Ci sono tre cose veramente dure: l’acciaio, il diamante e conoscere se stessi.
Benjamin Franklin
Quando penso al ciclismo, penso a mio padre steso sul divano davanti a una grande classica, nel pomeriggio di un weekend primaverile. Ci rimaneva per molte ore, mentre io ciondolavo per casa e ogni tanto passavo a chiedere quanto mancasse alla fine della corsa. Non mi sarei mai sognato di fare delle domande sul perché fosse così preso, non era il caso di rompere quel muro di incomunicabilità fatto di solidissimi silenzi costruiti con tanta pazienza negli anni.
Forse ci avrebbe anche provato a spiegarmi qualcosa. Ma lo avrebbe fatto in un modo che non mi avrebbe convinto. E poi gli piacesse pure il ciclismo, se lo tenesse per sé, io avevo le mie certezze e delle domande di cui non mi interessava avere risposta: tutto quello che stava prima dell’ultimo chilometro mi pareva tremendamente noioso, e non mi era chiaro perché i ciclisti fossero divisi in squadre, se tanto poi a vincere era uno solo e veniva sempre fuori da un ristretto numero di favoriti. A che servivano allora tutti gli altri?
Allora percepivo il ciclista come un uomo solo, un lupo solitario che vive in salita e non si cura di ciò che gli accade intorno, perché pensa solamente a se stesso, a ingranare la prossima pedalata. Ero convinto che tutti avessero l’obiettivo di vincere la corsa.
Qualche mese fa, però, un episodio mi ha messo davanti alla possibilità che questa mia convinzione fosse errata, e all’opportunità di scoprire cosa facciano tutti quelli che non si chiamano Roglic, Nibali o Yates. Questa volta mio padre non c’entrava niente.
Oltre a scrivere articoli, di mestiere scrivo anche film. Durante un workshop sullo sviluppo di film documentari ho conosciuto la casa di produzione torinese STEFILM. Stefano Tealdi, uno dei fondatori, mi ha raccontato del loro ultimo lavoro, Wonderful Losers, un film sui gregari nel ciclismo, co-prodotto insieme alla Lituania ed entrato nella lista dei possibili candidati all’Oscar come miglior film straniero (anche se alla fine però non è riuscito ad entrare nella cinquina finale, vinta poi da Roma di Alfonso Cuaron). Quando ho chiesto a Tealdi chi fossero i gregari, lui mi ha risposto: «Quelli che corrono sempre, ma il loro lavoro è non vincere mai».
Quando ho visto per la prima volta il trailer e la locandina - dove compariva la frase “When loss becomes victory”, una frase ancora più catchy, perfetta come alfiere di una campagna promozionale -, ho pensato si trattasse di un film sporco, fatto di fango e sudore, un film d’azione molto “reale” (era pur sempre un documentario), un modo per toccare con mano cosa significhi donare il proprio corpo al ciclismo.
Cosa fa un gregario
Prima di parlare di Wonderful Losers e di come mi abbia portato a scrivere dei gregari mi sembra giusto parlare brevemente di chi siano esattamente, e di cosa facciano. A questo proposito, è utile riprendere le parole di Umberto Preite Martinez, che rispondendo su l’Ultimo Uomo a una domanda sulle tattiche nel ciclismo ha spiegato che i gregari “non hanno ambizioni di vittoria, ma sono lì solamente per aiutare il ‘capitano’ a vincere. E come lo fanno? Lo spingono fino all’arrivo? No, questo non si può fare (è espressamente vietato dal regolamento) ma possono fare altre cose fondamentali: andare all’ammiraglia a prendere acqua o cibo vario per i compagni (in sei ore di corsa bisogna anche alimentarsi bene); ‘tirare’ il gruppo mettendosi in testa a fare l’andatura proteggendo il capitano dal vento; stare sempre vicino al capitano per tenerlo fuori dai guai (che nel gruppo sono tanti e di varia natura: si va dal pericolo del viaggiare in bicicletta in mezzo a un centinaio di altre persone fino ai pericoli dati dalla strada stessa come spartitraffico, marciapiedi, tombini, buche e quant’altro) o per prestargli la ruota in caso di foratura in modo da non farlo attendere a bordo strada fino all’arrivo dell’ammiraglia”.
