Un ottimo modo per controllare la validità dei luoghi comuni sulla leggendaria autoironia britannica è andare di persona a Wembley. Il vialone che dal parco porta allo stadio sarebbe capace di emozionare anche se fossero le tre del pomeriggio di un piovoso giovedì di novembre, e vale la pena sopportare le lunghe file per trovarsi davanti non solo il proverbiale arco ma addirittura a lei, the original crossbar: un lungo bastone bianco ormai aggredito dall'usura del tempo ma non ancora vinto, tenuto in orizzontale da due pali di ferro che tutti insieme vanno a comporre idealmente la porta più importante della storia del calcio inglese. Il segno tangibile di quello che può combinare la specie umana se le si affida semplicemente un pezzo di legno, con effetti più dirompenti di un mastro Geppetto. E di abbagli, falsi miti e altre pietose menzogne questa storia è ugualmente ricca.
Conoscendo la scrupolosità patologica con cui gli inglesi rispettano la propria storia, non c'è dubbio alcuno che quel pezzo di legno consumato sia davvero la Santa Traversa.
Il Mondiale 1966 nasce sotto la cattiva stella di un clamoroso e spettacolare furto sotto il naso di Scotland Yard. Come tutti i Paesi prima e dopo di lei, per darsi lustro e cavalcare l'evento, l'Inghilterra allestisce una mostra a tema Mondiale: francobolli, cimeli vari e soprattutto la Coppa Rimet, che con il football ha fin qui avuto una relazione complicata. Il luogo convenuto è la gigantesca Westminster Central Hall, sede di congressi e conferenze, da cui però – il 20 marzo 1966 – il trofeo viene rubato.
La polizia dispone perquisizioni a tappeto nelle due fermate di metropolitana più vicine, Charing Cross e Birmingham, ma invano. Poche ore dopo la Football Association riceve una telefonata da un tale che si qualifica come Jackson e preannuncia una lettera di riscatto nei giorni successivi. La lettera arriva: si chiedono 15 mila sterline e si allega, come prova del furto, la testa rimovibile collocata nella parte superiore del trofeo, dalla forma simile a un posacenere – il simbolico equivalente del proverbiale orecchio mozzato. Il presidente Joe Mears accetta la proposta e fissa il Battersea Park come luogo dello scambio, ma naturalmente informa Scotland Yard. Quanto alla controparte, nel suo tragitto verso il parco viene messa sul chi vive da un furgone sospetto e prova a tagliare la corda. Buona idea, ma cattiva resa: il furgone è pieno di poliziotti che naturalmente lo catturano. Il tizio si chiama Edward Bletchley, ha 47 anni ed è un ex soldato disoccupato: difficile che possa essere lui la mente. Lui stesso protesta la propria innocenza, dice di essere un mero esecutore e che a lui sarebbero finite in tasca solo le 500 sterline anticipate da chi gli aveva commissionato il furto. Sì, ma la coppa? Al tempo, dice Bletchley. Chiede d'incontrare in carcere una misteriosa signora e, se Scotland Yard non interferirà, la coppa salterà fuori. La polizia accetta.
Una settimana dopo, domenica 27 marzo, David Corbett, 26enne londinese impiegato in un'azienda di viaggi, sta giocando in giardino con il suo cagnolino Pickles (letteralmente, “cetriolini”), quando questi nota per caso un grosso ammasso di fogli di giornale che spunta da dietro una siepe. E che cosa ci trova dentro? La Coppa Rimet nella sua versione originale, confermata dalla complicatissima e costosissima base tempestata di lapislazzuli, impossibile da riprodurre tanto fedelmente in meno di una settimana. Ma qualche dubbio rimane: per esempio, a che scopo ignorare i costosissimi francobolli della mostra e trafugare solo il trofeo per poi abbandonarlo come una carta di caramella?
