori più odiati del calcio italiano.
(articolo)
22 min
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Cassano è l'anticristo

di Daniele Manusia

Non ricordo quale poeta disse che non c'è odio peggiore di quello che prende il posto dell'amore. Forse non era un poeta, forse era solo un tifoso di calcio. In ogni caso non c'è descrizione migliore del mio odio per Antonio Cassano. Ho amato Cassano, come tutti, quando era un giovane impulsivo, un coatto di talento. Fin da quel primo gol in Serie A, fin da quel primo controllo di tacco in corsa.

Dopo quasi 20 anni, quel gesto racchiude ancora alla perfezione tutta la potenza del suo talento, capace di vedere con largo anticipo giocate che per gli altri in campo sono inimmaginabili. Come se Cassano venisse da una dimensione in cui gli uomini pensano più velocemente. E fa tenerezza rivedere la sua prima intervista post-partita, in cui semplifica la sterzata con cui taglia tra Blanc e Panucci e si confonde su quale avversario esattamente ha umiliato: “Poi ho dribblato Georgatos...”

Come non tifare per lui? Bari vecchia, la madre single, le difficoltà, la retorica da Sfide del genio + sregolatezza. Dico sul serio, di Cassano abbiamo amato tutti anche quel carattere estroverso sempre in bilico con i veri problemi psicologici. Abbiamo accettato il fatto che fosse strano, persino inquietante o, in un certo senso, inaccettabile. Nessuno ha cercato di cambiarlo, curarlo, aiutarlo. Non ne aveva bisogno per giocare bene a calcio.

«Mi piaceva mettere la roba sotto la doccia ai bambini. Bucavo le scarpe ai bambini... Mi piaceva tagliare le punte ai bambini, le calze, ero un pazzo scatenato». E che problema c'è. Sei così geniale, Antonio. Un ex dirigente racconta di quando, durante un torneo, è entrato in una mensa prima del resto dei bambini, dei suoi compagni di squadra e degli avversari, e ha bucato tutti i bicchieri di plastica, un centinaio, in modo che i ragazzi se ne accorgessero solo a tavola, al momento di versarsi l'acqua. E che problema c'è, anzi questo fa anche ridere. Cose da ragazzi, in fondo.

Cassano non racconta di essere stato punito, di aver avuto problemi a esprimere il suo talento, contrattempi, ostacoli da superare. Giocava con gli amici e venivano dai paesi vicino a Bari per vederlo. La sua “sregolatezza” era magari digerita controvoglia da chi lo circondava, ma non era del tipo che potesse davvero metterlo nei guai.

Nessuno ha provato a cambiarlo. Finché, sì, insomma, è diventato un adulto e ha iniziato a giocare per soldi.

Il punto in cui Cassano comincia a non far più ridere è quello in cui distrugge la sua stessa retorica. Un gesto persino nobile, se solo si trattasse di un sacrificio consapevole, invece del contrario. Cassano che resta immaturo nonostante tutto, così immaturo che la sua non è neanche autodistruzione, ma una pacifica rinuncia a raggiungere il meglio di se stesso. Un materialismo che non odio in quanto tale, ma perché squallido e ingannevole. Cassano non può essere felice, al massimo può accontentarsi.

Gliesempisarebberotroppi e sempre parziali, niente che dimostri pienamente quanteopportunitàsia riuscitoa sprecare Cassano. Lo abbiamo giustificato troppo, abbiamo minimizzato i suoi errori chiamandoli “Cassanate”, abbiamo creduto alle sue bugie perché ci faceva troppo male vedere la verità. Perché quando Cassano dice: “Se quel Bari-Inter non ci fosse stato sarei diventato un rapinatore, o uno scippatore, comunque un delinquente”, dimostra di credere in se stesso meno di quanto ci abbiamo creduto noi, di quanto abbiamo creduto in lui come calciatore e come uomo.

Per questo lo odio. Perché è il prodotto di un contesto malato, e io speravo fosse qualcosa di più.

