Si può restare lì, incastonati nella storia per sempre, anche soltanto per un gesto. Nei ricordi che si susseguono, pare impossibile schiodarsi dalla fotografia di un uomo leggiadro che vola da un palo all’altro per dire a Pelé che il suo colpo di testa non sarebbe entrato nella leggenda per una rete gonfia ma per il miracolo di chi ha trascorso la propria vita a negare gioie agli altri. È la sorte dei portieri, che per sfogare le proprie urla devono soffocare in gola quelle altrui. E così, con il passare del tempo, il miglior estremo difensore della storia d’Inghilterra è finito per diventare quella fotografia.
Gordon Banks, nell’immaginario collettivo, si era ormai trasformato in una sorta di sineddoche umana: bastava nominarlo per rievocare “la” parata, e viceversa. È quasi beffardo che si ricordi per un singolo miracolo, per quanto spettacolare, un portiere che aveva una concezione essenziale del ruolo. «Un salvataggio spettacolare è l’ultima risorsa quando tutto il resto – posizione, intuito, difesa – ha fallito. Ma è grazie alle grandi parate che veniamo ricordati».
L'infanzia
Crescere a Tinsley, area industriale di Sheffield, negli anni ’40, non deve essere stato facile per lui. I Banks vivono sulla strada dove ha sede l’acciaieria Peach & Towser, e non serve trovarsi sotto vento per respirare a pieni polmoni gli odori tossici provenienti dalla fabbrica. «Vivevamo in uno stato di ignorante armonia, nessuno si preoccupava di quel pericolo perché nessuno ci aveva detto che lo fosse», racconta la leggenda inglese in Bansky, the Autobiography, da cui sono tratti molti dei virgolettati inseriti in questo pezzo.
Gordon è il più piccolo di quattro fratelli e si trova a crescere in un ambiente povero ma orgoglioso. Bisogna razionare tutto: la spesa calcolata al millimetro, i fiori freschi come una rarità da vivere con l’entusiasmo dell’evento, le partite del Wednesday e dello United, regalo per bambini affamati di calcio. Gordon, conscio della situazione, coltiva un hobby che nel 2019 può sembrare ridicolo: osserva i treni che passano a Tinsley – la stazione è a due passi dalla scuola – e segna i numeri di matricola. Usando il termine inglese, noto ai più per il capolavoro di Irvine Welsh, trainspotting: «Potevano venire da lontano, come Newcastle o Londra, ma anche soltanto da Wakefield o Bradford. Anche solo guardare quei treni mi permetteva di provare la sensazione del viaggio, posti che non avevo mai sentito o i cui nomi avevo letto solamente in una mappa. Era come se questi posti lontanissimi venissero a farmi visita».
In una situazione di grandi ristrettezze, anche un semplice bagno ha il sapore di una celebrazione: «La sera del venerdì era la nostra bath night. Mettevamo una tinozza su dei giornali e mio padre la riempiva di acqua calda. Per primo entrava lui, poi Jack, quindi David, Michael e infine toccava a me. Ero il quinto a usare la stessa acqua, era un miracolo uscire meno sporco di quanto fossi prima di entrare». Senza le sovrastrutture della ricchezza e della modernità, il quarto della famiglia Banks cresce comunque felice, sentendo sulla pelle il calore dell’affetto familiare. Il padre, però, stufo dei magri guadagni in acciaieria e già avvezzo al mondo delle scommesse clandestine sui cavalli, decide di fare il salto e raccogliere in prima persona le scommesse. Una pratica illegale, visto che all’epoca si poteva giocare esclusivamente a ridosso degli ippodromi.
I Banks si spostano da Tinsley a Catcliffe per la nuova impresa del capo famiglia, trovando in loco l’approvazione silenziosa di chi avrebbe dovuto controllare. L’ampio guadagno è sufficiente per coprire le multe da 40 sterline che ogni tanto venivano comminate. Ma è proprio questo nuovo lavoro a segnare per sempre l’intera famiglia. Uno dei fratelli di Gordon, ribattezzato da tutti affettuosamente our Jack a causa della sua disabilità, viene aggredito mentre ha con sé i guadagni di una giornata. Un’aggressione così violenta da trascinarlo in ospedale e, a causa delle conseguenze, a morire nel giro di qualche settimana. «Siamo rimasti tutti devastati. Nulla è stato più lo stesso: la casa, la nostra famiglia, gli affari. Per la prima volta provavo l’esperienza tragica della perdita di una persona amata. Ho pianto per mesi, sentito vivo il cordoglio per anni e mi è mancato ogni giorno della mia vita».