Qualche giorno fa una lunga inchiesta del Daily Mirror ha dissipato quest'ultimo dubbio: l'autore materiale del furto si chiamava Sidney Cugullere, che aveva agito insieme a suo fratello Reg esclusivamente per il brivido del crimine, e per essere “i primi inglesi a sollevare il trofeo”; il povero Bletchley, invece, era il classico amico che aveva pagato per tutti. Ad ogni modo, per evitare ulteriori guai, la FA commissiona in segreto una copia del trofeo a George Bird, un gioielliere londinese che ne realizza una in bronzo dorato; sarà la coppa “di riserva” portata in giro per il mondo per mostre ed esibizioni pubbliche fino al 1970, quando il Brasile se l'aggiudicherà per la terza volta e dunque definitivamente. Definitivamente fino a un certo punto, però: il trofeo verrà nuovamente rubato a Rio de Janeiro nel dicembre 1983, i 1800 grammi d'oro di cui è puntellato saranno fusi in lingotti d'oro e venduti per un totale di circa 50 milioni di lire dell'epoca. Almeno, questa è la versione che ne darà la costernata Federazione brasiliana poche ore dopo...
Cugullere, soprannominato “Mr Crafty” per le sue qualità quasi leggendarie da rapinatore, morirà di cancro nel 2005 portandosi il segreto nella tomba, ma tutti gli altri protagonisti di questa storia lo precederanno di un bel po'. A causa del forte stress rimediato in quella lunghissima settimana di indagini e ricerche, il presidente federale Joe Mears muore d'infarto il 30 giugno 1966 mentre si trova a Oslo, a meno di due settimane dall'inizio del Mondiale. Bletchley passerà due anni al fresco per ricettazione, prima di essere scarcerato e finire all'altro mondo per un brutto enfisema polmonare. Quanto al povero Pickles, sarà il più sfortunato di tutti: un anno dopo, mentre sta inseguendo un gatto, inciamperà in un tronco d'albero e finirà soffocato dal suo stesso guinzaglio. Meglio cambiare argomento, quindi.
Alf's Kitchen
Alla vigilia del torneo la sfiducia generalizzata attorno alla Nazionale guidata da Alf Ramsey è ben rappresentata dal commento sul "People" di Gerry Hitchens, numero 9 dell'Inghilterra a Cile 1962 e lasciato a casa dal CT per il veto ai giocatori che giocano all'estero: «Vedo una Germania sconfitta in finale. Dall'Italia». L'accento cade sul troppo poco talento di cui dispongono i "Tre Leoni", si sviluppano impietosi confronti con i Pelé, gli Eusebio, i Seeler, i Rivera; il più dotato di tutti, il centravanti Jimmy Greaves, sembra uscire spesso fuori di testa, e ha quasi mandato al manicomio Nereo Rocco nella sua breve esperienza al Milan nel 1961 ed è personaggio di difficilissima gestione.
Non saranno i migliori giocatori del mondo, ma in realtà gli uomini scelti da Ramsey – un uomo di campo estremamente quadrato, ben poco incline alle pubbliche relazioni, vagamente xenofobo – sono certamente i meglio allenati: degli undici gol segnati dall'Inghilterra nel torneo, sette arriveranno dopo il 75', compreso quello che sarà la pietra dello scandalo di tutta questa storia. Superano il girone contro Uruguay, Francia e Messico senza subire neanche un gol, mentre già al primo turno cadono fragorosamente importanti favorite come l'Italia, ridicolizzata dalla Corea del Nord, e il Brasile bicampeao in carica, atteso dall'ultima eliminazione ai gironi di cui si abbia memoria. La Seleçao è vittima di una prima fase brutta, sporca e cattiva, dominata da un agonismo impetuoso invece che dalla mera tecnica come nell'ultima edizione europea del 1958, con illustri sconosciuti come il bulgaro Zecev o il portoghese Morais improvvisamente balzati agli onori delle cronache per aver azzoppato il 25enne Pelé, all'apice della forma e della carriera.