Ma anche perché è un insulto a chi ha vissuto una vita da povero e non ha mai neanche pensato a fare una rapina, a chi ha passato davvero la giovinezza in galera, a chi non ha avuto nessun vantaggio, nessun talento da sfruttare, e che magari ci avrebbe fatto qualcosa di meglio. Ai suoi stessi amici, alla sua gente. Non c'è niente di glorioso nel fallimento di Cassano, odio la furbizia con cui ha avuto una carriera comunque piena, odio la soddisfazione che gli procurano i soldi, la consolazione che gli dà avercela fatta, odio l'idea di vita che pubblicizza, che nessuno tranne lui e altri pochi calciatori di successo possono permettersi.

Ma sopratutto odio il fatto che non posso odiarlo pienamente, perché non è neanche colpa sua. Odio il pensiero: “Eh ma da Cassano che ti aspettavi”. Perché odio pensare che dalle persone ci si debba aspettare sempre il minimo.

Mai più Felipe Melo

di Emiliano Battazzi

«Quando lo abbiamo seguito quello che più di tutto ci ha colpito era la sua assoluta personalità. […] Si può dire che è un ‘personaggio’. Ma assolutamente positivo. […] Ricordo quando capitavano i momenti di tensione, soprattutto all’inizio quando tutti vogliono dimostrare, lui si metteva in mezzo per dividere e risolvere quella sorta di rissa […] E ripeteva spesso che se c’era da litigare bisognava farlo con l’avversario, non di certo tra compagni» (Cesare Prandelli)

E se vi dicessi che il giocatore descritto da Prandelli non è Pirlo, né Luca Toni, né Tommasi, ma un centrocampista odiato persino da molti colleghi? L’ex ct della Nazionale disegna un personaggio che non esiste nel nostro immaginario collettivo: Felipe Melo il pacificatore, creando così una particolare discrasia tra il giocatore pubblico e quello da spogliatoio.

E allora perché il Melo che vediamo è così brutto, sporco e cattivo? Perché ci rivolge solo la sua parte peggiore? si mette dal profilo sbagliato per farsi odiare?

Il dubbio è che Felipe Melo abbia voluto costruirsi un personaggio: nasci in Brasile, giochi centrale di centrocampo, ma la tua visione di gioco fa rimpiangere quella di Vampeta e la tua tecnica di base è inferiore anche a quella di Marcio Santos (che poi non era così male)? Allora diventa un cattivo anche se sei un atleta di Cristo; esalta le folle con un colpo da MMA su Biglia anche se sei un calciatore. È una visione un po’ perversa del calcio, da Coppa Libertadores anni ’60, ma ormai siamo nel 2016 e insomma fateci vedere centrocampisti abili in tutte le fasi!

Invece Melo col pallone continua a fare fatica, in una squadra che avrebbe disperato bisogno di un regista: con 0.6 passaggi chiave ogni 90 minuti è alla pari addirittura con Dzeko. Non è solo la sua “cattiveria” a dare fastidio, sono i suoi passaggi sciatti in orizzontale, e i tiri insensati da 40 metri.

Il vero lato di Felipe Melo che non sopporto è la sua arroganza: ci sono già stati grandi portatori d’acqua diventati leader, ma nessuno così spocchioso nei confronti di avversari e pubblico, nessuno così narcisista e autocelebrativo da arrivare a regalarsi un tavolo da poker aerografato con la propria immagine vicino al Cristo Redentore, con tanto di sedia gestatoria intessuta con la maglia dell’Inter.

Che poi non è neppure così cattivo in campo: con 2.7 tackle per 90 minuti è praticamente alla pari con Franco Vazquez, e con 2 falli è alla pari con Pjanic. Felipe Melo è eclatante e poco lucido: forse è per questo che era un idolo al Galatasaray, ed è lì che avrebbe dovuto chiudere la carriera, da capitano, incitando i tifosi nel derby e irridendo gli avversari, inventando sempre gesti nuovi che avrebbero fatto impazzire i social network.

Felipe, avresti potuto regalarci milioni di folli Gif turche e candidarti a sindaco di Istanbul, e invece…

Invece è ritornato in Italia, proprio nel momento in cui la Serie A sta provando a cambiare mentalità: forse Melo è l’ultimo dei nostalgici, e i suoi colpi non sono altro che un tentativo di fermare il tempo, che fortunatamente si porterà via anche i centrocampisti come lui.

