La rivalità tra Oakland e San Francisco affonda le proprie radici nella storia, eppure oggi preferisce muoversi attraverso vie misteriose. Fondate a tre anni di distanza a metà del XIX secolo e separate dalle acque fuligginose della baia, le due città hanno vissuto trasformazioni radicalmente diverse, spesso in antitesi l’una con l’altra. In estrema sintesi: a Oakland è quasi sempre toccato il ruolo di secondo in comando, generando una diffusa percezione di subalternità.
Lo sport, come spesso accade, è stato specchio di questa rivalità. Il conto dei titoli in bacheca, almeno quello, vede una sostanziale parità sia per quanto riguarda football (tre Super Bowl per i Raiders, di cui uno vinto mentre erano di stanza a Los Angeles, cinque per i 49ers) e baseball (nove world series per gli Athletics, otto per i Giants). Nel bel mezzo di questo interminabile duello trovano posto i Golden State Warriors, squadra che in teoria dovrebbe rappresentare tutta la Bay Area, ma che di fatto negli ultimi quarantasette anni ha avuto casa a Oakland.
Otto miglia e una luna
Il rapporto conflittuale, eterno rincorrersi tra senso d’inferiorità e desiderio di assoggettare l’altro ai propri bisogni, è proseguito anche durante la fase d’impetuosa gentrificazione che ha travolto San Francisco per poi estendersi a tutta l’area circostante. La disputa tra le due fazioni, tuttavia, si è fatta più opaca, meno lineare. Il boom del mercato immobiliare ha accorciato le distanze, aprendo altresì la via a una serie di piccoli e grandi sgarbi, ripicche e rappresaglie.
Un buon esempio, anche qui con gli Warriors di mezzo, è rappresentato dal The Athletic Club di Oakland. Aperto nel maggio dello scorso anno - il giorno di gara-1 delle finali di conference contro gli Houston Rockets -, è di fatto la versione rivista e ampliata dello storico The Athletic che si trova nel cuore di Japan Town a San Francisco. In linea di massima, quindi, il nuovo locale rappresenterebbe un tentacolo dei non troppo amati cugini che si estende lungo il Golden Gate, soprattutto perché gli stessi locali erano in precedenza occupati dal Izzy’s Steak and Chop House, ristorante fondato e gestito per cinquant’anni da una famiglia di Oakland. Il particolare curioso, però, è che la stessa Izzy’s, prima di abbandonare la collocazione nei pressi del lago Merrit (non lontano da dove Steph Curry ha abitato nei suoi primi anni a Oakland), ha aperto due nuove sedi, una a San Francisco e una a San Carlos, entrambe sull’altra sponda della baia.
Ad ogni modo questo conflitto, ipotetico o reale che sia, non sembra aver intaccato la passione nei confronti degli Warriors. Il locale, prototipo moderno di sports bar con quaranta schermi su cui scorrono le immagini dai campi di NFL, NBA, MLB e NHL (ma anche della Champions League), è pieno già mezz’ora prima della palla a due di gara-4 della serie con gli L.A. Clippers. L’ampio bancone - costruito con il legno che viene direttamente dalla palestra del liceo di Palo Alto - domina la sala al piano terra che, tra tavolini e divanetti, può ospitare un centinaio abbondante di avventori. Trovo posto su uno sgabello all’estremità del bancone, accanto alla vetrina che s’affaccia su Grand Avenue. Fuori sfila una folla eterogenea, uomini e donne in uscita dalla Cattedrale della Luce di Cristo, punto d’incontro per i fedeli di dottrina cattolica situato a due isolati di distanza.
«Immagino che ognuno abbia la propria fede, giusto?». Il tizio accanto a me veste un completo con canotta e pantaloncini di Kevin Durant e, nonostante sia solo mezzogiorno, appare già a buon punto con l’opera di idratazione a base di luppolo: «È pur sempre Pasqua!». Mentre sugli schermi Boston sta chiudendo senza grandi problemi la serie con Indiana, scambiamo quattro chiacchiere: Rob è un tifoso degli Warriors, ma ancor più dei Raiders, e l’imminente dipartita di entrambe le squadre (i Raiders si trasferiranno a Las Vegas dal 2020) non lo lascia certo indifferente. Nelle sue parole, tuttavia, più che rabbia c’è un senso di rassegnazione, perché «è così che funziona da queste parti, è un continuo emigrare verso prati più verdi» (il riferimento è al colore dei dollari, Rob si sente in dovere di specificare). Veniamo raggiunti da due amici di Rob: Danny mi saluta a malapena per poi imbarcarsi subito nel tentativo, tutt’altro che semplice, di ordinare un altro giro di birre; Rafa invece è impaziente di conversare.
All’inizio fatica a capire come io sia capitato («dall’Italia!») proprio in quel locale per guardare la partita, ma appena Rob gli riferisce della mia passione per l’NBA e in particolare del mio interesse per il prossimo trasloco di Golden State, si sente in dovere di dispensare una profezia: «Solo i giapponesi si fileranno squadre come i Lakers, nel giro di tre, al massimo cinque anni: gli Warriors domineranno la California e l’intera lega, te lo garantisco al cento per cento!». Rafa, che è un appassionato di heavy metal, indossa una maglietta degli Slipknot e ha comprato il biglietto per il concerto con cui i Metallica inaugureranno il Chase Center («Per la seconda sera, quella dedicata agli iscritti al fan club», ci tiene a precisare), non ha dubbi che il trasferimento a San Francisco finirà per consolidare il dominio della franchigia sul resto della NBA (per dovere di cronaca va riportato che l’autore della profezia era convinto che Italia e Francia fossero un’unica nazione). Nessuno di loro frequenta con assiduità la Oracle, ammettono, perché i biglietti costano troppo e perché qui al The Athletic la birra è molto più buona di quella che servono ai bar del palazzetto («Abbiamo provato tutte e trentadue le marche di birra disponibili», dichiara Rob con orgoglio, e non si fa fatica a credergli).
