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Gli Utah Jazz stanno cambiando pelle
14 gen 2020
La rivoluzione estiva sul mercato e i miglioramenti di Donovan Mitchell stanno cambiando il volto della squadra di coach Snyder.
(articolo)
15 min
(copertina)
Foto di Melissa Majchrzak/NBAE via Getty Images
(copertina) Foto di Melissa Majchrzak/NBAE via Getty Images
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Ormai avremmo dovuto imparare la lezione: gli Utah Jazz partono sempre piano nei primi mesi di regular season, ma recuperano il tempo perso nella seconda parte di stagione, quando trovano la giusta chimica per assimilare i concetti seminati durante il training camp. Inoltre, negli ultimi tre anni – ovvero da quando lo scettro del giocatore franchigia è simbolicamente passato dalle mani di Gordon Hayward a quelle di Donovan Mitchell – i Jazz non sono mai rimasti fuori dalla griglia playoff a fine anno, e grazie alle 14 vittorie nelle ultime 15 partite, possono vantare un record nettamente migliore (27-12) rispetto all’anno scorso (19-20), o quello prima (16-24), allo stesso punto della stagione.

Solo che, quando l’estate scorsa gli Utah Jazz hanno ufficializzato gli arrivi di Mike Conley e Bojan Bogdanovic, è apparso subito evidente quali fossero le intenzioni della franchigia: il tempo era maturo per alzare la posta in gioco. I Jazz non volevano più sentirsi “La Squadra Carina Che Gioca In Modo Carino (ma che poi non vince mai)”, piuttosto diventare una “Vera Contender” ed essere trattati come tale. Con Rudy Gobert al centro di tutto e la maturazione definitiva di Donovan Mitchell, Utah era pronta per mettersi addosso gli occhi di tutta la NBA. Ma, come avrebbe potuto spiegare facilmente proprio “Spida”, da grandi poteri derivano anche grandi responsabilità: la partenza a rilento (record 12-9) sommata a un gioco piatto e spesso includente ha fatto alzare più di un sopracciglio.

Invece per l’ennesima volta Utah è lentamente risalita fino ad essere a mezza partita di distanza dal secondo posto, e il modello di previsione RAPTOR ideato da Fivethirtyeight.com sembra suggerire che questa striscia positiva non debba interrompersi tanto presto. L’impressione, però, quando si parla o si vede giocare Utah è che manchi sempre qualcosa. Qualcosa nel roster, nella crescita dei singoli, che non siano pronti o forse neanche adatti a stare sul più alto palcoscenico NBA. Intanto però la squadra ha preso a correre fluida nell’ultimo mese, approfittando anche di un calendario un filo più morbido.

La vittoria più prestigiosa dell’ultimo periodo, sul campo dei L.A. Clippers di Kawhi Leonard e Paul George.

Il problema è che Jazz sono una squadra che, storicamente, spalma il proprio profilo tecnico-tattico su l’arco di tutta la regular season, e diventa quindi difficile dare un giudizio completo prima di aver visto tutte le partite; anzi, quasi impossibile, dal momento che è troppo difficile tracciare una parabola credibile per una squadra il cui miglior giocatore ha 22 anni e non ha ancora finito del tutto la fase di apprendistato. Ancora più importante, questa versione degli Utah Jazz ha drasticamente cambiato modo di giocare e di interpretarsi come franchigia (non solo sul campo) e questo rende le cose ancora più complicate, perché oltre a dover aver pazienza con i nuovi arrivati che devono calarsi in una nuova realtà. Occorre dare anche ai veterani il tempo di aggiustarsi. Insomma, occorre essere pazienti.

