Il primo controllo: col tacco. Ne avete mai visti di più belli? Antonio Cassano addomestica il pallone bianco e gonfio che gli cade addosso mentre sta ancora correndo, la leggerezza eterea e irripetibile dell’arte, una straordinarietà tecnica che col tempo avremmo imparato ad amare e odiare allo stesso modo. Il secondo tocco: con la fronte, quasi impercettibile, labbra che si sfiorano, dita che si toccano. A questo punto, chi quel 18 dicembre 1999 era in campo, o allo stadio, o anche solo davanti al televisore, aveva già capito: stavamo assistendo a qualcosa di completamente nuovo. In due semplici mosse Antonio Cassano si stava svelando al mondo, ci regalava la sua epifania, i pomeriggi passati a giocare tra i vicoli, il calcio come riscatto, la percezione del pallone come qualcosa di diverso, una geometria non-euclidea, mistica e sensuale.
Per Natale perché non regalare un abbonamento a Ultimo Uomo? Scartato troverete articoli, podcast e newsletter esclusive che faranno felici i vostri amici impallinati di sport.
Quello che viene dopo poteva pure non accadere, eppure accade. Dopo il secondo tocco Cassano continua a esercitare quella sua forza magnetica sul pallone che glielo tiene incollato al piede, entrato in area di rigore con una sterzata fatta di due piccoli tocchi - destro e sinistro - manda a farsi benedire i recuperi di Panucci e Blanc (cosa potevano farci? Niente) e poi col destro, contando mentalmente i rimbalzi maldestri del pallone, calcia forte e secco tra Ferron e il palo destro. Gol: 2 a 1 Bari.
E poi la corsa sotto la curva, le braccia larghe del santo in processione, la gente che gli piomba addosso da ogni lato, i poliziotti con le loro giacche di pelle che devono proteggerlo, la corsetta strafottente per tornare a centrocampo, con l’arbitro Braschi che lo ammonisce e Cassano che fa la scenetta: come potevo fare altrimenti?
«Sembrava quasi che Maradona fosse nato a Napoli» mi dice Giuseppe Sansonna - regista e documentarista (tra le sue opere anche il bellissimo Zemanlandia) che a Bari ci è cresciuto - ricordando questo gol con una metafora che potrà sembrare blasfema, ma che cristallizza bene quell’attimo, il San Nicola che scopre il suo profeta. «L’epifania era stata devastante… sembrava che all’improvviso fosse arrivato il miracolo, cioè che nel tuo vivaio, nelle viscere, nell’utero della tua città sgorgasse uno così».
Raccontare questo gol senza raccontare Bari e i suoi umori è impossibile. Cassano lo pensa, lo costruisce, lo stratifica tra i vicoli della città vecchia. Se ci andate oggi trovate trattorie, negozi, caffè, è il centro della vita notturna della città, ma «all’epoca c’era una spaccatura molto forte, oltre quella linea tu non andavi, perché era folle andare. Lui ci stava dentro, immerso in questo mondo da cui è riuscito a non farsi avviluppare. Lui veniva veramente dal sottoproletariato reale». Cassano cresce con la madre in questa zona d’ombra tra malavita e realismo quasi magico: «C’era un macellaio che mi diceva che gli tirava la carne cruda tipo orca, l’idea quasi circense dell’animale ammaestrato, però non so se fosse leggenda o realtà»; gioca a calcio nella splendida Piazza Ferrarese dove «lui furoreggiava da ragazzino» facendo segnare sempre Nicola, un suo amico poliomielitico «perché questo si appostava sulla linea, Cassano scartava tutti (come poi farà con Blanc e Panucci, nda) e poi gli dava la palla sulla linea. Lo chiamava Tovalieri».
«Io mi pensavo che non giocavo» dice Cassano dopo la partita, nella pancia dello stadio, in un italiano stentato con la bocca impastata di chi sta capendo che tutto quello che credeva in un modo, da domani sarà in un altro. Racconta che il giorno prima aveva visto di sguincio un foglietto in mano all’allenatore e che sopra c’era la formazione col nome di Enyinnaya. Se gioca lui, ha pensato, non gioco io. E invece poi Fascetti gli aveva detto «giocate insieme. Giocate tranquilli, statevi tranquilli che stasera fate bene». Il giorno dopo sul Corriere della Sera scriveranno che Fascetti credeva così tanto in Antonio Cassano da aver chiesto al Bari come ingaggio non soldi, ma la metà del cartellino di quel ragazzino. «Ci siamo riusciti, penso» aggiunge Cassano dopo una lunga pausa scenica.