Diventare portiere
Per diventare portieri serve sempre qualcosa di diverso, un’ispirazione, forse addirittura una vocazione. Durante le partite, Banks osserva i portieri. Ruba con gli occhi quando assiste alle gare di Bert Trautmann, estremo del Manchester City, un ex prigioniero di guerra tedesco che brillava per intuito, coraggio e agilità, così come un altro idolo di Banks, il portiere dei Wolves e della nazionale inglese, Bert Williams, alto a malapena 1.75 ma padrone dei pali come pochi altri in quell’epoca.
Nelle rare occasioni in cui riesce a spiare il Blackpool, non si fa rubare l’occhio dai grandi come Matthews e Mudie, ma non molla mai con lo sguardo George Farm. «Aveva uno stile poco ortodosso, bloccava il pallone con una mano. Quello che mi interessava era il modo in cui urlava le istruzioni ai difensori. Era il vero organizzatore della difesa, una cosa davvero inusuale per l’epoca».
Banks, che difende i pali della sua scuola, a quattordici anni ottiene una chiamata nella selezione cittadina. Da lì a un anno molla la scuola per dedicarsi a qualche lavoretto, i soldi in casa fanno sempre comodo, ma quello che sogna è il grande calcio. Caricare il carbone sulle spalle per tutto il giorno non è il modo migliore per presentarsi all’allenamento: «Ero in piena fase di sviluppo e trascinare il carbone per otto ore al giorno mi distruggeva in vista del fine settimana. Amavo il calcio, ma il sabato ero semplicemente esausto, riuscivo soltanto a guardare gli altri giocare».
Mentre sta guardando un match tra la squadra locale e il Millspaugh, viene avvicinato dall’allenatore ospite. «Ehi, tu. Giocavi in porta per gli Sheffield Boys, giusto?», gli chiede. Gordon capisce subito e la stanchezza svanisce in un attimo. Il portiere del Millspaugh non si era presentato al campo. Banks vola a casa per prendere le scarpe, l’allenatore gli fornisce la maglietta ma non ha pantaloncini e calzettoni. Non conta. Si può stare in porta anche con i pantaloni da lavoro e i calzini di tutti i giorni. Finisce 2-2, Gordon si difende bene per essere un ragazzino di quindici anni arruolato a bordo campo e dà spettacolo quando risponde a una conclusione avversaria con le gambe: una nube di polvere di carbone si alza dai pantaloni a contatto con il pallone. L’allenatore lo invita a diventare il portiere titolare, Banks accetta e dopo neanche una stagione riceve l’offerta del Rawmarsh Welfare, formazione di Yorkshire League.
L’esordio ad alti livelli è traumatico: perdono 12-2 contro lo Stocksbridge. La squadra cade anche nel secondo match giocato da Banks, stavolta 3-1. «Tutto quello che avevo sognato sul farmi un nome in quello che all’epoca era il livello più alto del calcio inglese tra i non professionisti era stato cancellato. Dopo la seconda sconfitta, il tecnico mi prese da parte. “Non prenderti la preoccupazione di tornare a giocare”, mi disse gentilmente. Il sabato successivo ero nuovamente a bordo campo a vedere il Millspaugh. “Siamo anche stavolta senza portiere”, sentii dire dall’allenatore. Pensai che fosse abbastanza strano, ma accettai». Stavolta lo nota un osservatore del Chesterfield, sufficientemente colpito da offrirgli un contratto nel 1953.
Inizialmente, vista la giovane età, viene dirottato nella squadra riserve, che gioca nella Central League, la stessa categoria delle formazioni B di colossi come Manchester United, Blackpool, Newcastle e Liverpool. In realtà, Banks ha un contratto particolare: deve allenarsi con la squadra il martedì e il giovedì sera e rendersi disponibile per qualsiasi formazione del Chesterfield nel weekend, si tratti della prima squadra (impegnata nella Third Division North), delle riserve o della selezione giovanile. In cambio, guadagna tre sterline a settimana. È un’esperienza allo stesso tempo esaltante e frustrante: Banks si sente parte di una squadra di professionisti, ma viene impiegato quasi sempre nella formazione riserve. Al cospetto degli scarti delle grandi d’Inghilterra, il Chesterfield viene seppellito di gol.