La partita non offre grandi spunti: gli Warriors controllano il punteggio sul campo avversario, Klay Thompson mette tutti i tiri che Danilo Gallinari sbaglia, provocando le inevitabili prese in giro a suon di «mama mia!» ad ogni palla che si infrange sul ferro. Tra una birra e l’altra Rafa, a cui il tasso alcolemico corrobora la già notevole loquacità, abbozza un giro turistico delle attrazioni di Oakland che «non puoi assolutamente perderti». Il tour comprende Benny Adem, barbiere dove Curry e diversi compagni di squadra vanno a farsi tagliare i capelli; uno spuntino alla Home of Chicken and Waffle («il miglior pollo fritto di tutta la baia, garantisce Draymond») e infine il murales dedicato a Curry su 4th street firmato da The Illuminaries, gruppo locale di street art piuttosto affermato.
Stephen Curry su parete, by The Illuminaries.
Volendo ci sarebbe spazio anche per una passeggiata sull’Embarcadero, che è «molto più piccolo di quello di San Francisco, ma molto più elegante» (una delle due affermazioni si rivelerà veritiera). Saluto i miei nuovi amici poco prima del fischio finale, confessando che spero di poter assistere a una partita alla Oracle la domenica successiva, se gli incastri del complicato calendario dei playoff NBA me lo permetteranno. «È la tua ultima occasione di vederli a Oakland, fai bene ad andarci!», Rafa mi sprona con un’energica pacca sulla spalla. Obietto che in fondo, a differenza dei Raiders, gli Warriors si trasferiscono poco lontano, al di là della baia. Danny, che fin lì se ne è stato quieto per tutta la partita, alza a malapena lo sguardo dalla sua pinta: «Sono solo otto miglia, ma per noi è come se andassero a giocare sulla luna».
Wilt, Elvis e Rick Barry
Il paradosso che lega gli Warriors, conclamata avanguardia dello sport professionistico americano, all’impianto di gioco più vecchio di tutta la NBA ha in realtà origini ancor più lontane e profonde rispetto ai quarantasette 47 anni trascorsi dalla prima partita giocata in quella che ora è chiamata Oracle Arena. Trasferitisi sulla baia da Philadelphia nel 1962 a seguito del cambio di proprietà, gli allora San Francisco Warriors trascorrono infatti gli anni ‘60 in transito da un’arena all’altra, alla ricerca di pubblico e attenzioni (giova ricordare che la NBA di quel periodo è anni luce distante dall’attuale florida industria sportiva).
A Franklin Mieuli, il nuovo proprietario, la definizione di milionario stravagante va decisamente stretta: appassionato di pesca e musica classica, Mieuli è solito perdersi tra i pescherecci di Santa Cruz dove va a caccia di tonni con i pescatori italiani perché gli ricordano le sue origini e, più di una volta, organizza concerti per viola e violoncello a bordo campo durante l’intervallo delle partite. In teoria gli Warriors avrebbero a disposizione due campi dove disputare le gare interne: il Cow Palace e il San Francisco Auditorium. Purtroppo il botteghino non è generoso con la squadra e, nonostante la presenza di una superstar come Wilt Chamberlain, si viaggia tra Bakersfield, Fresno, San José, Sacramento e Richmond nel tentativo di coinvolgere tutta l’area del nord della California. Il primo marzo del 1963, però, succede qualcosa di inaspettato. Gli Warriors giocano la loro prima partita a Oakland, la cornice è quella dell’Oakland Auditorium, autentico tempio della musica consacrato da performance leggendarie di Miles Davis, James Brown ed Elvis Preseley. Il risultato sorride ai padroni di casa che sconfiggono i Cincinnati Royals per 132 a 125 e Mieuli s’innamora della città. Quando tre anni più tardi viene inaugurata la Coliseum Arena, prima incarnazione dell’attuale Oracle, gli Warriors diventano una presenza costante.
Nel 1971, infine, Mieuli sigla un accordo quinquennale con la città di Oakland che mette fine al girovagare: la Coliseum Arena sarà il covo degli Warriors per le successive quarantasette stagioni. C’è un problema, però, e non di poco conto: la scritta sulla maglia. Quel San Francisco davanti al nome della squadra non piace affatto dall’altra parte della baia; allo stesso tempo però Mieuli non vorrebbe rinunciare alla possibilità di attrarre pubblico da un bacino più ampio rispetto a quello di Oakland, non esattamente una metropoli. Si opta per Golden State, soluzione che lascia aperte le porte della possibile identificazione a molte altre realtà dell’area; in città non la prendono benissimo, ma quel nome passerà comunque indenne attraverso mezzo secolo di cambiamenti e vicissitudini.
Le occasioni per esultare, prima dell’avvento di Gruber e Lacob, non sono moltissime, anche se poco dopo il trasferimento definitivo a Oakland arriva il Larry O’Brien Trophy vinto dalla squadra assemblata da Al Attles, primo allenatore afro-americano nella storia della lega (prima di lui Bill Russell e Lenny Wilkens avevano ricoperto il doppio ruolo di allenatore-giocatore) e guidata in campo da Rick Barry, prototipo del giocatore fuori dagli schemi per lo stile adottato in campo e nella vita privata.
Rick Barry, uomo simbolo degli Warriors campioni NBA 1975, ritratto di fronte al Palace of Fine Arts di San Francisco.