Compilation di botte inferte a Pelé durante i Mondiali 1966 dalle nazionali rappresentanti del calcio europeo, quello più evoluto del mondo.
Nonostante i giornali locali esaltino a piè sospinto la vocazione al fair play del calcio europeo, il Mondiale inglese non è meno immune dalla questione arbitrale di quanto lo fosse stato quello cileno di quattro anni prima, con l'Italia vittima ahinoi proprio di un arbitro inglese, il famigerato Ken Aston. In Europa le parti sono ribaltate: nei due quarti di finale Germania-Uruguay e Argentina-Inghilterra, graziosamente arbitrati rispettivamente da un inglese e un tedesco, va in scena una serie indimenticabile di errori.
A Sheffield, Schnellinger arriva vent'anni prima di Maradona a schiaffeggiare un colpo di testa uruguaiano diretto sotto l'incrocio. L'arbitro Finney fa finta di niente, facendo poi calare la mannaia del cartellino rosso (si fa per dire, visto che saranno introdotti solamente nel 1970) in rapida successione su Troche e Silva a inizio ripresa: in 11 contro 9, la Germania dilaga 4-0. A Wembley la cerebrale Argentina di Juan Carlos Lorenzo incarta magnificamente la partita agli inglesi, costellandola di falli, interruzioni e proteste, finché il capitano Rattin viene espulso per una misteriosa frase proferita verso l'arbitro Kreitlein in chissà quale lingua, visto che questi non parla spagnolo, unico idioma conosciuto da Rattin. Memorabile la giustificazione fornita il giorno dopo da Kreitlein, scovato da alcuni giornalisti ai giardini di Kensington: «Per capire cosa mi stava dicendo Rattin, mi è stato sufficiente guardarlo in faccia». Uscendo dal sacro prato di Wembley dopo infinite proteste, Rattin reagisce alle contumelie dagli spalti stropicciando provocatoriamente la bandiera della Union Jack issata sopra i paletti dei calci d'angolo. «Chi parla di complotto a favore di tedeschi e inglesi», scrive l'inviato dell'Equipe «può sostenere questa tesi con le cifre: nelle ultime tre partite la Germania ha giocato contro squadre di dieci e nove giocatori: l'Argentina in 10, l'Uruguay in 9 e l'URSS in 9». Per i complottisti potremmo aggiungere che il presidente della FIFA è Stanley Rous, britannico.
La poesia del calcio: vent'anni prima che gli argentini depredassero gli inglesi con la Mano de Dios, in Inghilterra gli arcinemici degli inglesi derubavano allo stesso modo gli arcinemici degli argentini.
Le due semifinali scivolano via con lo stesso punteggio, 2-1 per le favorite, ma le sensazioni sono opposte. L'Inghilterra batte la rivelazione Portogallo con una gran bella prestazione in cui brilla come non mai la stella di Bobby Charlton, probabilmente alla miglior partita in carriera. È anche la gara-manifesto del mastino Nobby Stiles, che cancella dal campo Eusebio, a segno nel finale solo su rigore. Germania-URSS invece è un pedante monologo tedesco che va a infrangersi quasi regolarmente contro il portentoso Yashin, battuto solo due volte e autore di almeno sei o sette miracoli. A decimare i sovietici ci pensa l'infortunio di Sabo a metà primo tempo e la fiscalità dell'arbitro siracusano Concetto Lo Bello, che espelle la stella Cislenko a margine del gol di Haller arrivato a un minuto dall'intervallo. E così, inevitabilmente, la finale è Inghilterra-Germania.
È la prima volta che le due Nazionali si affrontano in gara ufficiale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e, nonostante i proclami di fair play, c'è una certa tensione cavalcata dai giornalisti, specialmente quelli più anziani che scrivono sui tabloid, che – come scrive la Bild - “sembrano tanti reduci di guerra che battono a macchina con l'elmetto e la maschera antigas”.
