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Il gol che mi ha fatto capire chi era Thierry Henry
15 mag 2020
Quando Henry vinse da solo contro tutto il Liverpool.
(articolo)
10 min
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Il 9 aprile 2004 l’Arsenal sembra intenzionato a buttare la stagione. La squadra di Arséne Wenger ospita il Liverpool a Highbury, va in svantaggio dopo cinque minuti per un colpo di testa di Hyypia su calcio d’angolo e pareggia con Henry intorno al ventesimo: controllo sul lancio di Pirès e diagonale di sinistro a incrociare sotto le gambe di Dudek; poco dopo, però, va nuovamente sotto, Owen segna un gol simile a quello di Henry: Gerrard vede il suo taglio in area di rigore e lo serve con uno splendido filtrante di interno destro, Owen controlla e calcia sotto le gambe di Lehmann. Henry ricorda che a quel punto, sul 2-1 per il Liverpool, «lo stadio aveva smesso di respirare». Non il pubblico, ma proprio lo stadio, inteso come organismo.

Per capire la delicatezza di questo momento bisogna tenere conto dei giorni precedenti. Quella con il Liverpool era la terza partita in meno di una settimana per l’Arsenal: il 3 aprile era stato sconfitto dallo United in semifinale di FA Cup e il 6 aprile era uscito dalla Champions League dopo che il Chelsea aveva vinto 2-1 proprio a Highbury. In campionato, la squadra di Wenger non aveva ancora perso una partita, era in testa con 7 punti di vantaggio sul Chelsea e otto giornate ancora da giocare. Il che significa che matematicamente l’Arsenal si sarebbe persino potuto permettere quella terza sconfitta consecutiva. L’esperienza però dice che anche le squadre migliori possono lasciarsi sfuggire di mano intere stagioni senza neanche accorgersene: all’Arsenal era successo giusto la stagione prima, quando era arrivato secondo in Premier League sprecando un vantaggio che a marzo era di cinque punti sul Manchester United (alcuni bookmakers avevano addirittura chiuso le scommesse pensando che ormai per l’Arsenal fosse fatta). Fino a qualche giorno prima della partita con il Liverpool «qualcuno parlava addirittura di treble», ricorda Henry, «e in una settimana stavamo per perdere tutto».

Dopo il gol di Owen non è solo l’aria di Highbury ad essersi rarefatta, ma è anche l’Arsenal a sembrare stordito. Nel secondo tempo, però, viene fuori il carattere di Thierry Henry.

Dopo qualche anno con Wenger, che lo aveva riportato al centro dell’attacco come quando era ragazzo (ma Henry all'inizio era scettico, in fondo aveva vinto la Ligue 1 con il Monaco e il Mondiale con la Francia giocando ala), era diventato uno specialista dei movimenti in profondità, di quelle corse sul filo del fuorigioco che, insieme alla sua qualità in fase di controllo e da quello che lui stesso definiva «istinto killer» sotto porta, facevano sì che quando la palla arrivava ad Henry alle spalle della difesa avversaria la sensazione era che il gol fosse praticamente fatto. Ma non ha mai perso il desiderio di contribuire al gioco di squadra e di influenzare anche altri aspetti oltre alla finalizzazione.

Di Henry ricordiamo la leggerezza e la velocità, tendiamo però a dare meno importanza al fatto che fosse alto quasi un metro e novanta e che quando veniva a centrocampo a prendere palla poteva tranquillamente proteggerla dalla pressione di giocatori come Hamann e Gerrard - «Non potevi neanche prenderlo a calci», ha detto Carragher, suo avversario quel giorno – oppure allargarsi e fare a spallate con Riise. O che la sua tecnica di base gli permettesse di rendersi utile anche solo attirando su di sé e dribblando mezza squadra avversaria, prima di passare la palla a un compagno. In un’intervista al Guardian di qualche mese successiva alla partita con il Liverpool Henry ha detto che quando era giovane giocare a calcio per lui significava fare quello che voleva in campo, mentre crescendo è diventato più attento a «quello che il campo voleva che facessi».

