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Daniele Manusia

Con la calma di Granit Xhaka

In un Europeo fuori controllo, i giocatori come Xhaka stanno facendo la differenza.

È stata una partita che avrebbe meritato di essere una semifinale, quanto meno un quarto di finale, di sicuro non solo un ottavo di finale. Certo, per la Svizzera significa anche vincere una partita eliminatoria di un torneo internazionale per la prima volta dopo 65 anni, il che la rende comunque un’occasione speciale. E poi hanno battuto la Grande Favorita, così favorita che a tratti dava l’impressione di giocare come se avesse già vinto, come se fosse già in vantaggio di un paio di gol. E anche quando poi c’è stata, in vantaggio di due gol, la Francia ha giocato comunque con troppa sufficienza, come se non ci fosse davvero bisogno di giocare più di cinque minuti a partita alla massima intensità – forse Didier Deschamps oltre al sesso aveva tolto ai suoi giocatori anche la tv, per questo non avevano visto la Croazia rimontare da 1-3 a 3-3 negli ultimi dieci minuti, giusto poche ore prima di lasciare che la Svizzera facesse la stessa cosa. Alla fine c’è stato quel momento, dopo il quinto rigore parato da Yann Sommer, in cui Kylian Mbappé è rimasto fermo in attesa che l’arbitro convalidasse e fischiasse la fine della partita. Sembrava che una parte di lui non potesse contemplare l’idea che fosse davvero finita, che fosse toccato proprio a lui far uscire la Francia agli ottavi di finale. Non può essere finita così, vero? Me lo fate ritirare, giusto? No Kylian, desolé. 

 

È stata una partita che avrebbe stressato anche il più occasionale degli spettatori e che dimostra ancora una volta come il calcio più divertente non sia per forza di cose il calcio migliore. In Francia-Svizzera i presupposti dello spettacolo sono stati la passività della Francia, le difese sempre prossime al collasso così tipiche di questo Europeo, gli errori tecnici e le improvvise assenze a livello tattico o mentale, alternate a momenti di euforia francamente difficili da spiegare. Sapete invece chi è rimasto più o meno se stesso per tutti i centoventi minuti, sbagliando il meno possibile (6 passaggi su 87) mettendo ordine nel caos, aspettando con la calma dei saggi che si presentasse l’occasione giusta? Granit Xhaka, come il nome lascia intendere (esatto, in albanese significa granito), è una persona solida su cui si può contare.

 

Quasi sempre, almeno. I tifosi dell’Arsenal si sentiranno magari in dovere di aggiungere che ci si può contare quando non si fa espellere senza ragione o quando anziché rallentare il gioco sembra semplicemente troppo lento per quello che gli succede intorno. Quando a ottobre 2019 è uscito dal campo fischiato dai suoi stessi tifosi, e gli è stata tolta la fascia da capitano, non sembrava granché in controllo della situazione, in effetti.

 

Ma quello che abbiamo visto lunedì sera contro la Francia è il miglior Granit Xhaka. Con la mascella che sembra il manubrio di una bici, le orecchie a punta da namecciano, e i capelli ossigenati che gli danno un’aria vagamente cyberpunk, Xhaka sopperisce con l’intelligenza alla scarsa mobilità, sempre disponibile per giocare di sponda con i compagni – un gioco elementare, in cui ricevendo da uno dei centrali giocava di prima sul terzino più vicino, aiutato dalla scarsa pressione dei francesi – e mai fuori posto rispetto agli avversari. Dopo sei minuti, addirittura, è andato a dare una mano a Elvedi su Mbappé e con il sinistro gli impedito di rientrare e tirare. 

 

Il fatto che la maggior parte delle sue giocate siano state puramente conservative non significa che siano state banali. Anzitutto Xhaka ha verticalizzato ogni volta che ha potuto, cercando giocatori tra le linee o alle spalle della difesa francese. In quel casino che è stato il finale della partita magari è passato inosservato, ma subito dopo il gol del 3-3 la Svizzera ha avuto un’altra occasione, grazie proprio a Xhaka che con un lancio di collo tagliatissimo pesca, da dietro la metà campo, Mehmedi tutto solo all’altezza dell’area di rigore francesi. Nei supplementari ha messo di nuovo Vargas dentro l’area scavalcando la difesa. Sia Mehmedi che Vargas hanno sbagliato il controllo, ma insomma fosse stato per Xhaka la partita non sarebbe dovuta neanche andarci ai rigori. 

 

 

Per descrivere le sue doti mentali Xhaka ha raccontato l’aneddoto secondo cui i genitori, quando era piccolo, affidavano a lui le chiavi di casa, nonostante avesse un fratello maggiore. «È nella mia testa, il fatto di essere un leader». I tifosi inglesi lo hanno massacrato online e in effetti se questo è l’esempio della tua leadership, tenere le chiavi di casa, un po’ te lo meriti di venire preso in giro. Un’altra versione della sua “storia d’origine” parte dal padre, Ragip Xhaka, che nella ex-Yougoslavia ha passato tre anni come prigioniero politico, prima di lasciare il Paese e trasferirsi in Svizzera, il che spiegherebbe la sua forza mentale. Ma sono partite come quella con la Francia, contro avversari come Pogba e Kanté, che fanno capire davvero che tipo di leader possa essere.