Nella stagione 1954/'55, in 42 presenze, Banks ne subisce 122. Non si abbatte: «Mettiamola così, ero un portiere molto impegnato. Prendevamo più di cento gol a stagione, ma le mie parate ne evitavano altrettanti. Più venivamo martellati, più il mio entusiasmo rimaneva invariato: amavo giocare in porta, soprattutto quando incontravo alcuni dei miei idoli. Contro le riserve del Leeds mi trovai davanti il grande John Charles, in via di recupero dopo un infortunio. Sapeva che ero un giovane con poche presenze e venne da me: "Figliolo, non preoccuparti. Fai del tuo meglio, quando ci sarà un pallone volante non andrò a saltare contro di te. Divertiti e dai il massimo per il tuo club, nessuno ti infastidirà oggi pomeriggio". Perdemmo 5-0, segnò tre gol, ma fu di parola».
Banks riceve tanti complimenti dagli emissari dei principali club d’Inghilterra, nonostante i gol subiti. La sua carriera si interrompe all’improvviso: riceve una convocazione che non ha nulla a che vedere con il mondo del calcio. Lo chiama il National Service, dopo settimane passate tra Catterick e Ripon scopre la sua destinazione: Germania. «Il destino aveva in serbo per me un altro regalo. Lì incontrai una bellissima e giovane ragazza tedesca, si chiamava Ursula. Ci innamorammo fino al matrimonio, abbiamo avuto tre figli e una vita splendida. La famiglia è importantissima per me, lo è sempre stata. Durante la mia infanzia a Tinsley non ho mai sentito il peso della povertà grazie all’amore dei miei familiari». L’esercito scopre tardi il suo ruolo di portiere e lo inserisce nella rappresentativa del reggimento, che conduce alla vittoria della Rhine Cup. Il Chesterfield lo tiene d’occhio anche durante la sua avventura militare e al rientro trova la lettera di Ted Davison, il manager: contratto da professionista, sette sterline a settimana. Banks firma subito.
Il contratto da professionista non garantisce un posto in prima squadra e Gordon è la stella della squadra giovanile che, nel 1956, raggiunge la finale della FA Youth Cup. Davanti c’è il Manchester United di Dawson, McGuinness e Bobby Charlton. Giocare davanti a 34.000 persone la finale d’andata è un bel salto di qualità per Banks e i suoi compagni, che si ritrovano sotto 3-0 ma riescono a trovare le forze per riemergere fino al 3-2. In occasione della gara di ritorno, 14.000 anime si radunano a Saltergate per spingere i giovani ragazzi del Chesterfield verso l’impresa. L’1-1 finale, però, regala la quarta coppa consecutiva al Manchester United. Per l’esordio in prima squadra c’è da attendere due anni, è il nuovo manager Duggie Livingstone a dargli un'opportunità. Banks non riesce a dormire la notte prima del debutto, e scopre dal programma del giorno che la sua prima presenza da titolare negherà a Ron Powell la gara consecutiva numero 300 a difesa dei pali del Chesterfield. Come in occasione dell’esordio con il Millspaugh, finisce 2-2.
Cosa rendeva speciale Banks
Nasce qui la leggenda di un portiere che ha fatto del senso della posizione il suo assoluto punto di forza. Banks faceva sembrare facili parate che tali non erano, riuscendo a trovare degli angoli di tuffo impossibili per gli altri. Le conclusioni che obbligavano i portieri a miracoli in iper estensione diventavano normale amministrazione per un numero uno in grado di leggere prima il gioco. Una capacità dettata solo in parte da doti naturali. I suoi compagni lo descrivono come un maniaco dell’allenamento, pronto a sedute extra pur di affinare i singoli aspetti del gioco: una mosca bianca, da questo punto di vista, negli anni ’50 e ’60. «In quel periodo non esisteva la figura del preparatore dei portieri» spiega Peter Shilton, che di Banks sarebbe stato l’erede al Leicester «e lui lavorava duramente per migliorare. Gli allenamenti per i portieri consistevano in una serie di tiri da respingere, tutto qui. Lui lavorava come un pazzo. Dai suoi sforzi in allenamento ho capito che non bisogna mai dare per impossibile una parata. Cercava sempre di rispondere, anche quando il pallone era destinato alla rete: non si arrendeva mai».