Il (drastico) cambiamento degli Utah Jazz

Può sembrare una cosa da nulla, ma il fatto che siano stati proprio i Jazz a completare la prima trade da quando ha riaperto il mercato ha, in sé, qualcosa di simbolicamente importante. Lo scambio non è dei più indimenticabili (Jordan Clarkson per Dante Exum e due seconde scelte) ma serve a certificare il cambiamento ideologico della franchigia. Vedere i Jazz muoversi sul mercato nel corso della stagione è una cosa tanto rara quanto vederli rinunciare a un loro protégé, nonché ex scelta in lotteria: se hanno deciso di muoversi è perché hanno iniziato a percepire il tempo in modo diverso, più accelerato, come una squadra che sa di aver meno tempo per sbagliare. L’arrivo di Clarkson, inoltre, è anche una riprova di come i Jazz abbiano reimpostato il proprio assetto tecnico-tattico.

Dopo le due nette eliminazioni ai playoff per mano degli Houston Rockets, Dennis Lindsey (Vicepresidente Esecutivo e architetto dei successi recenti della franchigia) ha capito che occorreva rivedere il paradigma. Per quanto l’Advantage Basketball di coach Quin Snyder funzionasse bene in regular season, quando il livello saliva la squadra perdeva immediatamente le proprie certezze, non riuscendo più a smuovere le difese, e dovendo contare sul solo Mitchell per creare dal nulla spesso con pochi secondi sul cronometro. Servivano più gestori del pallone (condizione necessaria per sopravvivere al più alto livello in NBA) e più giocatori in grado di capitalizzare sui vantaggi accumulati.

La nuova struttura dopo gli arrivi estivi permette di schierare quintetti con quattro giocatori in grado di creare dal palleggio attorno a Gobert, il miglior portatore di blocchi della lega, orientando così l’attacco ancora di più su situazioni di giochi a due e spread pick and roll. Nessuno ne gioca tanti quanto loro (29.3 a partita) e anche il numero di screen assist è cresciuto vistosamente (da 10 a 12.9, nettamente primi). Il numero di passaggi consegnati, invece, si è ridotto di quasi il 50% (da 8.9 a 5) rispetto a un anno fa, così come quello dei tagli lontano dalla palla. Con giocatori più a loro agio nel creare dal palleggio, Utah ha bisogno di meno preliminari per entrare nel vivo del gioco.

Come si vede bene da questa tabella, il numero di tocchi e passaggi è drasticamente calato rispetto a un anno fa. Meno circolazione significa anche meno assist: Utah è diventata molto più dipendente dai jumper dal palleggio dei propri interpreti, soprattutto Mitchell e Bogdanovic.

L’ingresso in rotazione in pianta stabile di Royce O’Neale (45.7% da tre in stagione), sommata agli arrivi di Conley e Bogdanovic, hanno dotato Utah di un parco tiratori impressionante: ben cinque giocatori attorno o sopra il 40% sia in situazioni di catch and shoot che di triple aperte fanno di Utah la miglior squadra al tiro pesante (39%) di tutta la NBA.

L’aggiunta di Bogdanovic, in particolar modo, non solo ha garantito un upgrade di talento rispetto a Jae Crowder, ma ha permesso di aggiungere uno dei migliori tiratori della NBA degli ultimi 18 mesi. Il croato sta vivendo la miglior stagione in carriera (22.5 punti, 8 triple convertite col 42% e 5.5 liberi su 36 minuti) e ha saputo calarsi fin da subito nei panni di realizzatore secondario, togliendo pressione a Donovan Mitchell e risultando imprescindibile per la squadra – tanto che mentre con lui in campo i Jazz sovrastano gli avversari di 7.6 punti, quando si siede il dato crolla fino a un preoccupante -8 (entrambi dati su cento possessi), il divario più ampio tra i giocatori ad aver giocato almeno 500 minuti in stagione.

Bogdanovic in questo inizio di stagione sta massacrando le retine avversarie dalla lunga distanza: 44% in catch & shoot, addirittura 50% quando è smarcato. E sta aggiungendo anche un’alternativa importante in post basso, situazione più utilizzata nelle ultime settimane.