Ovviamente i capitani “velocisti” vengono aiutati maggiormente dai gregari nei tratti montani, mentre gli "scalatori" nei tratti rapidi. Un altro paio di situazioni specifiche: se il capitano è tallonato stretto da un avversario, un gregario può provare a rallentarlo frapponendosi tra i due corridori; se si crea un gap troppo ampio tra il proprio capitano e la testa della corsa, un gregario può prendersi carico di ricucire il distacco.
I gregari, ovvero la stragrande maggioranza dei ciclisti, sono atleti che hanno caratteristiche fisiche ottime, che gli consentono di abitare il professionismo, ma non abbastanza da fare il capitano; non sono sufficientemente scattanti in volata, né dei mostri in salita o nelle prove a cronometro, e non hanno una spiccata padronanza delle proprie forze, o un recupero delle energie così elevato da consentirgli di poter rendere al massimo in una competizione logorante come il Giro d’Italia o il Tour de France (competizioni da 21 tappe in 3 settimane). I gregari sono ciò di più vicino a noi quando parliamo di ciclisti professionisti, essenzialmente l’umanità che definisce il ciclismo. Tutti da giovani ambiscono a diventare capitano, ma prima o poi si accorgono che, semplicemente, non sono l’eccezione.
Esistono comunque casi di gregari diventati capitani: gli esempi più recenti e di successo sono Jan Ullrich, Chris Froome e Michele Scarponi, tragicamente scomparso due anni fa travolto da un furgone. Scarponi è stato il gregario più forte del mondo, vincitore del Giro nel 2011 e autore di una tappa incredibile, esemplare, al Giro 2016, per il suo capitano Vincenzo Nibali.
19° tappa, da Pinerolo a Risoul. La musica in sottofondo è di quelle che di solito si mettono nelle compilation sulle “rimonte più incredibili del calcio”.
Se i gregari fanno bene il loro lavoro, il capitano ha una chance di vincere la corsa. È lui che ha la responsabilità di finalizzare il lavoro di tutta la squadra, è lui che si prende la gloria e può guadagnare anche dieci volte tanto rispetto ai suoi compagni, di cui invece non si ricorderà nessuno; eppure sono loro, con un duro lavoro che comprende i compiti più svariati, a porre le basi per la vittoria. La collaborazione è una parte essenziale del ciclismo: «Siamo così uniti che ci vorrebbe una bici a nove posti», diceva Michele Scarponi prima del suo ultimo Giro.
Anche quando sono in fuga, da soli, i gregari devono pensare a come far rientrare i propri compagni di squadra che “portano” il capitano. Certo, ci sono anche i cosiddetti outsider, gregari con la libertà di provare a vincere la corsa, una condizione che non sempre è decisa a priori ma può essere valutata anche durante una tappa, a seconda della condizione fisica dei vari componenti di una squadra. Oggi i ruoli possono anche essere definiti a seconda delle corse: al Tour of the Alps 2019 (l'ex Giro del Trentino) Froome ha fatto da gregario ai giovani Sivakov e Hart, ad esempio.
I gregari di professione devono avere testa e cuore e un grande spirito di sacrificio, senza vincere mai. Un aspetto fondamentale che li caratterizza è una capacità fuori dalla norma di sopportare il dolore.
Dolore e riscatto sociale
A questo proposito, la sequenza di apertura di Wonderful Losers è emblematica. Quando lo schermo è ancora nero, un respiro affannoso anticipa l’inizio del film: siamo su una strada di montagna, la camera a mano balla di qua e di là, restituendoci un senso di emergenza, confermato dalla scritta “doctor” stampata sulle schiene di due persone che corrono frettolosamente in discesa. Salgono in macchina, ricevono via radio la comunicazione su dove si trovi il luogo dell’incidente, e ripartono in fretta. Stiamo seguendo una giornata ordinaria dell’automedica del Giro d’Italia, un soccorrere continuo.