Giunti all'appuntamento finale senza brillare come spesso gli succede, i tedeschi hanno due grossi dubbi di formazione. Il primo è sorprendentemente il portiere, quasi un unicum nella storia della Nationalmannschaft. Il titolare Tilkowski non sta benissimo e oltretutto non dà grosse garanzie sui palloni alti, come ha dimostrato anche nell'azione del gol subito dai sovietici in 9 contro 11; ma il portiere di riserva, il giovane Sepp Maier del Bayern Monaco, è anch'egli acciaccato. Il secondo dubbio riguarda il centravanti Lothar Emmerich, bomber strepitoso del Borussia Dortmund ma non esattamente un cuor di leone: pur giudicandolo troppo tenero per una partita così importante, alla fine il CT Schon decide di dargli fiducia. Zero dubbi invece per Alf Ramsey, che decide di confermare gli stessi undici titolari schierati contro Argentina e Portogallo: non c'è più spazio per Jimmy Greaves, titolare nella prima fase ma ormai scalzato dalla rivelazione Hurst e dal grezzo ma utilissimo Hunt, che suole spolmonarsi molto più del bizzoso centravanti del Tottenham.
Nell'ultima finale mondiale della storia senza sostituzioni il peso di queste decisioni iniziali è ancora più schiacciante. L'andamento della partita, spettacolare anche dal punto di vista climatico – uno splendido sole illumina Wembley per quasi tutta la partita, prendendosi quindici minuti di pausa solo durante l'intervallo per cedere il passo a un acquazzone torrenziale – rispecchia le previsioni della vigilia. A riguardarla con lo sguardo cinico di oggi, Inghilterra-Germania 1966 non ha un'oncia dell'esotico fascino vintage di Italia-Brasile 1970 o del pathos del titanico scontro di stili tra Germania e Olanda nel 1974.
Il particolare più significativo di quell'edizione sospesa tra il glamour e il calcio dei pionieri è nel particolare di Nobby Stiles che prima di scendere in campo si toglie i finti incisivi e canini da passeggio (gli originali erano saltati anni prima, in chissà quale scontro di gioco) dandoli in custodia alla riserva Ian Callaghan, che li conserverà in tasca per tutta la partita. Questa finale è l'atto più ispirato di un'edizione muscolare e agonisticamente sopra le righe, ma quasi tutte le azioni da gol nascono da lunghe teorie di palloni calciati tesi e fortissimi verso l'area o la porta, sperando nel rimpallo o nell'errore difensivo. È così per tutti e quattro i gol dei tempi regolamentari, due per parte: 1-0 di Haller, pareggio inglese con Hurst, 2-1 inglese di Peters a dieci minuti dalla fine e beffardo 2-2 di Weber all'ultima azione, dopo una mischia ben poco degna di Sua Altezza Reale, splendida sugli spalti vestita di giallo.
Gli highlights della finale 1966 in uno sfavillante HD in Technicolor.
Supplementari! In caso di pareggio dopo i 120 minuti, si rigiocherebbe il martedì successivo (anche i rigori sono ancora di là da essere inventati): per questo motivo le squadre, seppur esauste, continuano a cercare il gol senza risparmiarsi. Secondo la leggenda, Ramsey continua a motivare la sua truppa indicando loro i tedeschi stremati a terra («Look at them! They're finished!», cioè: «Guardateli! Sono finiti!»). L'espediente motivazionale ha presa soprattutto sul migliore in campo nonché il più giovane della compagnia, il piccolo e rapidissimo Alan Ball, aletta del Blackpool che ha avuto la certezza di giocare solo a colazione, e adesso sulla fascia destra sta mandando ripetutamente in crisi Schnellinger. Gli inglesi ci vanno vicino con una sassata da fuori di Bobby Charlton miracolosamente deviata sul palo da Tilkowski. Poi, al minuto 11 del primo tempo supplementare, arriva il momento più vivisezionato della storia del football, l'equivalente calcistico del filmato amatoriale girato da Abraham Zapruder a Dallas il 22 novembre 1963.