A un senso della posizione straordinario e a una marcata tendenza al controllo vocale della difesa, Banks abbinava una spaventosa agilità, aiutata da un fisico non particolarmente pesante. Riusciva a spostarsi sulla linea di porta o in uscita con una grandissima rapidità, accorciando lo spazio tra sé e il pallone anche solo con un veloce movimento di piedi. È impressionante rivedere la sua qualità nelle uscite basse a tu per tu con gli attaccanti, che al momento del controllo si trovavano con la figura di Banks all’altezza delle caviglie, pronto a strappare la sfera con quel coraggio che rasenta la follia tipico dei portieri.
Non è uno di quei mix sfavillanti che solitamente si trovano su Youtube ma aiuta a trasmettere l’idea di un portiere solido e coraggioso
Stupisce, in un’analisi postuma della carriera di un portiere riconosciuto universalmente tra i migliori non solo della sua epoca ma di sempre, che Banks non abbia mai giocato per una grande squadra. Gli basta mezza stagione da titolare al Chesterfield per ricevere la chiamata del Leicester, nel luglio del 1959. Il club sborsa 7 mila sterline per averlo e Gordon è convinto di avere un posto in prima squadra, ma non sa che in organico ci sono ben sei portieri.
Essendo l’ultimo arrivato, è quello con meno chance di partire titolare, almeno in teoria. Il suo turno arriva presto, dopo quattro partite in squadra riserve, anche grazie all’infortunio di Dave MacLaren: il fatto di essere partito titolare nella formazione B lo rendeva di fatto il dodicesimo. È l’etica del lavoro che permette a Banks di scalare le gerarchie non solo del club ma a livello nazionale. Diventa titolare, migliora gara dopo gara. «Volevo continuare a progredire. Dopo il normale allenamento, che di fatto era lo stesso svolto dal resto della squadra, senza tener conto del mio ruolo, chiedevo sempre a un paio di ragazzi delle giovanili di rimanere con me. Volevo mettermi alla prova, gli chiedevo di tirare in tanti modi diversi. Cercavo di lavorare sulla migliore posizione possibile da tenere in relazione all’angolo del tiratore».
Banks finisce per mettere in piedi una routine di preparazione senza avere un allenatore che lo guidi. «Non mi bastava essere diventato il titolare di una squadra di Prima divisione. Non avevo idea di quanto forte potessi diventare, ma lavoravo duramente per migliorare il mio gioco con i piedi, la capacità di bloccare e respingere il pallone, la posizione, i riflessi, la forza e l’energia. Studiavo gli angoli, le traiettorie del pallone, come organizzare nel migliore dei modi la difesa».
Dietro quel viso da caratterista, si nasconde un ragazzo ambizioso e un portiere in anticipo sui tempi. La seconda stagione al Leicester lo vede protagonista di una splendida cavalcata in FA Cup, arrestata soltanto in finale dal Tottenham. Si aprono le porte della Coppa delle Coppe – gli Spurs avevano vinto anche il campionato – e per Banks e compagni è un viaggio nell’ignoto. Il primo turno è agevole (7-2 complessivo sul Glenavon), il secondo un po’ meno: l’urna dice Atletico Madrid. Le ottime prestazioni di Gordon non sono più una sorpresa e scatta la convocazione di Walter Winterbottom per la sfida tra Inghilterra e Portogallo. Un sogno che si avvera. Ma c’è un problema: si gioca lo stesso giorno del match tra Atletico e Leicester. «Ero davvero in difficoltà.
Non potevo deludere il mio club e i miei tifosi, ma dire no a Winterbottom avrebbe significato la rinuncia a ogni altra chance a livello internazionale». Banks raduna Orsola e i suoi genitori, cerca una soluzione. Poi, l’idea geniale. Partecipare a entrambe le partite. Gordon capisce che ce la può fare: lascerà Wembley intorno alle 16.30 per poi recarsi a Leicester e difendere la porta delle Foxes. Non è lui il titolare dell’Inghilterra, tra i pali c’è Ron Springett, costretto a vivere un pomeriggio di grande apprensione sotto le bordate del giovanissimo numero 8 del Portogallo: si chiama Eusebio, se ne risentirà parlare.