Misurare l’impatto di Mike Conley

Il togliere pressione dalle spalle di Mitchell è il motivo che ha spinto Lindsey e il nuovo General Manager, Justin Zanik, a prendere Mike Conley. L’ex Grizzlies avrebbe dovuto permettere a Spida di poter agire lontano dalla palla in maniera più efficace rispetto a quando al timone c’era Ricky Rubio, grazie alla sua capacità di mettersi in proprio dal palleggio; avrebbe dotato la squadra di un giocatore nettamente migliore di pick and roll rispetto allo spagnolo (mai sopra il 40° percentile in carriera), e le sue doti balistiche gli avrebbero permesso di integrarsi a meraviglia nei possessi giocati lontano dalla palla.

Tutto questo, però, si è visto molto poco nelle prime 22 partite disputate. I numeri sono impietosi: i 16.6 punti rappresentano il minimo dalla stagione 2012-13; i 5.7 assist da quella da rookie (entrambi su 36 minuti); e il 36.5% dal campo è per distacco il peggior dato in carriera. Ad accrescere i dubbi sul suo impatto c’è il fatto che dopo il suo infortunio al bicipite femorale della gamba sinistra del 2 dicembre scorso, la squadra ha iniziato a volare. Ovviamente sarebbe un errore addossare sulle spalle di Conley tutti i problemi iniziali dei Jazz (anche perché, nel frattempo, il calendario si è ammorbidito parecchio), ma è innegabile come la sua assenza abbia permesso alle altre tessere del mosaico di trovare una collocazione migliore.

Dalla panchina su 36 minuti: 10 punti (36% dal campo, 31% da tre) e 4.6 assist

In quintetto su 36 minuti: 15.8 punti (52%, 51% da tre) e 6.5 assist. E nessuno in NBA ha la stessa eleganza e tempismo nel ricevere sul ribaltamento, sfruttare il blocco per prendere un vantaggio e schiacciare il pallone a terra per il lungo che rolla verso canestro. Joe Ingles is back!

Nell’ultimo mese l’efficienza offensiva è schizzata da 105 a 115.9 punti su cento possessi, dato che varrebbe il miglior attacco in stagione. Joe Ingles è tornato sui suoi livelli, e la differenza rispetto all’inizio di stagione, in cui partiva dalla panchina, è abissale non solo nei numeri. L’idea di Snyder di renderlo il sesto uomo (sensata, dato che già da due anni guidava la second unit) non ha pagato i dividendi sperati, e difficilmente Ingles uscirà nuovamente dal quintetto titolare. L’australiano è più di un semplice giocatore per i Jazz: è l’anima della franchigia, un prolungamento in campo del loro modo di intendere lo sport, un po' come Patty Mills per gli Spurs, e l’estensione del suo contratto per un anno prima dell’inizio della stagione - che di fatto lo ha tolto dal mercato rendendolo ineleggibile per una trade per un anno - dimostra quanto Lindsey e Snyder apprezzino il suo contributo.

L’assenza di Conley, inoltre, ha permesso anche a Snyder di disegnare un vestito più adatto a sbloccare il potenziale di Mitchell. Nonostante i suoi numeri non siano molto diversi (25.3 punti, 4.6 rimbalzi e 4.6 assist, tutti massimi in carriera, su 36 minuti), il suo impiego è decisamente diverso rispetto a inizio stagione.

Adesso Don tocca un numero più elevato di palloni (da 58 a 75) e tiene di più la palla in mano (da 4 a 8 secondi di media), dovendo agire da portatore di palla primario. Il numero delle penetrazioni è cresciuto da 15.5 (con Conley) a quasi 20 a partita, così come i punti da questa situazione (da 8.7 a 13.8, solo Spencer Dinwiddie fa meglio).

Mitchell sembra sempre più a suo agio nel manipolare le difese avversarie, e la presenza di tiratori migliori gli ha permesso di guadagnare spazio nel quale operare in avvicinamento a canestro. Il suo rapporto assist/palle perse è migliorato, e la percentuale dal campo è cresciuta di 3 punti rispetto a un anno fa, grazie soprattutto a un jumper più solido sia dopo un palleggio che dopo due (rispettivamente 39% e 40%, un anno fa non arrivava al 31% in entrambe). Le sue cifre dalla corta e media distanza sono talmente buone che appare lecito chiedersi se siano legittime oppure frutto di un buon momento di forma – anche perché, nonostante dei mezzi atletici portentosi, Mitchell continua ad andare troppo poco al ferro – ma il fatto che nelle sue idiosincrasie sia già riuscito a trovare una proprio stabilità deve far ben sperare in vista del futuro.