Sei un idolo Alìno! Un'icona! Uno di noi!

di Fabrizio Gabrielli

Ma ascoltatelo, Alessandro Alìno Diamanti, succhiatene ogni parola gonfia di calciofilo patriottismo come fosse di zucchero filato, soffermatevi sui suoi sorrisi repressi a fatica e parimenti ostentati, sulla sua simpatia-a-tutti-i-costi, sugli occhi furbi alla Cattelan e sul capello scapigliato, immergetevi nello stagno malmostoso dei suoi ripensamenti; e poi guardatelo giocare, lasciatevi ammaliare dalla sua estetica discotecar-decadentista: ma quanto è bello, Alìno, così flâneur, così arrogante, così maudit? E così coerente poi, così pane-al-pane e vino-al-vino?

Alìno è uno di quelli che mica le manda a dire: è uno coraggioso, Alìno, che non ha paura di dire le cose come stanno. Un uomo semplice, come i giovanotti che incontri al bar del paese, fatto di quel tipo di genuinità là, cerchiobottista e bastian contraria senza un particolare motivo, per pura provocazione a volte.

Son capaci tutti, a essere bandiere quando si guadagnano 10 milioni l’anno, disse una volta di Totti: per essere davvero una bandiera, aggiunse, bisognerebbe giocare gratis, farlo per volontariato. Di Alìno non m’è mai piaciuta una cosa, soprattutto: l’estetica del suo approccio al denaro, prima, e alla coerenza, poi. Quando era a Livorno, e spaccava i muri del suono con le sue giocate che mescolavano voglia di rivalsa e talento cristallino, guadagnava cinquantamila euro l’anno: era il meno pagato di tutta la Serie A, va bene, ma sventolarlo così, appioppandoci subito dopo una faccia contrita, un sorriso arricciato su sé stesso a metà strada tra la rosicata e il cazzoméne, avrebbe dovuto renderlo simpatico, forse, o insufflare nei suoi tifosi cosa, di preciso? Sincera ammirazione?

Davvero quel cliché gonfio di retorica sulle emozioni e l’impagabilità delle stesse gli è valso un «Bravo» pronunciato dallo studio con tanta di quell’enfasi?

«Quando non conta un cazzo sono sempre stato il migliore in campo», ha detto una volta. Ma che retorica autocompiacente, Alìno! Sei un idolo, Alìno! Un’icona! Uno di noi!

Che modello che è, l’Alìno, lui che fuori dal campo ha sempre fatto quel cazzo che gli pareva, tanto poi la domenica andava più veloce di tutti gli altri! Che self-made man, lui che ha conosciuto la gavetta nei campionati periferici prima di giungere, in ritardo, all’appuntamento con la media, il palcoscenico che più gli aggradava.

Il prototipo perfetto, fatto e compiuto, del Dieci Sbiadito, del Wannabe Dieci, che sarebbe potuto diventare chissacchì e che invece si è incarnato in Alìno Diamanti, ecce homo, bello da vedere ma difficile da gestire, l’emblema di tutti quelli che avrebbero raggiunto l’eccellenza nei rispettivi campi di studio o lavoro, se solo non avessero avuto la testa così matta; come se averci la testa matta possa essere un qualche tipo di giustificazione, un’attenuante, da accettare con una smorfia bonaria e paternale, e non un minus castrante.

Quando affronti la vita, e la tua professione che ne fa parte, con l’ingenuità (nel senso meno candido che suggerisce la parola) che ci ha sempre messo Alìno, è facile credere che l’insuccesso sia figlio dell’antipatia che gli altri covavano nei tuoi confronti: quando era Londra Lippi non lo vedeva, eh ma che colpa ne aveva lui se Lippi non considerava la Premier League un campionato all’altezza? E poi neppure Prandelli lo vedeva, ma che colpa ne poteva avere lui che stava affondando in B col Bologna? Se solo avessero avuto occhi per vedere, questi CT della Nazionale, non avrebbero lasciato che Diamanti passasse innotato.

Gliene è sempre fregato il giusto, ad Alìno, di essere una bandiera: pure quando lo stava diventando, a Bologna, trac!, gli è arrivata quest’offerta dalla Cina, e c’erano tanti soldi in ballo che «non sono un ipocrita, mi attrae il lato economico», ha detto, ma anche «fare un’esperienza di vita», ha aggiunto.

Una buona metafora degli sviluppi di carriera di Alìno, e contemporaneamente del motivo per cui non lo sopporto.