Enyinnaya era il suo compagno d'attacco nel Bari Primavera, Antonio lo chiamava “Vento” perché era velocissimo. Contro l’Inter era toccato a loro perché i due attaccanti titolari Yksel Osmanovski e Phil Masinga erano infortunati, Gionatha Spinesi squalificato e Davide Olivares era finito in panchina. Enyinnaya, ve lo ricordate, dopo sette minuti segna un gol folgorante, tirando da trenta metri al volo di mezzo collo, dopo aver controllato a rimbalzella un pallone difficile. Cassano è il primo a raggiungerlo alla bandierina, lo guarda dritto negli occhi per un secondo prima di abbracciarlo. Mi dice Giuseppe che «per tutta la partita Cassano avrebbe pensato: “cazzo quello ha svoltato la sua vita e io sto ancora qua”».
Quella sera il primo pallone Cassano lo aveva toccato dopo una quarantina di secondi, le immagini televisive ancora velate dai resti nebbiosi di un fumogeno. È un campanile incontrollabile verso la linea laterale, lui lo stoppa a seguire come se fosse un passaggio da un metro, poi scivola da solo. «Questa è l’emozione» dice Fabio Caressa in telecronaca. Qualche secondo dopo aggiunge «di Cassano si dice un gran bene, qualcuno lo paragona a Maradona, lui preferisce il paragone con Totti che è il suo idolo». Lo dice senza la minima inflessione nella voce, senza stupore o ironia, come se fosse una frase perfettamente normale. Per paradosso però, quello a giocare bene è Enyinnaya. Oltre al gol è più presente nella partita, si sbatte, duella, guadagna falli, si prende i complimenti di Bergomi. Cassano a tratti si nasconde, sbuffa, con quella sua corsa impettita e un po’ ciondolante, già si vede che ce l’ha col mondo. Ma poi, qui e lì, esce il calciatore che sarà, che già è, a diciassette anni e un pezzo: un tocco di suola, una sterzata improvvisa, una difesa del pallone in mezzo a tre avversari, il tempismo dei suoi passaggi che non lo puoi insegnare.
A rivedere Bari-Inter oggi, a distanza di 25 anni, sembra una lunga e malinconica cerimonia di incoronazione di Cassano, l'ultimo trequartista del calcio italiano. A un certo punto entra anche Roberto Baggio, come se in campo servisse un testimone, uno che da pari potesse rendere ufficiale l'evento. Ottantasette minuti e quarantatré secondi di piccoli riti per arrivare a quel lancio di Perrotta («l’unico lancio che ha fatto nella sua vita gli dico sempre») che cambierà la vita di Cassano. «Lui quando segnò, la prima cosa che gli monta in testa è “sono ricco”» questo me lo dice sempre Giuseppe, evidenziando la contrapposizione tra «tutta quella mistura di eccessi, di grandezze che si è rivelata in quel momento magico» e la materialità opportunistica mai nascosta di Cassano, che ancora oggi ai figli fa vedere questo gol, non per vantarsi del gesto tecnico, ma per spiegargli che «da quel giorno sono diventato ricco, famoso e bello».
Quella sera Cassano è il re del Mondo. Tutti vogliono una sua parola, una spiegazione. Lui non si sottrae, si concede a destra e manca, a ognuno una versione. Una volta lo ha fatto senza pensare: «Dopo averla toccata con il tacco non ho pensato più a niente. Con la testa me la sono portata avanti, ho dribblato Georgatos (Cassano lo confonde con Panucci, si capisce che non è totalmente lucido, nda) e ho tirato ad occhi chiusi, con la benda agli occhi, dove andava andava»; un’altra «boh, forse è stata fortuna»; un’altra ancora è stato «un gesto tecnico normale, in allenamento ma anche per strada ne avevo fatti di più belli». Ai microfoni della Rai, ancora in accappatoio, trasognante e fanciullesco dice «mi sembra che sto sognando, non è realtà… non voglio dire altro». Il giornalista allora lo incalza «che succede dopo questa rete?». Lui: «Non succede niente, come ero, sarò: normale».
Non avevamo capito che lui intendeva la sua normalità, che non è quella degli altri, che è dolce e spigolosa insieme. Una normalità che non lo ha reso profeta in patria, lascerà Bari quasi subito per la Roma e anche oggi non vive lì, ma che è «stata una speranza, un allineamento dei pianeti che ha rappresentato qualcosa». Un gol che forse è anche qualcosa di più dell’evidenza del talento di Cassano, del suo svelamento. Un gol che arriva proprio alla fine del ‘900, che chiude un secolo e ne porta un altro, storico ma anche calcistico. Un gol a cavallo tra due ere, quella di oggi e quella di ieri, un gol che, non lo sapevamo, ci stava dicendo tante cose, su Cassano, sulla Serie A, sul calcio italiano come movimento, ma anche, forse, su noi stessi come persone.