Nelle ultime 15 partite la percentuale al ferro è salita fino al 66%, nonostante lo stesso numero di tentativi. Mitchell, soprattutto, sta diventando sempre più efficace in situazioni di pick and roll, dove con 0.97 punti per possesso è sopra l’80° percentile.

Nei 468 minuti in cui Conley e Mitchell hanno condiviso il campo, i Jazz hanno un differenziale positivo di quasi otto punti. Parlare di un “problema Conley” sarebbe fuorviante: l’infortunio dell’ex Memphis, semmai, ha dato modo di constatare la centralità di Don all’interno del sistema, cosa che dovrebbe modificare i compiti dell’altro, una volta che sarà rientrato dall’infortunio, lasciando la conduzioni primaria al compagno per assumere un ruolo più à la Malcolm Brogdon, dove poter attaccare una difesa già mossa dopo il primo ribaltamente di campo.

La centralità di Rudy Gobert (e di come la difesa vada analizzata più a fondo)

Se è vero che senza Mitchell e Bogdanovic l’attacco dei Jazz si blocca completamente (non si arriva ai 97 punti segnati su 100 possessi), l’impatto di Rudy Gobert è forse ancora più importante. Il suo imprinting sul tessuto tattico è assoluto: con già oltre 1.550 blocchi portati sulla palla (per contesto: il secondo è Richaun Holmes con poco più di 1.300), la sua capacità di leggere la geometria del campo e occupare gli spazi giusti facilita il compito di tutti i compagni. Il suo impatto è da sempre visto come silenzioso, ma solo se si aspettano le giocate da Sports Center: il Net Rating della squadra quando si siede è peggiorato nettamente rispetto all’anno scorso (+1.3 contro -5) e gli stessi Mitchell, Conley e Bogdanovic vedono il proprio impatto crollare in sua assenza. Pochi giocatori nella lega hanno un profilo determinante come quello di Rudy Gobert.

Gobert non ha mai chiuso una stagione con più di 16 punti e 2 assist di media, ma il suo impatto nella metà campo offensiva non è inferiore a quello in difesa. Lo spazio che riesce a garantire con un suo blocco permette a Mitchell (clip 1) di prendere un tiro non contestato, mentre O’Neale (clip 2) riesce ad arrivare al ferro grazie allo spazio aperto dall’astuzia di Gobert sotto canestro (guardate il braccio sinistro sulla schiena di Marquese Chriss).

Buona parte della sua imprescindibilità deriva anche dai limiti strutturali del roster. Nessuno è in grado di replicare il suo apporto sui due lati del campo, men che mai dopo la partenza di Derrick Favors – un altro giocatore di cui si parla e scrive sempre troppo poco in relazione all’importanza che ha in campo. Dividere le torri gemelle di Utah era la cosa giusta da fare, specie dopo tanti anni in cui i Jazz non erano riusciti a fare il passo successivo, ma l’apporto che Favors riusciva a garantire nei minuti in cui Gobert riposava in panchina era molto prezioso per i Jazz, e finora né Ed Davis né Tony Bradley hanno saputo essere all’altezza.