Proprio per la voglia di prendere per mano l’Arsenal in un momento di difficoltà come quello alla fine del primo tempo, all’inizio del secondo inizia a farsi vedere a centrocampo, venendo persino a prendere palla dietro la linea di Heskey e Owen. Tre minuti dopo la ripresa, in un momento in cui ha scambiato la posizione con Pirès, riceva palla sulla linea laterale, a sinistra. Davanti ha Diouf e il resto del Liverpool, anziché partire lungolinea fa qualche passo verso l’interno e serve il movimento intelligente di Ljungberg alle spalle di Gerrard. Ljungberg di prima, al volo, la passa a Pirès che a sua volta si è mosso con acume dietro alla difesa e può pareggiare da pochi metri. Henry era stato decisivo cominciando l’azione, stavolta, anziché finendola.

In realtà, la maturazione di Henry consistite solo nella capacità di scegliere con più attenzione quando passare la palla anziché caricare a testa bassa, di diventare anche un po’ playmaker oltre che ala e centravanti. Ma i suoi dribbling e le sue conduzioni palla al piede erano comunque necessarie alla squadra. Quando parliamo di un giocatore con le qualità di Henry, non c’è grande differenza tra quello che vuole fare lui e quello che il campo vuole che faccia. O ancora meglio: tra quello che lo divertiva e quello che era necessario non c'era differenza. Anche per come era il calcio in quegli anni: l’evoluzione professionale, culturale, tecnica e atletica era già a buon punto, ma l’organizzazione di squadra era decisamente meno raffinata di oggi e ci si aspettava che giocatori come Henry fossero in grado di risolvere più o meno da soli (insieme ad altri giocatori come loro, cioè) la fase offensiva.

Lui era riuscito a tenere insieme a una maggiore consapevolezza del gioco di squadra, anche quell’istinto che lo spingeva a trasformare la partita in un uno contro undici partendo palla al piede da zone profonde del campo. Le partite dell’Arsenal di quegli anni sono piene di corse di palla al piede di Henry, in cui prende palla a centrocampo e salta tutti quelli che ha davanti (uno dei suoi gol più belli lo realizzerà saltando mezzo Real Madrid al Bernabeu, nel 2006), davvero come un giocatore di basket che parte in penetrazione e va a canestro.

La regia televisiva non fa neanche in tempo a terminare i replay del gol di Pirès che Gilberto Silva ha già messo a terra una palla spazzata dalla difesa del Liverpool. Per qualche ragione Henry è ancora vicino al centrocampo e Gilberto Silva gliela passa come un corriere il cui lavoro termina una volta portato il pacco al legittimo proprietario. Henry ha davanti a sé Hamann, che salta con un’accelerazione bruciante verso sinistra – per fare un gol del genere, dirà anni dopo, devi portare palla in un certo modo, con un certo «tempismo», e «devi toccare il pallone in modo che non te l’allunghi troppo ma te l’allunghi abbastanza per lasciarti alle spalle quell’avversario». Hamann è così più lento di lui che quando scivola tentando disperatamente di fermarlo sembra fermo, la scivolata va a vuoto di un paio di metri.

Così Henry si trova avanti Jamie Carragher, proprio mentre sta tornando in equilibrio per puntare verso il centro dell’area. Gli basta rallentare per una frazione di secondo e una finta in cui sposta il peso sulla gamba destra per far piantare a terra Carragher e superarlo cambiando passo di nuovo. Oltre che difficile da prendere a calci, Henry per Carragher era il giocatore migliore contro cui avesse giocato, «forse il migliore della storia della Premier League» (ci sono intere compilation di dribbling di Henry su Carragher, poverino). Dopo essere stato saltato in quel modo Carragher ruota su se stesso come una porta girevole, finendo per sbattere sul compagno di difesa Biscan, mentre Henry ha il tempo di alzare la testa davanti a Dudek e incrociare il tiro di piatto destro.

A quel punto Henry dice che Highbury è tornato a respirare, era la prima volta che aveva una sensazione del genere, «e non l’ho più provata in carriera». Mezz’ora dopo (e dopo aver fallito da pochi passi un’occasione di testa) Henry completa la tripletta con un controllo di esterno sublime quanto il lancio di Bergkamp che lo pesca sul dischetto e ribattendo poi di pancia, con un po’ di fortuna, la parata di Dudek che gli aveva chiuso lo specchio sul tiro. Il gol del 3-2 lo aveva festeggiato baciando la maglia, quello del 4-2 togliendosela e restando in canotta davanti ai tifosi in delirio.