Quegli Warriors, al loro primo titolo dopo il trasferimento sulla west coast, imprimeranno nel DNA della franchigia il marchio dell’anticonformismo, caratteristica costitutiva che porterà Golden State a compiere scelte non sempre rivelatesi vincenti come quella di scambiare Kevin McHale e Robert Parish, futuri pilastri della seconda dinastia Celtics, pur di potersi portare in casa Joe Barry Carroll, talento cristallino ma spirito competitivo altalenante (da cui deriva uno dei soprannomi più crudeli e allo stesso tempo azzeccati d’ogni tempo: Joe Barely Cares).
Nonostante i risultati sul campo siano alquanto miseri, la tifoseria locale s’innamora delle successive incarnazioni degli Warriors. Che si tratti della versione ‘rehab’ in cui John Lucas e Michael Ray Richardson, reduci da pesanti problemi con la cocaina, vengono accolti e idolatrati, o di quella denominata ‘Run TMC’, illusoria in termini di vittorie concrete ma bellissima per lo spettacolo messo in campo dal trio Hardaway-Richmond-Mullin sotto la guida di Don Nelson, gli spalti sono sempre gremiti e rumorosi. L’apice, da questo punto di vista, è rappresentato dalla stagione 2006-07 in cui una squadra assemblata in modo alquanto bizzarro dal redivivo Don Nelson (recentemente tornato sulla baia dopo undici anni «a fumare marijuana») sconfigge al primo turno i favoritissimi Dallas Mavericks testa di serie numero 1 della Western Conference. Quegli Warriors, passati alla storia con lo slogan “We Believe” che li accompagnava durante le gare interne contro Nowitzki e compagni, diventano il punto più alto di congiunzione tra squadra, tifo e identità della città intera. Ancora oggi allo store piazzato nel cuore della Oracle Arena le vendite delle magliette che ne celebrano l’impresa risultano le più vendute, dopo quelle di Curry e Durant.
La ricostruzione, a dieci anni di distanza, di una delle imprese più strabilianti nella storia della NBA.
Nel quarto di secolo che va dal 1977 al 2010, ovverosia inizio dell’era Gruber-Lacob, i playoff vengono raggiunti solo sei volte, totalizzando quattro vittorie nella post-season. Anche negli anni più recenti seguiti all’epopea “We Believe”, in cui non si va mai oltre il nono posto nella conference, la Oracle è sempre affollata e incita i suoi beniamini senza sosta. Nonostante la pochezza dei risultati, o paradossalmente forse proprio grazie a quella, città e squadra coltivano un rapporto quasi osmotico: il cordone ombelicale che lega gli Warriors a Oakland, però, nulla può contro le spietate leggi del mercato.
Obiettivo 1%
È impossibile ricostruire se al momento dell’acquisto della franchigia nell’estate del 2010 Peter Gruber e Joe Lacob avessero già in mente di cambiare casa agli Warriors. Quello che è certo è che tra le intenzioni dichiarate della nuova proprietà, al primo posto, c’è da subito quella di sfruttare al massimo il potenziale commerciale inespresso della franchigia.
Quando due anni dopo viene annunciato l’acquisto dell’area di dodici acri sul fronte mare di Mission Bay, in precedenza proprietà di Salesforce, il passo compiuto dalla franchigia appare allo stesso tempo logico e azzardato. Logico, perché dopo aver approntato tutte le migliorie possibili non c’è più margine per trasformare la Oracle in una casa adatta alla nuova eccellenza NBA; azzardato, perché attraversare la baia rischia di snaturare l’identità della franchigia. Logico, perché la squadra che sotto tutti i punti di vista, tattico e mediatico in primis, ambisce a divenire l’avanguardia della lega non può più permettersi di disputare le gare interne tra le mura della più vecchia delle ventinove arene NBA; azzardato, perché si tratta del primo caso di costruzione di un nuovo impianto sportivo interamente finanziato da privati. JP Morgan Chase & Co, che in cambio di un esborso di 300 milioni di dollari ottiene di piazzare il proprio nome accanto a quello dell’arena, tira le fila di una compagine di finanziatori che vede United Airlines, Pepsi e Google Cloud, al primo contratto di sponsorizzazione in ambito sportivo, tra i nomi più prestigiosi.
Rick Welts, direttore operativo degli Warriors e a capo del progetto per la nuova arena, stima le entrate complessive in circa due miliardi di dollari a fronte di una previsione di spesa di un miliardo. Come nelle migliori tradizioni, alla fine si sforerà di circa 400 milioni sul previsionale, ritocco del budget che comunque non andrà a incidere sull’equilibrio economico di un’operazione che trascende il basket e lo sport in generale. Il complesso in costruzione, oltre al Chase Center, include due stabili da adibire ad uffici (Uber vi sposterà la propria sede centrale dal 2020) e una trentina di altri spazi commerciali di varie dimensioni in cui verranno aperti ristoranti e negozi, mentre la costruzione di un parco divertimenti rimane in via di definizione. Al centro del progetto, ad ogni modo, c’è l’idea di dare a San Francisco un’arena che possa ospitare eventi sportivi e d’intrattenimento con la capienza adeguata. Tra le venticinque città più popolose del paese, infatti, Frisco è l’unica a non disporre di uno spazio coperto da almeno 12.000 spettatori. Il Chase Center, con i suoi 18.064 posti a sedere, colmerà un vuoto divenuto insostenibile per quella che a tutti gli effetti è diventata la città-traino dell’economia americana nell’ultimo decennio. Per quanto ovvio, il contesto storico e geografico impongono che la nuova arena sia molto semplicemente il meglio del meglio.