La sua centralità è evidente anche nella metà campo difensiva, ovviamente, dove da quest’anno i Jazz stanno sperimentando cosa significhi essere una squadra soltanto normale e non eccezionale. L’efficienza difensiva non è poi tanto diversa da quella della passata stagione – 105.8 contro 105.3 di un anno fa, valido soltanto per il nono posto – e dal 2 dicembre, in relazione all’esplosione offensiva, è salito ancora fino ai 108.5 punti (11°). La presenza di Gobert nei pressi del ferro è rimasta di assoluto livello, con gli avversari che tirano con quasi il 12% in meno rispetto alle medie stagionali con lui nei paraggi, e anche la struttura della difesa stessa è rimasta la stessa: le zone da togliere ad ogni costo sono il ferro e gli angoli, tutto il resto è negoziabile. Utah resta tra le squadre che forza più tiri dentro l’area e fuori dal ferro e nelle prime 37 partite ha concesso poco più di 200 triple dagli angoli (solo i Sixers fanno meglio). Tuttavia gli avversari sembrano arrivare a soluzioni pulite con maggiore facilità.

Rispetto all’anno scorso Utah concede meno tentativi al ferro (26 contro 27.5) ma non riesce a mantenere la stessa efficacia. La difesa in transizione è crollata, così come la capacità di esercitare una pressione costante sul perimetro. Passare dal 2° al 28° posto per stoppate a partita non è un bel segnale.

Per quanti limitanti nella metà campo offensiva, Favors, Rubio e Crowder erano ottimi difensori e sapevano muoversi nel sistema ad occhi chiusi. La difesa è anche questione di chimica di squadra e il tempo potrebbe aiutare a migliorare, ma i Jazz sono una squadra molto sottodimensionata sotto il profilo fisico e questo è destinato a restare un limite: Mitchell e Conley (entrambi ufficialmente 1 metro e 85) sono la coppia di guardie più bassa tra le attuali top-7 a Ovest; O’Neale (che si ritrova spesso a dover difendere contro le power forward avversarie) fatica a raggiungere i due metri; Ingles e Bogdanovic non hanno l’esplosività e la velocità per tenere su ogni possesso contro gli esterni avversari – e Gobert non può arrivare a mettere una pezza su tutto.

Credere nella forza delle idee

Era evidente che cambiare avrebbe comportato fare dei sacrifici: la metà campo offensiva ha più valore nella NBA di oggi, e i Jazz lo hanno testato sulla propria pelle negli ultimi due anni. La presenza di Snyder e Gobert (per distacco la miglior coppia allenatore-giocatore a cui affidarsi per costruire un sistema difensivo) è sufficiente per tenere a galla i Jazz quel tanto che basta per essere una difesa accettabile.

La forza delle idee sta tutta nella fermezza con cui si applicano. Plasmando questo tipo di roster Utah dev’essere consapevole dei vantaggi e degli svantaggi a cui andrà incontro, e dovrà riuscire a trovare le proprie certezze anche nelle difficoltà. I Jazz non hanno il materiale umano per poter ingaggiare un duello alla pari contro Lakers e Clippers sul piano fisico, ma potrebbero avere armi a sufficienza per vincere con la tecnica. Abbassare estremamente i quintetti può essere una soluzione interessante, a patto di tenere un’efficienza offensiva simile a quella dell’ultimo mese. Nessuno ha fatto meglio dei Jazz, finora, nelle partite arrivate agli ultimi tre minuti con un punteggio entro i 3 punti: +61 di Net Rating e un attacco che tira con una percentuale (ir)reale del 71%. Saper vincere questo tipo di partite sarà un fattore fondamentale ai playoff, dove difficilmente i Jazz saranno in grado di spazzare via gli avversari.

Utah possiede anche le due migliori lineup della NBA fino a questo momento, ma le rotazioni sono ridotte all’osso. O’Neale è sempre più importante in entrambe le metà campo, Emmanuel Mudiay è una bella scoperta; per il resto, però, non c’è niente. Il rientro di Conley dovrà garantire quantomeno un livello aggiuntivo nel motore, soprattutto in vista di febbraio, dove Utah avrà modo di dimostrare il proprio valore, dovendo affrontare per ben due volte Houston, Dallas, San Antonio, Portland e Denver.

La stagione dei Jazz sta per entrare nel vivo e tutto adesso sembra funzionare. Sarà l’ennesimo anno in cui mancherà ancora qualcosa, oppure Utah può emergere davvero come una contender per il titolo?

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