That goal
Ricordate il preoccupante clima da guerra che si respirava alla vigilia? Non a caso a dirigere la finale è stato designato uno svizzero, Gottfried Dienst, uno dei più prestigiosi fischietti della storia del calcio, unico insieme a Sergio Gonella ad aver diretto una finale mondiale e una finale europea (il primo atto di Italia-Jugoslavia 1968), nonché due finali di Coppa Campioni. È un arbitro estremamente affidabile che nella prima fase ha diretto senza la minima sbavatura Italia-Cile, il delicatissimo remake della Battaglia di Santiago di quattro anni prima.
In un'epoca ben lontana dalle “specializzazioni”, i guardalinee sono semplicemente altri arbitri di campo dirottati sulle linee laterali. Quello di sinistra è il cecoslovacco Karol Galba, che si è limitato a dirigere bene Uruguay-Francia, gara di gironi. Il secondo è il sovietico Tofik Bachram-og'ly Bakhramov, originario di Baku, attuale capitale dell'Azerbaigian, e internazionale dal 1964. Nei gironi ha diretto così così Spagna-Svizzera, annullando il gol regolare del pareggio svizzero, ma nella FIFA gode di un certo prestigio.
Torniamo in campo appena in tempo per ritrovare Alan Ball scatenato sulla destra. Ha lasciato sul posto Schnellinger per l'ennesima volta, ha eluso la blanda opposizione di Hottges e ha messo in mezzo un pallone a mezz'altezza agganciato in bello stile dall'accorrente Hurst. Un pallone bellissimo, modello Slazenger 25 Challenge 4 Star, rosso fiammante, fin troppo audace per l'aplomb britannico, l'ultimo pallone mondiale di vecchia generazione prima della rivoluzione dell'Azteca 1970, quello coi pentagoni neri e gli esagoni bianchi. Hurst sta caricando il destro, può essere il tiro che decide il Mondiale. E dunque lasciamo la parola al sommo Vittorio Pozzo, inviato a Wembley per la Stampa: «La mezzala destra Hurst, piombando velocemente sulla palla, faceva partire un tiro alto di grande potenza. La palla, malgrado il gran balzo del portiere Tilkowski, andava a picchiare sotto la sbarra trasversale della porta, rimbalzando poi direttamente in campo. Tutti si volgevano allora verso l'arbitro, in attesa della sua decisione. L'arbitro stesso dichiarava a tutta prima che la palla non era entrata in rete, con un gesto vivace che tutti vedevano; ma suscitava così le vivaci reazioni di tre o quattro dei giocatori inglesi che pretendevano che la sfera fosse entrata in rete. Sopravveniva allora uno dei guardalinee, e dopo una piccola confabulazione l'arbitro dichiarava valido il punto. Era la volta allora dei tedeschi di reclamare, ma la decisione era stata ormai definitivamente presa e non c'era più nulla da fare in contrario».