Vincono i Tre Leoni (2-0), Gordon scappa da Wembley dopo nemmeno 20 minuti dal triplice fischio e arriva in tempo per un amarissimo 1-1: l’Atletico pareggia a meno di 60 secondi dalla fine, per poi chiudere la pratica nel match di ritorno. Il nucleo del Leicester è finalmente pronto a fare qualcosa di importante nella stagione 1962/'63, e non solo in FA Cup, dove deve affrontare il Liverpool in semifinale, ma anche in campionato: la squadra è in testa alla classifica in primavera inoltrata. I Reds bombardano la porta di Banks, che gioca una delle migliori partite della sua vita. Vince il Leicester 1-0 e va in finale, per Gordon è forse la definitiva consacrazione. «La gioia di arrivare a Wembley era stata sostituita da un incredibile sollievo. Al fischio dell’arbitro ho finalmente potuto lasciare andare il mio corpo e la mia mente dopo novanta minuti di una pressione inaudita. Ricordo di aver abbracciato Frank McLintock, che era il compagno di squadra più vicino, e ci siamo dovuti sorreggere l’un l’altro per evitare di finire a terra. Secondo le statistiche di News of the World, il Liverpool aveva tirato trentaquattro volte nello specchio. Quella partita contro il Liverpool, secondo me, è stata la mia miglior gara in un club. Sicuramente la più impegnativa».
Ma il destino di Banks non è quello di essere un vincente, almeno con le squadre di club: si rompe un dito contro il WBA, salta le tre gare finali del campionato – e il Leicester scivola quarto – e deve arrendersi al Manchester United in finale di FA Cup. Il primo (e unico) trofeo vinto con la maglia delle Foxes arriva un anno più tardi, con un drammatico successo in finale di Coppa di Lega contro lo Stoke City.
Banks è ormai una stella, difende i pali della Nazionale (l’esordio è arrivato nel 1963) ma la società non ha la forza per competere ad alti livelli. Si consola con la maglia dei Tre Leoni: il nuovo commissario tecnico, Alf Ramsey, ha declassato Springett e Gordon è il favorito per la maglia da titolare in vista dei Mondiali di casa. Nel 1964, però, conosce la concorrenza di Tony Waiters. Per fortuna di Banks, le cinque reti concesse dal suo rivale al Brasile inducono Ramsey a cambiare nuovamente idea, e Gordon può finalmente diventare il leader vocale di una difesa leggendaria: George Cohen, Jack Charlton, Bobby Moore e Ray Wilson. Alla vigilia del Mondiale del 1966, la fiducia è altissima. «Ramsey credeva fossimo all’altezza della vittoria e lo disse pubblicamente, così come Bobby Charlton e Jimmy Greaves. Ne ero certo anche io, come tutti i 22 della selezione. Come nazione, tuttavia, l’Inghilterra non si aspettava granché».
Lo 0-0 contro l’Uruguay non accende l’entusiasmo dell’opinione pubblica, Banks non sporca neanche i guanti ma non è un risultato di cui andare fieri. «Il pubblico di Wembley ci fece sapere cosa pensava della nostra partita: rientrai nel tunnel degli spogliatoi con i fischi che ancora risuonavano nelle mie orecchie». Ramsey deve lavorare sulla testa dei giocatori e prima della partita con il Messico regala loro una gita ai Pinewood Studios, dove la squadra incontra Sean Connery, impegnato nelle riprese di Agente 007 – Si vive solo due volte. Il gruppo è più compatto che mai, supera 2-0 sia il Messico – con un bellissimo gol di Bobby Charlton – che la Francia (doppietta di Hunt), chiudendo in testa il girone. Contro l’Argentina di Juan Carlos Lorenzo, vulcanico allenatore passato anche in Italia alla guida della Lazio, è la volta di una partita durissima, rimasta nella storia più per l’arbitraggio di Kreitlein e per l’espulsione di Rattin che per il gol vittoria di Hurst.