Di Alìno non mi piace che ci faccia credere che fare i pazzi da giovani, o rotolarci nella bambagia per essere i migliori, e per distacco, in un ambiente di mediocri sia qualcosa di cui andare fieri, o da applaudire. Se nel lavoro c’è sempre qualcuno che ci sorpassa a destra, due domande sul fatto che magari non dipenda troppo dalla parzialità del capo ce le dovremmo pur saper porre.

E poi odio la sua protervia: la retorica del Conta-Solo-Quello-Che-Fa-Con-I-Piedi applicata ai calciatori è un’oratoria di comodo, non suona mai esplicativa, quantomeno non appieno e in maniera convincente, ma è, piuttosto, giustificatoria. Ciò che è peggio: giustifica noi, la concezione che abbiamo dei calciatori.

Che pena Alessio Cerci

di Emanuele Atturo

Non devo giustificare il mio odio per Alessio Cerci. Tutti odiano Alessio Cerci, almeno da 10 anni, al punto che l’essere odiato è diventata una caratteristica di Alessio Cerci quanto i capelli stoppacciosi e l’ostinazione idiota nel rientrare sempre (sempre) sul sinistro.

La storia di Cerci potrebbe essere fraintesa per quella del giocatore forte&antipatico, come se la sproporzione tra il suo talento e i suoi fallimenti sportivi lo abbiano reso odioso ai tifosi, tipo Balotelli.

In realtà l’odio per Alessio Cerci non ha niente a che fare né con i suoi fallimenti sportivi né con il suo talento: non è neanche di quei giocatori in cui l’antipatia umana e il rispetto tecnico sfumano fino a confondersi (come succede a Bonucci, per dirne uno). Cerci ha fatto molto bene in alcune piazze e molto male in altre, ma è odiato indifferentemente da tutti. Tutti quelli che sono stati in qualche modo a contatto con lui sono andati ai pazzi. Non ci hanno voluto avere niente a che fare (Atletico), lo hanno voluto lontano (Milan), gli hanno serbato rancore (Torino, Fiorentina) o, nella migliore delle ipotesi, ne hanno un ricordo sbiadito ma comunque sgradevole (Roma).

L’odio per Cerci viene da lontano e ha radici sfumate. Già ai tempi della Primavera della Roma alcuni lo consideravano un sopravvalutato (quanti giocatori possono dirsi sopravvalutati già in Primavera?!). In questo senso non riesco proprio a non leggere il suo primo soprannome – l’Henry di Valmontone – come una presa per il culo sottile e crudele, che Cerci riusciva a equivocare come un complimento mentre tutti ridevano alle sue spalle, e lo odiavano. Lo odiavano come si può odiare solo un uomo che non ride mai.

Ai tempi di Firenze deve aver raggiunto un livello di indisponenza ai limiti del surreale. Non si spiegano altrimenti le leggende metropolitane che circolavano sul suo conto. Pare che un giorno si sia rivolto a un tassista chiedendo: “Che è quer coso do’ ce passano tutti?”, riferendosi a Ponte Vecchio. Si dice anche che girasse per i vicoli del centro con un gatto al guinzaglio. Non so se è peggio pensare che questi episodi siano successi davvero o se qualcuno è arrivato a odiarlo al punto da mettere in giro delle bufale così sofisticate.

«Oh, è arrivato l’Henry de Valmontone è arrivato»; «Ciao ragazzi».

Riflettendoci, penso di odiare – come tutti odiamo - Alessio Cerci perché non fa assolutamente niente per farsi volere bene, per stare simpatico a qualcuno. Dall’unica piazza in cui aveva fatto bene, Torino, se ne è andato lasciando che la sua ragazza scrivesse “Ce ne andiamo nel calcio che conta”. Cerci ha provato qualcosa davanti al terribile striscione con cui lo hanno riaccolto i tifosi del Toro?

Cerci forse si aspettava una storia diversa. Forse si aspettava una carriera meno mediocre, o una carriera in cui godersi almeno una delle poche cose che contano realmente nel calcio, cioè l’amore dei tifosi. Però non ha fatto proprio niente per guadagnarselo, nel periodo in cui aveva cominciato a segnare a Firenze non esultava neanche dopo i gol, opponendo una morale tutta sua: «Non mi vedranno mai correre sotto la curva. Nemmeno per un gol. Perché sono stato ferito, ferito dentro».