Rivediamolo dunque, a colori, questo gol di Hurst. E rivedendolo apprezzeremo innanzitutto
- il totale disinteresse del numero 21 inglese Hunt, talmente certo che la palla sia entrata da fermarsi e alzare le braccia invece che ribadire in rete, venendo così anticipato dal tedesco Weber che di testa mette in angolo;
- il ciuffo argentato del signor Bakhramov, un uomo di 41 anni ingentilito dalla mezza età;
- il pessimo piazzamento dello stesso Bakhramov, nient'affatto perpendicolare alla linea di fondo bensì posto a quattro-cinque metri dalla bandierina del corner, forse colto di sorpresa dalla velocità dell'azione inglese;
- gli istanti immediatamente successivi al gol, in cui gli inglesi stanno fermi e inebetiti con le braccia alzate, sperando di condizionare l'arbitro ma difettando di quella spudoratezza latina che li porterebbe a inscenare un teatrino ben più convincente verso Dienst. Non hanno imparato niente dagli argentini;
- i tedeschi, loro sì convinti e convincenti, che gesticolano in direzione di Bakhramov, il quale nel frattempo sta richiamando Dienst che, trovandosi in posizione quasi totalmente frontale rispetto alla porta, non può aver visto niente. Tra i tedeschi più indignati da un gesto così poco aderente al fair play c'è Weber, colui che ha visto meglio di tutti trovandosi a un metro dalla porta, che si scaglia furioso contro Bobby Charlton: «Fermati! Che stai facendo?», gli urla, cercando di fargli abbassare le braccia;
- Bakhramov che entra addirittura in campo di un paio di metri per conferire con Dienst, mantenendo una posa marziale assolutamente consona alla situazione. Così come Kreitlein e Rattin, è piuttosto improbabile che i vocabolari dello svizzero Dienst e del sovietico Bakhramov abbiano anche una sola parola in comune. Perciò si capisce cos'ha così tanto da gesticolare Bakhramov, che muove due volte la testa dall'alto verso il basso in segno di assenso e poi indica il centrocampo con teatralità di Lando Buzzanca. A quel punto Dienst non può far altro che prendere per buona la versione dell'assistente, così come qualsiasi buon arbitro farebbe al suo posto, e muove – meno convinto, ma ripetutamente – una decina di volte il braccio destro in direzione del campo, mentre i 110 mila di Wembley erompono in un ruggito assordante. Tre tedeschi scattano come sincronizzati verso l'assistente, che però è ormai irremovibile e si limita a rispedirli in campo.
L'azione per intero, a colori con il commento spagnolo, con tanto di dialogo “dall'alto” tra Dienst e Bakhramov e proteste tedesche. Da qui la palla non sembra proprio entrata.
Passeranno giorni, mesi, anni prima di giungere a una seppur labile certezza. Le reazioni a caldo sono contrastanti. Il CT tedesco Schon fa melina: «Non ero in condizione di vedere bene», ma secondo l'altro inviato della Stampa Paolo Bertoldi avrebbe confessato a un suo collaboratore che la palla era dentro. Tilkowski è di parere opposto: «Ci hanno derubati, il gol non c'era assolutamente». Seeler osserva: «È strano che l'arbitro che si trovava a sette metri abbia dovuto ricorrere al guardalinee che si trovava a trenta metri». Gianni Brera, notoriamente filo-teutonico, scriverà nella sua storia dei Mondiali che Bakhramov si è voluto vendicare dell'eliminazione dell'URSS in semifinale. Da qui alla geopolitica il passo è brevissimo, ed è una tentazione cui non sfuggono neanche scrittori d'élite come Jonathan Wilson, secondo cui Bakhramov, ex ufficiale dell'Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale, sarebbe spirato alla maniera di Orson Welles in "Quarto Potere", pronunciando sul letto di morte la fatidica parola “Stalingrado”.
Qualcuno giura di aver visto una nuvoletta di calce sollevata dal pallone, segno inequivocabile che ha quantomeno toccato la linea, ma certezze non ce ne sono. Di sicuro c'è il quarto gol degli inglesi, a un minuto dalla fine, con alcuni tifosi che scambiano un intervento di Dienst per il fischio finale e invadono il campo mentre Hurst si invola verso Tilkowski e il telecronista della BBC Kenneth Wolstenholme pronuncia le sue ultime parole famose: «They think it's all over... it is now! It's four!» («Pensano sia finita... lo è adesso! È 4-2!»).