 

Quando a venti secondi dalla fine della partita, ancora sotto 3-2 nel punteggio, Fassnacht sposta da dietro il pallone a Pogba e la Svizzera può partire in contropiede, si direbbe che debba farlo velocemente. Invece Xhaka temporeggia, trotterella dentro il cerchio di centrocampo con la testa alta, così lentamente che Mehmedi gli taglia davanti, da destra a sinistra. Sembra stia sprecando l’ultima occasione della partita, come se non si rendesse conto di quanto poco manca alla fine. Seferovic abbassa la difesa della Francia e nello spazio davanti a Kimpembé si infila Gavranovic. Al momento giusto Xhaka fa partire un filtrante di interno sinistro, che arriva con precisione sulla corsa di Gavranovic, bravo a rientrare subito su Kimpembé e a calciare rasoterra in diagonale sul palo a sinistra.  

 

 

Un modo di descrivere lo stile di Granit Xhaka è parlare della sua lentezza, di quanto è poco mobile con e senza palla (nonostante debba ancora compiere ventinove anni), ma un altro è parlare di quanto sia freddo anche sotto pressione, tanto ordinato quando deve solo conservare il pallone quanto preciso quando deve farlo correre velocemente e in avanti. Non è un giocatore creativo in senso assoluto e non ama prendere rischi, ma ha un senso dello spazio e una visione di gioco di alto livello, oltre a un sinistro con cui può giocare corto e lungo con la stessa efficacia (a limitarlo nella direzione dei passaggi e nelle giocate tecniche è sempre la rigidità del suo corpo). Lunedì sera è bastata la sua capacità di leggere le diverse situazioni di gioco per avere la meglio del centrocampo francese, con brillantezza.

 

Che abbia giocato meglio di tutti l’ultima mezz’ora di gioco, quella in più, quella in cui la Svizzera «è stata la squadra migliore», come ha detto lui a fine partita, è dovuto sia al fatto che il suo gioco dipende pochissimo dalla tenuta atletica o dalla semplice forma fisica, quanto piuttosto dalla capacità di restare lucido e freddo, sia dall’ulteriore abbassamento della pressione francese, che lo ha lasciato più spesso a palla scoperta. Xhaka alla fine sembrava persino fresco. Nel primo tempo supplementare, dopo pochi minuti, Pogba mette giù un colpo di testa sul lato sinistro del campo, Xhaka gli arriva da dietro e gli toglie palla infilando la gamba tra le sue. Poi quando a sua volta viene pressato da Sissoko, la passa a un compagno facendogli un tunnel.

 


In troppe situazioni i giocatori francesi erano in ritardo, poco reattivi, o semplicemente in confusione rispetto alle iniziative di quelli svizzeri. E questo è stato sottolineato abbastanza. Ha vinto il cuore sulla tecnica, la squadra vera sul patchwork di campioni. Quello su cui però si è scritto e parlato meno, è stata la difficoltà con cui la Francia ha creato pericoli offensivi. A parte le due bellissimi occasioni dei gol del 1-1 e 2-1, nate da gesti individuali sublimi (il controllo con la gamba all’indietro di Benzema, il tacco di Mbappé), la Francia ha faticato a penetrare in area di rigore. Anche la palla che arriva a Pogba per il terzo gol, viene da un tiro forzato da Benzema al limite dell’area.

 

Un tiro respinto da Xhaka, sempre attento nella zona davanti ai centrali difensivi. All’inizio del secondo tempo supplementare Mbappé ha provato a triangolare con Giroud, ma è stato così prevedibile che Xhaka ha fatto in tempo a mettere il corpo, controllare il passaggio di ritorno e a girarsi con la suola, prima di muovere la palla in verticale.  

 

Stiamo vivendo un Europeo incredibilmente emotivo, coi nervi a fior di pelle. Le partite sembrano scritte da sceneggiatori che di calcio sanno appena le basi, preoccupati di intrattenere un pubblico che ne sa ancora di meno. 

 

– Ok allora la Spagna segna il 3-1 a un quarto d’ora dalla fine. Poi che succede? 

– Facciamo che la Croazia segna due gol e nei supplementari la Spagna ne fa altri due.

– Scusa ma a questo punto non sarebbe uguale se facessimo vincere la Spagna 3-1?

– Ma così c’è più tensione.

– Come in Fortnite?

– Meglio di Fortnite!

– Ok almeno ci facciamo perdonare il fallo di mano di de Ligt, quella è stata una trovata un po’ banale.

– Sì, vero…

 

Le partite si infiammano improvvisamente e nessun giocatore sembra abbastanza grande da riuscire a far convergere le energie dell’universo sui propri piedi. Abbiamo visto uscire Cristiano Ronaldo dopo aver segnato 5 gol in 4 partite. È uscito Pogba che stava giocando un Europeo migliore dello scorso Mondiale. L’Italia ha superato l’Austria dopo una partita giocata che in alcuni momenti sembrava una sessione di cross-fit, una gara a chi era più in forma. Sono rari i giocatori che riescono a mantenere, a gestire il ritmo del gioco, rallentando con la palla al piede prima di accelerare di nuovo. L’influenza di Granit Xhaka, come di Grealish, Sergio Busquets o Jorginho, per fare altri esempi, sta nella capacità di resistere al batti e ribatti delle partite, di surfare sulle ondate di emotività con cui questo Europeo ci sta bombardando. Di mantenere la calma anche quando si sta provando a fare la storia.

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).