Cerci ha l’aria sempre depressa, imbronciata, aggressiva. Come se avesse capito ormai che il calcio non può dargli gioie, che la vita è solo dolore e fallimento.

"Fastidio" di Kaos One, la colonna sonora della vita di Alessio Cerci. «Io mi nutro di fastidio lui si mangia la mia vita, come una candela rovesciata brucia il doppio più veloce: per questo io non trovo pace, il tempo scorre e non si arresta e la lancetta gira senza sosta, non resta che abbassar la testa, anche per questa ragione non trovo soluzione alcuna, se non nutrirmi di fastidio e rigirarmi nella mia cancrena, maledicendo la sfortuna che da quando sono nato non mi ha lasciato mai un minuto».

Odio Alessio Cerci perché sembra fare tutto per non godersi la sua vita da privilegiato: la sua carriera ormai si è trasformata in un assurdo tentativo di dimostrare che se non è andata come doveva andare è solo colpa nostra.

Quanto è piccolo Zarate

di Tommaso Giagni

L'estro fine a sé stesso, la presunzione di tenersi fuori da uno sport di squadra. Ho sempre odiato Mauro Matías Zárate. Uno che a vent'anni era andato a prendere soldi in Qatar. Uno che oggi, alle porte dei ventinove anni, non ha imparato niente. Mi lancio in un vaticinio: alla Fiorentina si presenterà bene, farà qualche gol, poi si scoccerà.

Ha giocato in squadre bellissime, mai scontate, piene di tradizione. Posti dove mi fermerei a trascorrere un'intera carriera, se fossi un calciatore: il fortino del Vélez, il lato oscuro di Birmingham, la mitologia degli Hammers. Per non dire della Lazio, che è la mia squadra. L'ho odiato anche il primo anno con noi, quando funambolava e segnava nei derby. L'ho odiato dopo, nelle stagioni successive, quando si è spento. Non poteva più trincerarsi dietro le sue giocate, eppure continuava a non passare il pallone, fare casino con gli allenatori, il ruffiano con i tifosi.

Se va bene, Zárate si crede dio. Se va male, è colpa degli altri. In campo, alterna il broncio vittimistico delle occasioni mancate ai sorrisi verso nessuno, le esultanze boriose: inchinatevi. Umorale, indisciplinato, le volte che accetta di stare in un sistema di gioco sembra concederle come un favore. Ha un talento puro, l'ha buttato. Per questo sarebbe potuto essere un personaggio tragico, invece non è capace di quella grandezza.

Quel leggerissimo fastidio per Pepe Reina

di Marco D’Ottavi

Odio Pepe Reina perché gioca meglio con i piedi che con le mani, e allora fai il centrocampista no?

Odio Pepe Reina perché sembra basso, anche se è alto 188 centimetri; perché sembra grasso, quando non è davvero grasso. Che poi questa cosa dell'altezza e del peso non dovrebbe essere un motivo valido per odiare qualcuno, ma prendetevi del tempo per studiarlo Pepe Reina. Lui sta fermo, mentre gli altri corrono e poi ti viene a dire «non ho mai toccato una bilancia in vita mia». Ecco, Pepe Reina, io l'ho toccata una bilancia, anche per questo ti odio.

Odio Pepe Reina perché dai, quella maglia gialla, attillata, antiestetica, ma che davvero? Poi scopri che quella maglia continua ad indossarla scientemente per scaramanzia. Odio Pepe Reina perché per lui la scaramanzia vale più dell'indossare una maglia decente.

Odio Pepe Reina perché si chiama José Manuel Reina Pàez, ma per gli amici Pepe.

Perché è andato a fare il secondo a Neuer pensando di poter giocare, ma poi è tornato indietro perché ha capito che non poteva giocare. E allora odio Pepe Reina perché ha avuto il coraggio di tornare indietro a Napoli, alla sua gente, come se fosse un aforisma su Facebook.

Odio Pepe Reina perché una volta ha provato a menare un uomo nudo che stava effettuando un innocente invasione di campo. Odio Pepe Reina perché ti pare che vai a imbruttire a un uomo completamente nudo che non è in camera da letto con tua moglie? Odio Pepe Reina perché evidentemente non ha mai visto Friends e la storia del naked guy.