Per nulla crocifisso e lapidato com'è usanza fare oggigiorno anche con arbitri che hanno preso decisioni corrette, Bakhramov continuerà ad arbitrare ad altissimi livelli: dopo aver ricevuto un fischietto d'oro dalla Regina Elisabetta così come Dienst e il loro collega cecoslovacco, lo ritroveremo in semifinale di Coppa Campioni (Manchester United-Real Madrid 1968), ai Mondiali di Messico 1970 (Perù-Marocco) e persino in finale di Coppa Intercontinentale 1972 tra Independiente e Ajax, quando il gioco violento dei padroni di casa costringerà Cruijff ad abbandonare la contesa dopo mezz'ora, con gli olandesi furibondi che quasi non rientrano in campo nella ripresa e che diserteranno l'anno dopo. Hurst e Tilkowski si ritroveranno nel 2004 nientemeno che a Baku, nel frattempo capitale di uno Stato indipendente il cui stadio della Nazionale, caso unico nel mondo, è dedicato a un arbitro. Con quella sincerità ironica tipicamente inglese, Hurst dirà: «Per tante persone l'Azerbaigian è un Paese strano e lontano, ma non per me. Per me è il paese natale del mio amico Bakhramov».
Ci vorranno i marchingegni dell'età moderna per provare a mettere un punto fermo sulla vicenda, peraltro sempre affrontata dai tedeschi con uno stile e un'educazione che a queste latitudini possiamo sognarci: d'altra parte, andare in semifinale ogni quattro anni aiuta, e non aver mai più perso da allora un confronto a eliminazione diretta contro gli inglesi – da cui la famosa massima di Gary Lineker - aiuta ancora di più. Consumeranno la loro gelida vendetta nel 2010 a Bloemfontein, in un ottavo di finale del Mondiale sudafricano, quando l'arbitro uruguayano Larrionda e i suoi assistenti chiuderanno gli occhi su un tiro di Lampard palesemente dentro di almeno mezzo metro, aprendo la strada alla necessaria introduzione della goal-line technology.
Ma la vicenda del gol di Hurst continuerà ad appassionare grandi e piccini: nel 2016, in occasione dei 50 anni del titolo mondiale, Sky Sports produrrà una sofisticata ricostruzione in 3D in cui la palla “sembra” proprio entrata. Certamente più convincente della contro-ricostruzione della più casereccia Bild, che ovviamente affermerà che la palla non era entrata: molto più dozzinale, una specie di Supermoviola di Biscardi. Così, per quanto realizzato avvalendosi di una tecnologia molto meno onnipotente di quella attuale, a oggi lo studio più valido, completo e intellettualmente onesto in materia rimane quello esposto da Ian Reid e Andrew Zisserman in una pubblicazione del Dipartimento di Ingegneria dell'Università di Oxford, anno 1996. Sono dodici pagine estremamente accurate, disponibili in formato PDF, in cui l'azione incriminata viene sezionata alla luce delle due migliori riprese disponibili (quella della diretta tv e quella “dal basso” che si vede nel film ufficiale del Mondiale), tenendo conto di tutte le possibili variabili (distorsione delle riprese, inganni della prospettiva, errori di sincronizzazione) e dei margini di errore. Per quanto siano indispensabili approfondite conoscenze di trigonometria e geometria vettoriale per goderne appieno, le conclusioni sono di britannica asciuttezza: analizzando ognuno dei sei fotogrammi in cui la palla colpita da Hurst è più vicina alla linea (per un lasso temporale di circa 24 centesimi di secondo), in nessuno di questi la oltrepassa interamente, andandoci vicino al massimo per sei centimetri.
Alle 17:40 del 30 luglio 1966, la Regina Elisabetta consegna finalmente al capitano Bobby Moore la prima Coppa del Mondo della storia del calcio inglese. Quasi sotto la doccia, gli inglesi vengono raggiunti da Peter Weston, un poliziotto di ventun anni che trova nell'uniforme che indossa il coraggio per andare da Nobby Stiles e strappargli la coppa dalle mani – che di cani dal nome buffo in Inghilterra non ce ne sono molti, e dunque meglio portarla in un caveau, che non si sa mai.
Nello spogliatoio dei campioni del mondo nessuno fiata, accontentandosi della mesta replica dell'orafo George Bird. Come insegna James Bond, per un inglese non c'è nulla di più importante dell'interesse nazionale.