È anche la gara in cui Ramsey, furioso per l’atteggiamento degli argentini, nega ai suoi giocatori di scambiare la maglia con gli avversari a fine gara. Ora all’Inghilterra tocca il Portogallo, che non è più la squadra della prima convocazione di Banks. Quello che era il giovane numero 8 è diventato il fantastico numero 10, ma Ramsey piazza Nobby Stiles a uomo su Eusebio e strappa il pass per la finale vincendo 2-1. Per Gordon, il prepartita era stato da incubo. «Ero solito masticare due o tre gomme e poi spargere la saliva sui palmi dei guanti, per avere più grip quando dovevo bloccare il pallone. Era anche un gesto che mi permetteva di concentrarmi. Come al solito andai da Harold Shepherdson chiedendogli le gomme: quando vidi il suo volto, capii. Non ne aveva. Andai nel panico. “Sai che mi servono, Harold. Sai quanto può essere scivoloso un pallone”. Alf Ramsey mi chiese cosa stesse accadendo e disse: “Harold, esci subito e compra delle gomme!”. “Ma dove diavolo dovrei andare a prenderle?”, gli rispose Harold. “Sono un allenatore di calcio, non un dannato proprietario di un negozio di caramelle”, tuonò Ramsey. Fu uno dei ragazzi, credo Jack Charlton, a ricordarsi della presenza di un piccolo negozietto di giornali che rimaneva aperto fino a tardi alla fine di Wembley Way. […] Mentre le squadre erano spalla a spalla nel tunnel, pronte per entrare, io non c’ero. Stavo aspettando il ritorno di Harold. “Trova un modo per far tardare l’arbitro”, sentii dire a Ramsey mentre parlava con Bobby Moore.
Fortunatamente, la banda che si era occupata di intrattenere il pubblico prima della partita non aveva ancora lasciato il campo. Stavo sbattendo i piedi per sfogare la frustrazione, mi strofinavo nervosamente le mani pregando che Harold apparisse. Nel frattempo, vedevo centinaia di tifosi che non erano riusciti a rimediare un biglietto dall’ultimo minuto. Vidi Harold in lontananza, che correva con tutto il fiato che aveva in corpo e alzava un braccio in segno di trionfo». Il resto, la finale con la Germania e il gol fantasma di Hurst, è storia. «Mentre scendevo le scale dal Royal Box, stringendo tra le dita la medaglia che tutti i giocatori al mondo bramano, non potevo credere al viaggio che avevo fatto. La strada da Tinsley alla vittoria della Coppa del Mondo era stata lunga e piena di insidie, ma tutte le difficoltà che avevo incontrato erano di colpo evaporate, spazzate via dall'euforia».
Banks deve tornare alla vita di tutti i giorni con il Leicester, che non riesce a lottare per il titolo. È stato votato miglior portiere del Mondiale dall’Equipe, la Fifa lo ha inserito nella top 11 del torneo. È convinto di avere davanti a sé i migliori anni della sua carriera. Non la pensa allo stesso modo il board del Leicester, che nell’aprile del 1967 lo convoca per dargli il benservito. «Ero senza parole. Attonito. Confuso. Ho avuto bisogno di un po' di tempo per rimettere insieme i miei pensieri dopo aver sentito Matt Gillies dirmi che avrei dovuto lasciare il club. "Che stai dicendo, capo? Che io qui avrei finito?", gli chiesi. "Penso sia meglio così per tutti", mi disse. Nel tragitto in macchina verso casa, guidai come se fossi in un sogno. Mi sentivo rifiutato, non voluto. Erano bastate due frasi per ribaltare il mio mondo in un attimo». Alle spalle di Banks c’è un giovane portiere. Ha soltanto diciotto anni, è Peter Shilton. È così promettente da aver messo il Leicester davanti a un ultimatum: o il posto da titolare, o la cessione. Tra il vecchio e il giovane, la dirigenza sceglie quest’ultimo.
Il Liverpool sonda il terreno, Bill Shankly ha promesso da tempo a Banks un ingaggio in caso di addio al Leicester, ma il club gli impedisce di spendere 50 mila sterline per un portiere. Questa, almeno, è la versione di Shankly. Ci prova anche il West Ham, che permetterebbe a Gordon di ritrovare Bobby Moore, Hurst e Peters. Non va neanche questa. Il portiere più forte d'Inghilterra è sul mercato e nessuna big o potenziale tale si avvicina per trattarlo. Soltanto una squadra è pronta a prendere Gordon Banks: lo Stoke City. Se lo aggiudica con il campionato ancora in corso, e l’esordio casalingo avviene proprio contro il Leicester: para quasi tutto, lo Stoke vince 3-1.