Piazzato tra Oracle Park, casa dei Giants, e il campus dell’università cittadina, il Chase Center godrà di una struttura adattabile a qualsiasi esigenza per i più diversi tipi di evento, compresa la possibilità di ridurre la capienza tra i 2.500 e i 5.000 posti totali in meno di 24 ore. Diretta emanazione della Silicon Valley, il nuovo palazzetto sarà caratterizzato da installazioni high-tech diffuse ovunque. In questo senso l’apoteosi dell’approccio ultramoderno, e fortemente indirizzato verso la fascia di mercato nota come 1%, ovvero i multimilionari alto-spendenti, saranno le trentadue luxury suites. Attrezzate con schermi che propongono le immagini del campo viste attraverso una telecamera piazzata esattamente al posto occupato dello spettatore, in modo da non perdere nemmeno un secondo delle azioni di Curry e compagni, le suites disporranno di sala da pranzo con tanto di cantina privata e maggiordomo dedicato. Trenta delle trentadue suites risultano già prenotate per la prossima stagione, in gran parte da aziende che pur di concedere ai propri manager, clienti e fornitori un anno di sport e intrattenimento hanno sborsato tra il milione e i due milioni e 250mila dollari ciascuna.
Lo stato dei lavori a cento giorni dall’inaugurazione.
In aggiunta alle gare interne degli Warriors, il Chase Center ospiterà circa 140 eventi all’anno, requisito minimo per rendere profittevole l’investimento effettuato. Ad inaugurare il palazzetto il prossimo settembre saranno i Metallica insieme all’orchestra sinfonica di San Francisco, seguiti da un fitto cartellone che va Janet Jackson al comico Trevor Noah fino ad Andrea Bocelli. La WWE ha annunciato che terrà uno dei suoi eventi principali del 2020 proprio al Chase Center e attività collaterali come convention politiche e meeting aziendali saranno presto aggiunti al calendario - ammesso di trovare posto, perché tra NBA e concerti gli spazi paiono tutti occupati fino alla tarda primavera del prossimo anno.
La prima partita giocata sul nuovo parquet, ancora tutto da scoprire, vedrà invece scendere in campo una faccia alquanto familiare da quelle parti. Il 5 ottobre, infatti, arriverà LeBron James, avversario di mille battaglie, insieme ai suoi Los Angeles Lakers, per una delle partite pre-stagionali tra le più attese di sempre.
Un piano trentennale
Il curriculum di Rick Welts è di quelli che giustificano un certo grado di tracotanza. Nativo di Seattle, entra a far parte dell’organizzazione dei Sonics a fine anni ‘60 fino a diventare il responsabile delle pubbliche relazioni per la squadra che vincerà il titolo nel 1979. Fido collaboratore di David Stern da inizio anni ‘80 per quindici anni, Welts contribuisce a rendere la NBA il colosso commerciale che conosciamo (tra le altre cose gli viene riconosciuta la paternità dell’idea di All-Star Weekend, concepita nel 1984).
Mentre lavora per la lega, trova anche il tempo di ideare la campagna pubblicitaria del Dream Team di Barcellona ’92, squadra che ha goduto di un discreto successo mediatico. Quando gli Warriors lo assumono nell’autunno del 2011 è reduce da una lunga esperienza tra i più alti quadri dirigenziali dei Phoenix Suns. La carica ufficiale assegnatagli è quella di direttore operativo, ma il suo compito è da subito quello di riorganizzare la struttura marketing della franchigia, considerata dalla precedente gestione alla stregua di un optional di scarsa utilità. La sua investitura a capo del progetto che porterà alla nuova arena della squadra avviene quindi in maniera del tutto naturale e Welts non fa nulla per nascondere quanto la costruzione del Chase Center rappresenti uno snodo cruciale per il futuro degli Warriors. «Ciò che sarà possibile con il Chase Center, e che non sarebbe mai stato possibile alla Oracle, pone le condizioni affinché gli Warriors possano competere per il titolo per i prossimi trenta, quarant’anni».
Il profilo basso, si era già intuito, non si adatta bene alla novelle vague che Gruber e Lacob intendono portare sulla baia, e la ridondanza con cui Welts magnifica le progressive sorti della franchigia si allinea perfettamente all’atmosfera di generale grandeur. «Ci stiamo trasformando da squadra di basket che deve affittare la propria arena a organizzazione sportiva e d’intrattenimento che cura ogni aspetto della propria attività», sostiene Welts, anticipando come la nuova struttura creerà anche nuovi posti di lavoro facenti capo direttamente alla franchigia (si ipotizzano cento posti full-time e un migliaio di part-time, ma le cifre effettive non sono ancora state precisate).
Al di là delle sortite più o meno credibili, per Golden State, oltre all’evidente vantaggio logistico (il Chase Center ospiterà sia il campo d’allenamento che gli uffici della dirigenza tecnica, oggi situati a downtown Oakland, distanti dalla Oracle), la nuova arena pone le fondamenta per una prospettiva di crescita del valore complessivo della franchigia. Acquistati da Gruber e soci per 450 milioni di dollari nel 2010, gli Warriors si sono piazzati al terzo posto nell’ultima classifica annuale stilata da Forbes dietro a New York Knicks e Los Angeles Lakers.
Il gap che li separa da due realtà che non attraversano momenti particolarmente felici, esempi poco riusciti di gestione tecnica e manageriale, potrebbe venire azzerato nel corso dei prossimi anni, soprattutto se a Manhattan non saranno in grado di invertire la rotta durante l’agognato mercato estivo e se l’avventura californiana di James continuerà sulla scia della prima, deludente stagione. Quella relativa al valore della franchigia, però, non è l’unica cifra destinata a lievitare nell’immediato futuro.