Odio Pepe Reina perché è stato il primo a parare un rigore a Balotelli, rovinando l'unica ragione di vanto di un povero ragazzo; perché è un calciatore professionista, ma avrebbe potuto fare il presentatore professionista da come ha introdotto i suoi compagni vincitori del mondiale 2010, alla faccia della distribuzione del talento.

Odio Pepe Reina perché quello che succede in campo deve restare in campo, lo insegnano le regole del calcio; no Pepe le regole del calcio non dicono proprio un cazzo su questa cosa.

Odio Pepe Reina perché non ho idea di quando le abbia vinte due Confederations Cup, due Europei, un Mondiale, un campionato tedesco, una Coppa d'Inghilterra, un Community Shield, una coppa di Lega inglese, una Coppa Italia, una Supercoppa Europea, ma soprattutto due -ripeto due - Coppe Intertoto. Eppure le ha vinte, ho controllato su Wikipedia.

Odio Pepe Reina perché ascolta musica di merda, perché si è fatto passare il tiro di Inzaghi sotto l'anca e perché in qualche modo è complice di questa cosa.

Ma soprattutto odio Pepe Reina perché quando si è trattato di scegliere tra il pallone e il palloncino, lui ha provato a parare il palloncino. Ma come Pepe Reina? Per tutta la vita ti hanno insegnato a scegliere sempre e solo il pallone; a non avere occhi se non per il pallone, essere sempre concentrato su quell'unico oggetto sferico senza farsi distrarre mai da niente e da nessuno, e poi la prima volta in cui ti viene imposto di scegliere, tu scegli il palloncino?

Io odio Pepe Reina perché potrei continuare a ripetere il suo nome all'infinito e non mi stancherei. Provateci voi.

Il compromesso forzato di Daniele De Rossi

di Alfredo Giacobbe

A me non piacciono le reazioni emotive che eccedono in un senso o in un altro. Al costo di essere criticato per una medietà cerchiobottista, forse, tipicamente italiana. Ma qualcuno di voi provi a spiegarmi le ragioni per le quali Daniele De Rossi si sente autorizzato a riversare litri di bile in campo. Vi chiedo qual è il motivo di tanta rabbia, repressa alla peggio e mai canalizzata verso i veri responsabili, che non possono essere di certo gli altri 21 di turno in campo, o gli arbitri e i suoi assistenti, o le centinaia di migliaia di spettatori d’Italia e d’Europa.

Perché quegli occhi perennemente spalancati e iniettati di sangue? Perché quei coloriti paonazzi e quelle vene gonfie sul collo? Perché quelle urla che lanciano fili di bava nella barba come cime dalle navi verso le bitte?

Qualcuno mi spieghi i cartellini rossi, gli insulti razzisti, le gomitate vigliacche. Provate almeno a darmi una sola ragione per la gomitata sferrata a Brian McBride, in quel Italia-Stati Uniti dell’estate 2006. E no, non vale ricordarmi che tanto alla fine quel Mondiale lo abbiamo vinto, e che il terzo dei cinque infallibili di Berlino era proprio De Rossi. Perché quell’episodio, a posteriori, può essere considerato il suo personale punto-di-non-ritorno. Aveva ventidue anni, non c’era stata provocazione, né la spada di Damocle di un risultato irrecuperabile o di una qualificazione buttata all’aria, De Rossi ha dato una percezione sbagliata di lui, quella del violento, che si sarebbe rinfrescata nell’immaginario dell’appassionato per gli anni a venire.

Non è che sarebbe stato meglio andarsene, sentirsi apprezzato lontano dall’Italia? De Rossi poteva emergere in Inghilterra, diventare finalmente primus inter pares. Perché lì aveva i suoi riferimenti, Roy Keane e Steven Gerrard erano anche i miei idoli! Lì a nessuno sarebbe venuto in mente di dargli un ruolo da attore non protagonista – “Vice Pirlo” o “Capitan Futuro” – non credete?

Perché per me è stato l’unico a restare in piedi sotto il diluvio di Manchester e la grandinata di Kiev. Era il risolutore, il Signor Wolf della mediana, il primo di quei centrocampisti finalmente moderni, capaci per davvero di distruggere e costruire. Tutto si muoveva e nulla stava fermo attraverso i suoi piedi.