D’accordo, nessuno ha avuto bisogno di quella tripletta con il Liverpool per scoprire il talento di Thierry Henry. Era già arrivato secondo al Pallone d’Oro e aveva due stagioni da più di trenta gol alle spalle. Aveva vinto un Mondiale e un Europeo e una Premier League. Ma nelle passate stagioni era anche stato criticato, qualcuno pensava fosse un tipo poco determinato, sempre svogliato. E invece quel giorno, quando Henry ha rimesso la stagione dell’Arsenal sui binari giusti praticamente da solo, anticipando la vittoria della Premier League che arriverà ufficialmente due settimane dopo con il pareggio di White Heart Lane con il Tottenham e contribuendo non poco alla certezza interiore di quella squadra che non perderà in campionato fino all’ottobre successivo, e che ricorderemo come gli "Invincibili", ho capito pienamente che tipo di giocatore fosse, da quale forza interiore fosse spinto.

Henry è uno di quei perfezionisti cresciuti con un padre ipercritico, che quando segnava quattro gol gli chiedeva perché non ne aveva segnati cinque, e quando ne aveva segnati cinque perché non sei. E sicuramente è una delle ragioni per cui a fine carriera di gol ne ha segnati più di quattrocento, vincendo due Scarpe d’Oro consecutive. Ma Henry era mosso dal desiderio di vedere i propri limiti - «volevo spingere me stesso al massimo» - quanto da quello di divertirsi grazie al proprio straordinario talento: è l’unione di questi due aspetti che lo ha reso un giocatore unico e forse irripetibile.

Sono passati sedici anni da quella stagione e oggi guardo a Thierry Henry come a un giocatore coetaneo di Ronaldinho (più giovane di lui di qualche anno) ma che per certi aspetti viveva già nell’epoca calcistica di Cristiano Ronaldo e Messi. Proprio per quella voglia feroce di vincere che aveva, che gli faceva dire che le squadre avversarie lui voleva "ucciderle", unita al background da campetto di banlieue che non ha mai dimenticato. Se il primo aspetto – che forse serviva anche a smentire chi lo riteneva un giocatore superficiale, bello da vedere, proprio come i critici definivano l’Arsenal di Wenger quando non vinceva – era leggermente in anticipo sul calcio ad altissima efficienza che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni; il secondo invece è un aspetto che quasi nessun altro calciatore di altissimo livello conserva oggi.

Eccetto Ibrahimovic – per cui il divertimento sta quasi esclusivamente nell’umiliazione che i suoi avversari vivono confrontati alla sua superiorità, nel fatto che sono tutti troppo normali rispetto a lui – e Neymar – che però è odiato proprio perché non mette il suo istinto malizioso al servizio di un’ideale superiore di squadra – nessuno gioca con quel mezzo sorriso che Henry aveva mentre dribblava i suoi avversari. Nessuno prova il piacere fisico, tattile, che provava lui quando palleggiava con l’uomo addosso, quando si allungava palla dietro un avversario e lo superava come se fosse fatto d’aria, quando faceva qualcosa che nessun altro neanche provava a fare, quando trovava il modo di segnare stupendo pubblico, compagni e avversari.

La felicità di Cristiano Ronaldo sembra più una forma di sollievo, l’ennesima conferma della sua grandezza, del suo destino speciale. Quella di Messi sembra una sorta di stupore di sé stesso, di quel talento senza limiti che contrasta con la sua personalità semplice, che sembra quasi pesargli quando non si manifesta in momenti di splendore accecante. Persino Mbappé, che forse è il giocatore con le qualità più simili a quelle di Henry, ha una fretta, un’urgenza che lui non aveva. Mbappé vuole portare a termine una missione nel modo più veloce possibile, è violento, brutale, quando vola in porta. Thierry Henry invece si godeva ogni momento del percorso, che non era quasi mai in linea retta. Rallentava, aspettava che il marcatore gli venisse vicino prima di cambiare passo e direzione, se ne aveva il tempo sceglieva con cura il piede per concludere, l’angolo dove mettere la palla, una volta segnato rallentava la corsa fino a camminare, non perché non fosse felice, o troppo arrogante o pieno di sé (cosa che sicuramente era, in dosi tutto sommato accettabili), ma soprattutto perché anche quel momento era un piacere che il calcio gli offriva e che lui voleva assaporare.

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