Affari di famiglia
È una domenica di sole e cielo limpido a Oakland, mancano ancora due ore abbondanti al fischio d’inizio di gara-1 delle semifinali di conference contro gli Houston Rockets, primo capitolo di una sfida che si rivelerà epocale, e gli spalti della Oracle sono quasi deserti. Un nutrito gruppo di appassionati taiwanesi, maglie di Durant e Curry d’ordinanza ma anche di Jeremy Lin, figlio di immigrati arrivati negli Stati Uniti proprio da Taiwan e cresciuto nella Bay Area, è schierato compatto accanto al tunnel che porta negli spogliatoi. L’attesa è tutta per il riscaldamento di Steph Curry, divenuto da tempo rituale irrinunciabile per gli ammiratori del due volte MVP. Quando la guardia degli Warriors mette piede sul parquet la reazione è quasi isterica, a metà strada tra la folla di adolescenti che accoglie la popstar di turno all’ingresso sul palco e la trascendenza mistica. Jay Meyer osserva la scena dalla tribuna dietro al canestro verso cui Curry ha iniziato a indirizzare i suoi surreali tiri scoccati da ogni angolatura e scuote la testa. «Voglio dire, adoro Steph, chi non lo ama alla follia qui? Ma questa è roba da ragazzine del liceo».
Jay ha quasi 50 anni e insieme al padre porta avanti una ditta di ricambi idraulici a San Leandro, congregato suburbano a sud di Oakland. Oltre a riparare e sostituire tubi e rubinetti, Jay e il padre coltivano insieme la passione per la pallacanestro. «Sono stato molto fortunato», dice Jay, «la prima stagione in cui io e mio padre abbiamo cominciato a venire alle partite con assiduità è stata quella 1974-75». Assistere alle imprese di quegli Warriors che vincevano il loro primo titolo era un affare abbordabile: «Il biglietto della tribuna dove siamo, proprio qui, costava due dollari e io, in quanto minorenne, entravo a metà prezzo». Il racconto di Jay prosegue in un misto di nostalgia e fervore, abbozzando i contorni di un’epoca lontana in cui «quando si giocava di giovedì, al palazzetto veniva anche mia madre perché le donne entravano gratis». La sua esperienza di tifoso prosegue ininterrotta negli anni successivi, tra risultati non proprio esaltanti e momenti comunque indimenticabili. Per le due gare interne della serie poi persa contro i Lakers di Magic nel 1991, Jay ricorda d’aver speso poco più di cento dollari per un posto proprio dietro alla panchina dei suoi eroi. «Ero seduto là», dice indicando lo spazio ora occupato dai taiwanesi in visibilio, «proprio dietro a Don Nelson. È stata la volta in cui ho persino imparato a pronunciare correttamente il nome di Marciulionis» (a dire il vero dalla bocca di Jay esce una cosa a metà tra Barcelona e maccheroni).
Pur con riluttanza, provo a riportarlo al 2019 e gli chiedo se ha rinnovato l’abbonamento in vista del trasloco a San Francisco: «Certo che l’ho rinnovato, anche se mi è costato un sacrificio di quelli importanti». A pesare non è tanto l’aumento del prezzo dell’abbonamento in sé, circa un 10% rispetto a quello della stagione in corso, quanto la "quota d’iscrizione", una tantum richiesto dagli Warriors per ottenere la prelazione sui posti scelti e valida per i successivi trent’anni. Jay non mi svela quanto ha dovuto sborsare per la quota d’iscrizione, limitandosi ad assicurarmi che si tratta di «una di quelle cifre che non vuoi far sapere a tua moglie d’avere speso per una squadra di basket» (la franchigia non ha divulgato il costo associato ai vari settori per la quota d’iscrizione, ma voci attendibili parlano di una media intorno ai 15.000 dollari). «Ad ogni modo», chiarisce Jay, «si tratta di un investimento fatto anche per i miei figli» (lo stato della California prevede che l’abbonamento alla squadra del cuore possa rientrare nell’asse ereditario). E, a ben vedere, quello di Jay è un ragionamento tutt’altro che campato in aria: stando alle cifre fornite dagli Warriors, nonostante l’azzeramento delle facilitazioni sul prezzo per i già abbonati, 14.000 tifosi hanno già rinnovato il loro tagliando per la stagione successiva (all’incirca l’80% degli attuali abbonati alla Oracle), mentre la lista d’attesa di chi spera che si liberi un posto conta al momento 44.000 nomi (per quanto ovvio, occorre pagare 120 dollari anche solo per entrare in questa lista). Non bastasse, il vantaggio di possedere un abbonamento è reso ancora più evidente dal continuo, incessante aumento del prezzo dei singoli biglietti. Dall’avvento della nuova proprietà, il sito Team Marketing Report stima che il costo medio dei tagliandi per accedere alla Oracle sia aumentato del 134%, molto più del già stupefacente balzo della percentuale di vittorie della squadra.
Sugli schermi vengono pubblicizzati gli eventi che andranno in scena al Chase Center, accolti con freddezza dal pubblico e con qualche sporadico boo da parte delle frange più calorose del tifo (tra cui va molto di moda indossare una maglietta auto-prodotta con la scritta "La nostra passione non può essere catturata da un algoritmo" invece di quelle omaggio celebrative della partita appoggiate su ogni seggiolino della Oracle). Nonostante l’inevitabile processo di rinnovamento, meno working class e più silicon valley, quando si alza la palla due il pubblico di casa fa immediatamente capire come il soprannome di "Roaracle", l’arena più rumorosa di tutta l’NBA, rimanga sacrosanto. La partita è frenetica, tirata e bellissima, occorre tutto il talento di Durant e Curry per strapparla dalle mani di Harden e sugli spalti parte il coro "Warriors, Warriors" che da sempre accompagna le folate vincenti dei padroni di casa.