Non si può fare a Daniele De Rossi una colpa del suo essere rimasto a Roma, la squadra per cui aveva sempre sognato di giocare. Una dimensione materna, che gli ha perdonato ogni sbaglio, ma gli ha anche permesso di sviluppare quella sua doppiezza così tipica: leader a parole, poco nei fatti. Ogni volta che la Roma si è trovata in una situazione di difficoltà, DDR ci ha messo il sigillo facendo qualcosa di pazzo (è successo qui, qui, e qui, per citarne alcune), eppure il capitano dovrebbe essere l’ultimo ad abbandonare la nave, no?

Negli ultimi Mondiali, sebbene De Rossi non abbia brillato al pari degli altri, si è comunque sentito legittimato ad andare davanti ai microfoni a lanciare accuse ai giocatori più giovani, mettendosi dalla parte degli “uomini veri” contro le “figurine”. Comportamenti che stridono con l’immagine di De Rossi fuori dal campo: una persona intelligente, acuta e molto consapevole del suo ruolo.

De Rossi ci ha costretti ad accettarlo tutto intero, nei suoi pregi e nei suoi difetti, nei tackle più scellerati e in quelli più visionari, nelle sue uscite più intelligenti e in quelle più retrograde. Odio Daniele De Rossi perché è tutto un “sono fatto così”.

Icardi è vuoto

Di Daniele V. Morrone

Il mio odio per Mauro Icardi non ha nulla di personale ma nasce dal fatto che se tutti i giocatori fossero Mauro Icardi io probabilmente non amerei più questo sport. Icardi sembra un uomo privo di sovrastrutture in campo, legato egoisticamente a quello che gli provoca piacere. Icardi spoglia il calcio di qualsiasi velleità intellettuale e lo riduce ai minimi termini: un gioco in cui ha ragione chi segna di più. Icardi cerca solo il gol, e ricercandolo diventa il demiurgo della vittoria e quindi l’uomo da osannare.

Perché questo è Icardi: gol e festeggiamenti dopo il gol. Basta. E la cosa che odio è che gli riesce maledettamente bene: la palla sembra cercarlo in area di rigore e tutti i rimpalli finiscono sui suoi piedi. Come se l’universo mi volesse ricordare ogni volta che, effettivamente, anche trattando il calcio come un gioco in cui basta segnare senza aggiungere altro, si può avere ragione. Anche se movimenti senza palla sono sempre legati al proprio posizionamento rispetto alla porta avversaria o al marcatore diretto. I passaggi sono sempre al compagno più vicino sperando di ricevere la chiusura del triangolo dopo essersi lanciato in area.

Per Icardi tutto quello che non ha a che fare con il gol non sembra neanche interessargli. Non va in contrasto o in pressione in modo davvero deciso, mai. Anche tecnicamente potrebbe proteggere meglio il pallone per far salire la squadra e dialogare con giocatori più lontani di tre metri. Ma non lo fa, preferisce fare solo quello che sa fare benissimo da solo, senza pensare a cosa possa aiutare il gruppo in quel momento. E nonostante tutto viene visto come un vincente e per difenderlo si può citare un dato grezzo come la sua media gol in rapporto all’età. E anche questo non mi piace, perché il calcio non è solo il gol, ma al contempo basta il gol per vincere. E allora sembra che la ricetta per vincere preveda l’egoismo come ingrediente di base.

Egoista anche nella sua visione dell’essere leader: i tifosi contestano lui e Guarin e il colombiano risponde battendosi il petto all’altezza del cuore come per chiedere l’incitamento per chi ce la mette comunque tutta. Icardi indignato per il gesto dei tifosi che gli hanno ributtato la maglia in campo li insulta a loro volta.

Tolta la famiglia, non ho trovato altri interessi in Icardi, che non sia mostrarci il suo nuovo bene materiale, come se l’essere vincenti passi sempre per un’ostentazione visibile e smaccata: un gol, un taglio di capelli fresco, un orologio da 35000 euro e una Lamborghini parcheggiata sotto casa.

Una foto pubblicata da Mauro Icardi (@mauroicardi) in data: 2 Apr 2015 alle ore 05:31 PDT

Questa foto fatta da Icardi rappresenta la sua interiorità.

Alla fine il mio odio è paura. Paura che i giocatori futuri siano tutti degli Icardi abbagliati dal successo di Icardi. Che si trasformino in cartelloni pubblicitari per brand vuoti fuori dal campo privi di ogni poetica.

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