Messico 70
Stringe subito un bel rapporto con il manager, Tony Waddington, deciso a far grande la squadra acquistando moltissimi veterani. Il periodo allo Stoke, per Banks, è quello della voglia di riscatto. Dimostrare a tutti – e in particolare al Leicester – di essere ancora all’apice della carriera, nonostante i trent’anni già alle spalle. Chi non dubita mai delle sue qualità è Ramsey, che gli affida i pali anche a Messico 1970. Un torneo stranissimo per gli inglesi, tormentati nella preparazione da quello che, in terra d’Albione, è ancora ricordato come il Bogotà Bracelet, uno scandalo nato in Colombia e dall’eco globale. I due Bobby, Moore e Charlton, entrano nella gioielleria Fuego Verde di Bogotà, dove l'Inghilterra sta cercando di acclimatarsi all'altitudine che troveranno in Messico con qualche amichevole (contro la nazionale locale prima e con l'Ecuador poi). Devono acquistare un regalo per la moglie di Charlton, ma non trovano nulla di interessante e decidono di uscire.
Clara Padilla, manager del negozio, li raggiunge e li accusa di aver rubato un pregiato braccialetto. I due si proclamano innocenti, gli schiamazzi attirano l'attenzione di Ramsey e i due vengono lasciati andare. La notizia non raggiunge i giornalisti, l'Inghilterra rifila quattro reti alla Colombia, due all'Ecuador (a Quito) e si accinge a volare su Città del Messico via Bogotà, dove la squadra farà ritorno per uno scalo per circa quattro ore e mezza. Staff e calciatori decidono di ingannare l'attesa guardando il film Shenandoah ed è lì che due agenti colombiani in borghese arrestano Moore per furto. La squadra parte lo stesso per Città del Messico, la notizia viene comunicata da Ramsey direttamente sull'aereo. «Bobby Moore un ladro e Bobby Charlton suo complice? Era come se ci avessero detto dell’arresto di Madre Teresa per crudeltà su dei bambini». Il caso si sgonfia, Moore raggiunge i suoi compagni dopo qualche giorno di arresto e l’Inghilterra batte la Romania nel primo match del girone, con un gol di Hurst.
Nel gruppo dei Tre Leoni c’è anche il Brasile. È il giorno della parata del secolo. «Avevo sperato per anni di sfidare Pelé in un grande torneo, e il momento era arrivato. Era al massimo della sua forza e, per essere onesto, non sapevo come avremmo potuto fermarlo». A Guadalajara fa un caldo irreale, si superano i 38 gradi, la partita è stata fissata a mezzogiorno per essere trasmessa in diretta in Europa. Banks è nella sua forma migliore, non è mai stato così tirato fisicamente in carriera, e lasciamo che sia lui a descrivere il miracolo che lo ha consegnato alla storia. «Vidi Jairzinho caricare il cross e iniziai a muovermi sulla linea di porta, pensando che avrebbe messo il pallone verso il dischetto del rigore: ero convinto che sarei stato in grado di anticipare Pelé, che era appena entrato in area. Ma Jairzinho mise il pallone dall'altra parte, subito fuori l'area piccola. Girai la testa e vidi nuovamente Pelé che colpiva il pallone di testa: appena la sfera lasciò la sua testa, lo sentii urlare "Golo!". In una situazione come quella, tutto diventa chiaro nella tua mente. L'esperienza e la tecnica hanno il sopravvento. Mi trovai all'improvviso in un angolo di quaranta gradi con la mano allungata verso il palo e i miei occhi sul pallone che scendeva. Capii che non sarei stato in grado di bloccarlo. Istintivamente, sapevo che avrei dovuto colpire la sfera verso l'alto. In quel modo, Pelé non avrebbe potuto realizzare in tap-in. Il pallone toccò terra a meno di due metri da me, la mia preoccupazione era capire l'altezza del rimbalzo. Riuscii a toccare il pallone con le dita, era la prima volta che indossavo un nuovo tipo di guanti, molto utilizzati in Sudamerica: erano più grandi dei nostri, coperti di gomma. Fecero il loro dovere, riuscii ad arrivare sul pallone. Ora la preoccupazione era non spedire la palla sulla parte alta interna della rete: ruotai leggermente la mano, usando il terzo e il quarto dito come leva. La mia prima reazione fu guardare Pelé, non avevo idea di dove fosse il pallone. Aveva la testa tra le mani, capii quello che avevo bisogno di capire. Mentre mi rimettevo in piedi, Pelé venne da me, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse "Pensavo fosse gol"; "Siamo in due", gli risposi. Le immagini TV della partita mi mostrano ridere mentre mi giro e riprendo la posizione per il calcio d'angolo. Ridevo alla battuta che Bobby Moore mi aveva appena fatto. "Stai diventando troppo vecchio Banksy, una volta queste le bloccavi". Eccome se le bloccavo!».