Sulla sirena finale Jay, che nel frattempo è stato raggiunto dal padre e dal gruppo storico di tifosi che occupa il settore, esulta a braccia levate, lanciando in aria il bicchiere di plastica semivuoto che conteneva l’ennesima birra di questo matinée domenicale. Quei soldi sono ben spesi, pensa, anche se tra poco occorrerà attraversare il Bay Bridge per andare a vedere i propri idoli. E come Jay lo pensa anche il resto del pubblico, soprattutto quello che vive da questa parte della baia (secondo le indicazioni fornite da Welts, metà degli abbonati vive fuori da San Francisco). Per gli altri, per chi non si può permettere il costo del biglietto, tantomeno quello dell’abbonamento, il trasloco di una squadra di basket rappresenta davvero l’ultimo dei problemi.
Bay Area Blues
Il pubblico del Sundance Film Festival non è certo tra i più compiacenti, eppure al termine della proiezione in anteprima assoluta di ‘The Last Black Man In San Francisco’, tra gli spettatori in sala gli occhi lucidi non si contano. L’esordio dietro la macchina da presa di Joe Talbot verrà poi gratificato con due premi, uno alla regia e uno alla collaborazione creativa, entrambi assegnati al termine dell’ultima edizione dello storico appuntamento ideato da Robert Redford. Al centro della storia ci sono le esperienze personali dell’attore protagonista Jimmie Fails, che interpreta sé stesso, e del regista, in un incrocio a volte un po’ retorico di denuncia sociale e idealismo.
Il trailer del film in uscita a giugno nelle sale americane.
Il titolo, ovviamente, è un’iperbole, ma il fenomeno che Talbot ha voluto portare a galla è reale. La popolazione afro-americana di San Francisco si è dimezzata nel corso degli ultimi 30 anni, assestandosi ora attorno al 5.8% del totale, un trend che si è acuito nel corso degli ultimi due lustri e che non appare destinato a fermarsi. Meno brusco il calo relativo ai cittadini d’origine latina, anche se si stima che a Mission, quartiere-roccaforte storica degli immigrati provenienti da centro e Sud America e ora tra i più ambiti della città, la percentuale di latinos sia passata dal 60% di inizio anni 2000 all’attuale 48%. Se la tendenza dovesse continuare, San Francisco, che durante tutto il Novecento è stato autentico laboratorio di convivenza multirazziale, potrebbe trasformarsi nel giro di 15/20 in una città a larga maggioranza bianca sullo stile di Salt Lake City o Phoenix.
Nonostante il governo della municipalità sia tutt’altro che in stato di crisi dal punto di vista del bilancio (l’esercizio 2017 si è chiuso con un surplus di 10 milioni di dollari, caso più unico che raro in un paese dove i ripetuti tagli delle erogazioni da parte del governo federale hanno messo in ginocchio realtà come Detroit e Los Angeles), non si contano le iniziative di legge volte a facilitare l’acquisto di immobili e aree dismesse da parte di grossi gruppi industriali della Silicon Valley e fondi d’investimento speculativi. Inoltre, il comune di San Francisco, anche da questo punto di vista caso isolato in tutti gli Stati Uniti, dispone di un regolamento stringente in materia di aumento dei canoni d’affitto. Approvato nel 1979, sulla scia del fermento politico che aveva caratterizzato la città nei decenni precedenti, il regolamento non si applica però alle case singole, modalità abitativa molto diffusa in tutta la città, e tantomeno agli immobili costruiti dopo l’entrata in vigore del regolamento stesso. Non stupisce quindi che il numero di sfratti, dall’inizio degli anni 2000 ad oggi, abbia registrato un aumento vertiginoso.
Ridurre il fenomeno alla sola San Francisco, però, sarebbe fuorviante. Dall’altra parte della baia, infatti, Oakland e Berkeley, le altre due principali realtà urbane, registrano dati ancora più estremi. A Oakland la popolazione di colore è passata dal rappresentare il 43% nel 1990 all’attuale 26%, percentuale in costante calo e prevista intorno al 16% entro i prossimi dieci anni, mentre a Berkeley nel giro di vent’anni la percentuale di afroamericani si è dimezzata, assestandosi ampiamente sotto il 10% del totale dei residenti. Per Oakland, l’equivalente del film di Talbot è ‘The Last Days Of Oakland’ del musicista locale Fantastic Negrito, premiato come miglior album di blues contemporaneo ai Grammy Awards del 2017. In ‘Working Poor’, il bluesman della baia canta “sento che è finita, hanno ripulito la mia città e io ho venduto l’anima, sono dei geni del male, hanno trasformato i lavoratori in lavoratori poveri” e tutto il disco è un lungo soliloquio sulle trasformazioni a cui la città è andata incontro negli ultimi anni.
L’elegia blues di Fantastic Negrito per chi non può più permettersi di vivere nella città in cui è nato e cresciuto.
Il prezzo medio delle abitazioni ad Oakland è aumentato del 74% dal 2010, mentre l’affitto medio è passato da 1.720 dollari a 3.580. A fornire queste cifre, già di per sé più che eloquenti, è Tony Samara, ricercatore di Urban Habitat, associazione no-profit nata a fine anni '80 con l’intento di monitorare e combattere i fenomeni di ingiustizia ed esclusione sociale in tutta la Bay Area. Il flusso di abitanti che inizialmente era in uscita da San Francisco verso Oakland, spinto dalla ricerca di condizioni abitative più abbordabili, ormai da diversi anni ha ampliato l’orizzonte della propria destinazione. Prima in direzione di Antioch, Brentwood, Concord e le altre località dell’entroterra nella contea di Contra Costa, poi dall’altra parte dello stretto di Carquinez, a nord verso Vallejo. In questi sobborghi abita ormai il 50% della popolazione che non ha un lavoro stabile e vive sotto la soglia di povertà e il 63% di quella che, pur essendo regolarmente occupata, rimane molto vicina a quella soglia, ovvero gli working poor di cui canta Fantastic Negrito. Sono dati non troppo distanti da quelli rilevati nelle altre aree urbane del paese, afferma Samara, ma la velocità con cui procede la trasformazione demografica della Bay Area la pone sul piedistallo, ancora una volta all’avanguardia rispetto al resto degli Stati Uniti.
L’altra faccia della medaglia è che il traffico sui ponti che connettono San Francisco al resto della baia ha raddoppiato i transiti negli ultimi cinque anni, perché se in quella che è ormai la città simbolo della new economy americana e mondiale non c’è posto per questi lavoratori poco qualificati, nei suoi bar, ristoranti e nei molti cantieri aperti c’è ancora bisogno delle loro mani e delle loro braccia. I tempi di percorrenza da e per il luogo di lavoro si allungano in maniera esponenziale, anche perché la rete di trasporti pubblici spesso non raggiunge questi sobborghi o lo fa in maniera molto sporadica, rendendo la vita d’ogni giorno ancora più problematica e gravosa per chi si trova dal lato sbagliato della gentrificazione. Non bastasse, molti di questi sobborghi faticano a sopportare l’aumento esponenziale dei residenti, non disponendo delle risorse per adeguare le strutture a servizi necessari come rete fognaria e acqua potabile. In un futuro nemmeno troppo lontano, secondo le previsioni di Natural Habitat, la Bay Area corre il rischio di trasformarsi in una realtà urbana molto simile a Cape Town, dove la fascia più povera della popolazione è relegata ai margini della città, in centri abitati che assomigliano sempre più a baraccopoli prive dei requisiti minimi del vivere civile.
Riguardo al possibile impatto del trasferimento degli Warriors, invece, Samara si professa molto più indulgente. «È la solita, vecchia storia: dai la colpa al tizio nero con la palla in mano». In definitiva, chi si trova a operare in un mondo come quello dello sports business non può sottrarsi alle leggi dettate dal mercato, ed è ingiusto addossargli responsabilità che sono in capo alla politica e alle amministrazioni locali. Non esiste eccellenza, tantomeno in un contesto iper-competitivo come la NBA, senza i presupposti economici e i numeri non lasciano scampo: per continuare a crescere occorre cercare sempre nuove strade, e lo sport semplicemente si accoda a un processo in atto da tempo. Inoltre, nel quadro della selvaggia speculazione in atto, gli Warriors sembrano tra i pochi attori dotati di un minimo di coscienza sociale.
The Town
“Lasciamo un palazzo, non la comunità”, è stato uno degli slogan che ha accompagnato fin dall’inizio la campagna di sensibilizzazione “Celebrate 47”, inaugurata dagli Warriors nel tentativo di non rompere il legame con Oakland. All’infuori degli aspetti inerenti la comunicazione, dalla canotta celebrativa con tanto di scritta The Town e quercia, simbolo di Oakland, alla presentazione dello striscione “Oakland, California, 47 seasons” che farà bella mostra di sé nella nuova arena, l’impegno della franchigia a non abbandonare la città che l’ha ospitata per quasi mezzo secolo si è tradotto anche in azioni concrete. L’impianto situato nel cuore di downtown, che attualmente ospita il centro sportivo in cui si allena la squadra, verrà riconvertito in spazio pubblico e ospiterà una serie di realtà no profit locali, programmi educativi rivolti alla salute e al benessere dei giovani appartenenti alle classi più svantaggiate e i camp estivi degli Warriors. Il progetto Generation Thrive dovrebbe vedere la luce ad inizio 2020 e verrà interamente finanziato dalla fondazione collegata alla franchigia e da Kaiser Permanente, azienda con cui Golden State vanta un lungo rapporto di collaborazione.
Che si tratti di autentico interesse per la città o di un’operazione dettata da un misto di senso di colpa e necessità di mantenere quella patina di corporate responsibility che gli Warriors si sono cuciti addosso in questi anni è una questione che dipende in gran parte dall’angolazione con cui si osserva il comportamento delle parti in gioco. Di certo c’è che il trasloco verso San Francisco rappresenta un unicum per lo sport americano e per la Bay Area stessa. Se l’addio ai Raiders rientra in una cornice già conosciuta (la franchigia si era trasferita a Los Angeles nel 1982 per poi restarci fino a metà anni ‘90), lo strappo degli Warriors risulta molto più doloroso. Da una parte, infatti, la decisione di Mark Davis, proprietario dei Men In Black, è arrivata dopo anni di polemiche relative alle opere di rinnovamento che la municipalità di Oakland, proprietaria dell’impianto, avrebbe dovuto apportare all’ormai vetusto Coliseum.
Dal punto di vista dei cittadini, quindi, la rottura con la franchigia rappresenta innanzitutto il rifiuto di accodarsi al precetto “la collettività paga per lo stadio, la franchigia si prende tutti i guadagni” piuttosto in voga nel resto del paese. Quella con i Raiders, lasciati liberi di andare ad abbeverarsi al torrente di soldi che attraversa Las Vegas, è stata una separazione consapevole. Nonostante il paradosso che coinvolgeva la franchigia più all’avanguardia dell’intera NBA e l’arena più vecchia di tutta la lega, invece, la decisione degli Warriors di attraversare la baia è arrivata in assenza di un reale conflitto tra le istituzioni cittadine e la franchigia (anche se su Golden State pende la sentenza di un arbitrato che impone un pagamento di 20 milioni di dollari riveniente dagli impegni che la precedente proprietà aveva preso in relazione ai lavori di ammodernamento realizzati a metà anni ‘90).