A 0.50 l’azione che porta alla parata del secolo: le telecamere mostrano il sorriso di Banks, non la parte della pacca sulla spalla di Pelé. Ma perché guastare una bella storia con la verità?
Sarà Jairzinho, l’autore del cross per Pelé, a trovare il gol dell’1-0 finale. L’Inghilterra batte la Cecoslovacchia e avanza comunque, andando a sfidare la Germania Ovest nel remake di Wembley 1966. Ma lo stomaco tradisce Banks, che deve alzare bandiera bianca. Tra i pali c’è Peter Bonetti, la Germania vince 3-2 ai supplementari e resta nella storia la frase di Alf Ramsey: «Di tutti i giocatori che avremmo potuto perdere, è toccato proprio a lui». Per anni si è fantasticato sul malore di Banks, con diversi tifosi inglesi convinti dell’avvelenamento ai danni del portiere. Una tesi smentita dallo stesso Gordon, che non ha mai creduto a questa versione.
Si rituffa anima e corpo nello Stoke City, che conduce a una splendida vittoria in Coppa di Lega nel 1971-72, sfiorando in due occasioni la finale di FA Cup. Vince il premio di Giocatore dell’anno, primo portiere a riuscirci dai tempi del suo idolo, Bert Trautmann. Il 1972, però, finisce male. Tornando a casa dopo una seduta di fisioterapia per un problema alla spalla, Banks perde il controllo della sua autovettura nel tentativo di evitare un’altra macchina. «Ricordo il rumore dello schianto, i vetri che si rompono, poi più nulla». I medici lo portano immediatamente in sala operatoria, l'occhio destro è in condizioni pessime, servono 100 micropunti interni, la retina è danneggiata. Banks si risveglia dopo l'intervento ed è un'infermiera a dargli la notizia prima del colloquio con il chirurgo. «How bad?», gli chiede per ben due volte mentre il medico si dilunga in spiegazioni tecniche. Passano tre giorni prima che possa vedersi a uno specchio.
«Non fu un bel momento. Avevo più di duecento punti disseminati per tutta la mia testa, ed erano soltanto quelli che riuscivo a vedere, perché il chirurgo ne aveva dovuti inserire un centinaio nella palpebra. Non saprei descrivere a parole quanto mi abbiano aiutato l’amore e il supporto di Ursula, dei miei figli e di tutta la mia famiglia. Allo stesso modo, non riesco a esprimere fino in fondo la gratitudine nei confronti dei medici, delle infermiere e dello staff del North Staffordshire Hospital, che mi hanno dato cure e attenzioni. Tutt’ora, a distanza di anni, mi basta ricordare tutto quell’amore per sentire un groppo in gola». La carriera del più grande portiere inglese di sempre termina l’estate successiva, almeno quella ad alti livelli: nel 1977 si concede l’esperienza americana nei Fort Lauderdale Strikers, dove viene nominato Portiere dell’anno.
La gloria eterna, purtroppo, non basta ad andare avanti. Nel 2001, per aiutare i suoi tre figli Julia, Robert e Wendy a comprare casa, decide di mettere all’asta quella medaglia che stringeva tra le mani scendendo i gradini dalla Royal Box. «Non ho problemi economici ma non sono nemmeno super ricco, questa medaglia rappresenta il momento di cui vado più orgoglioso nella mia vita, l’ho ricevuta dalla Regina. Ho tre figli. Quando morirò, questa sarebbe soltanto una medaglia da dividere in tre. Preferisco vederli felici mentre sono ancora qui piuttosto che lasciarla in un testamento».
Nel giorno dell’addio di Gordon Banks, gli omaggi sono stati tantissimi. Quasi tutti i media mondiali sono andati a cercare Pelé: «Ho una grande tristezza nel cuore. Ho segnato tantissimi gol ma tutti mi chiedono di quello che non ho segnato a causa di quella parata. Il mio ricordo di Gordon non è definito da quel miracolo ma dalla sua amicizia. Era un uomo gentile, che dava tanto alla gente. Quella parata è stata l’inizio di un’amicizia che ricorderò per sempre».