Al di là della posizione non certo idilliaca (la Oracle è incastonata tra parcheggi, condivisi con il Colisuem, tangenziali e ancora parcheggi) e delle carenze strutturali dell’arena (in alcune zone del palazzetto il segnale della banda larga è talmente debole da rendere complicata anche solo la connessione dati, e agli autisti di Uber è fatto divieto di avvicinarsi alle entrate dedicate al pubblico), la mossa di abbandonare una piazza che aveva garantito il sold out per diverse stagioni consecutive non può che essere considerata un azzardo. I precedenti più affini sono forse quello dei Lakers, passati dal forum di Inglewood allo Staples Center in piena downtown L.A., e dei Nets, che hanno addirittura modificato il proprio nome nel transito dal New Jersey alla Brooklyn in piena rinascita. In entrambi i casi l’attenzione ai tifosi lasciati indietro, lo zoccolo duro gialloviola che popolava il quartiere a larga maggioranza afro-americana e gli eroici supporter pronti a sfidare le paludi del Jersey pur di sostenere la squadra, non ha rappresentato una priorità. E anche se i risultati, nel caso dei Lakers, hanno sorriso alla nuova location, è indubbio che qualcosa dell’identità delle franchigie sia andato smarrito. È un rischio che a Golden State nessuno sembra voler correre, a partire dagli uomini simbolo della squadra.
Oakland, this is for you
«Quando parliamo della magia della Oracle, ci riferiamo alle persone che si trovano sugli spalti e sapere già per certo che quattro su cinque di queste persone verranno con noi al Chase Center ci da fiducia». Nelle parole di Rick Welts si trova forse il fondo della questione che più preoccupa Golden State. Gli Warriors, secondo Tim Kawakami, ora firma prestigiosa per The Athletic e da anni tra i più acuti osservatori del panorama sportivo della Bay Area, hanno messo in piedi quella che potenzialmente potrebbe essere “la macchina da soldi più efficace che la storia dello sport americano abbia mai visto”. Ma il successo, anche quello più clamoroso, si sa, ha un prezzo. La previsione di Kawakami, formulata alla conclusione della stagione 2015-16 in cui nella sola post-season la franchigia faceva registrare ricavi netti per 30 milioni di dollari, appare destinata a trasformarsi in realtà considerati i continui trionfi sul campo e al botteghino dei tre anni successivi. In questo senso, il trasferimento a San Francisco rappresenta ormai quasi un passaggio obbligato, considerata a maggior ragione la sintonia pressoché perfetta tra il contesto economico e i successi sportivi. Sempre secondo Welts «non potrebbe esserci congiuntura economica migliore di questa e non potrebbe esistere una squadra di basket migliore degli Warriors». E i numeri, l’ormai celebre Strength in Numbers, gli danno ragione.
Esiste però un aspetto che esula dal pingue conto economico e della bacheca piena di trofei, ed è il rapporto tra la squadra e la sua gente. In prima fila, da questo punto di vista, coach Steve Kerr e Draymond Green, che hanno più volte sottolineato come la stagione in corso rappresenti un tributo a Oakland. Certo, è legittimo congetturare che tra gli Warriors la priorità, dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere, fosse più che altro quella di trovare una motivazione che funzionasse come pungolo per provare a primeggiare ancora. Resta il fatto che il legame tra squadra e città è tangibile, a partire dal presupposto che tutti i giocatori, ad eccezione di Durant, vivono da quella parte della baia (particolare che ha dato adito a inverosimili teorizzazioni sulle complicate conseguenze logistiche del trasloco, tra cui la più ardita comprende il varo di un traghetto di proprietà della franchigia che trasbordi i giocatori da una sponda all’altra).
Un ultimo, forse marginale indizio di quanto gli Warriors non intendano rinunciare alle loro radici è rappresentato dal nuovo spogliatoio che accoglierà la squadra al Chase Center. Come prevedibile, lo spazio in cui Curry e compagni si cambieranno e ascolteranno le ultime indicazioni tattiche sarà un concentrato di tecnologia e comfort: concepito in uno spazio circolare immediatamente sotto il campo da gioco, le postazioni permetteranno l’accessibilità totale per ogni giocatore a immagini delle partite, singole situazioni tattiche e statistiche aggiornate in tempo reale. A fianco di tutti questi comfort, però, gli Warriors si porteranno un cimelio risalente all’epoca pre-Gruber & Lacob. Il buco nel muro dello spogliatoio avversario alla Oracle, opera di un Dirk Nowitzki non proprio all’apice della felicità dopo l’eliminazione dei suoi Mavericks da parte di Baron Davis e compagni nel 2007, autografato dall’autore stesso e sistemato dietro a un plexiglas protettivo insieme alla maglietta celebrativa “We Believe”, verrà infatti trasportato a San Francisco. Il ricordo di una squadra molto meno vincente e fascinosa rispetto a quella attuale, ma comunque adorata dal pubblico, servirà da talismano per accompagnare la franchigia in questo nuovo viaggio.
Anche se, in fondo, la parabola di Golden State altro non è che quella della NBA e dello sport professionistico in generale, non solo quello americano (chiedere ai tifosi del Tottenham e ai residenti del relativo quartiere londinese per conferme). Solo che gli Warriors hanno deciso di scattare in avanti, senza timore di rompere gli schemi, come quando hanno scelto di portare all’estremo la vocazione allo Small Ball o quando, dopo aver battuto il record di vittorie dei Chicago Bulls di Michael Jordan, hanno accolto tra le loro fila un’altra superstar come Kevin Durant.
Nell’attesa di questo futuro avveniristico, in cui la metamorfosi della franchigia potrebbe travolgere anche la squadra, ai tifosi, soprattutto a quelli di vecchia data e meno agiati, in definitiva a quel 99% che non avrà mai accesso alle luxury suites del Chase Center, è consentito sperare in un ricordo indelebile con cui suggellare l’addio alla Oracle Arena. Il finale perfetto per una storia a suo modo straordinaria potrebbe essere quello di rivivere all’inverso il momento più doloroso del recente passato, con Steph Curry a urlare la dedica dell’ennesimo trionfo alla città: Oakland, this is for you!