Poco dopo, siamo nella stanza di un ospedale. Daniele Colli, gregario tra le altre di Team Type e Vini Fantini, racconta gli attimi velocissimi di una caduta, i pensieri immediatamente successivi. «La prima cosa che ho pensato è stata: ho finito il Giro d’Italia; tutto il tempo che hai impiegato per arrivare lì viene svanito in 3 o 4 secondi. La seconda cosa che ho pensato è stata che forse mi faceva male il braccio».
Colli veniva da una promettente carriera da juniores, ma non ha mai sfondato veramente tra i professionisti. Ha avuto un tumore benigno al ginocchio, superato dopo diversi interventi, e si è rotto un braccio al Giro del 2015. Una volta ha corso per cinque giorni con il bacino fratturato, senza dire niente a nessuno. Durante un’altra intervista in ospedale, Daniele riesce a riderci su, trovando anche un’intuizione che dice molto su cosa significhi essere un ciclista: «Paradossalmente, mi faceva più male a camminare che a pedalare». Come se la pedalata fosse ormai elevata ad atto purificatore che prescinde da qualsiasi tipo di dolore. Come se fosse l’unico modo per stare bene, anche quando si sta malissimo.
Una scena di medicazione in corsa in Wonderful Losers. Il regista lituano Arūnas Matelis è stato “ospite” dell’automedica del dottor Branca per tutto il Giro del 2014. Matelis ha vinto nel 2005 il prestigioso “Directors Guild of America Award”, un premio che nel suo albo conta uno dei registi più importanti della storia del cinema documentaristico: Werner Herzog.
Per capire i rischi a cui vanno incontro i gregari è sufficiente conoscere la complessità della squadra medica che li assiste. Durante il Giro d’Italia, ogni giorno in corsa ci sono quattro ambulanze e due automediche con attrezzatura per la rianimazione: una macchina segue il gruppo, l’altra è piazzata davanti per accompagnare eventuali fughe. A questi si aggiungono un centro di radiologia mobile e un ambulatorio. Capitanata da Massimo Branca, medico del Giro da 35 anni, l’equipe sanitaria sta con la corsa dall’inizio alla fine, e a volte segue i corridori anche in albergo. Il dottor Branca e l’autista Ferdinando Ansaldo sono due istituzioni di questa squadra, i cui metodi sono stati presi a esempio anche dal Tour de France.
Arūnas Matelis ha lavorato a Wonderful Losers per 8 anni, riuscendo nell’impresa di ottenere i permessi per girare un documentario sul Giro - non accadeva dal 1973 - e accettando il rischio di riprendere un evento totalmente imprevedibile come una gara sportiva di questa portata. Matelis ritrae spesso i gregari a pancia in su, stesi sul lettino da massaggio, tra una tappa e l’altra. Oppure quando vengono soccorsi dall’automedica, attaccandosi alla portiera in corsa, mentre il dottore applica una garza o li imbocca con un antidolorifico.
Tutte le difficoltà e i sacrifici che devono affrontare sono un compromesso che molti gregari non hanno difficoltà ad accettare: nella prima metà del novecento, il ciclismo è stato per molti giovani una via per un possibile riscatto sociale. Oggi i gregari continuano ad avere origini umili, ma non provengono da situazioni difficili come negli anni ‘30 e ‘40, non c’è più quella necessità vitale di raccimolare qualche soldo o comprarsi un appartamento.
Esplorando le storie personali dei gregari del passato, molte delle quali raccolte nel libro Spingi me sennò bestemmio (Ediciclo Editore) di Marco Pastonesi, ho trovato alcuni punti comuni a quasi tutti: venivano da famiglie molto numerose dove lo sport era considerato un lusso, avevano al massimo la licenza media, i genitori (quindi anche loro stessi, anche quando erano già diventati professionisti) facevano mestieri manuali. Erano operai, idraulici, minatori, agricoltori, contadini, falegnami, muratori, tornitori, macellai: nella maggior parte dei casi attaccarsi un numero dietro la schiena, significava letteralmente salvarsi la vita.
Nane Pinarello, così povero che «latte e polenta era già un lusso», scoppiò a piangere quando gli diedero centomila lire per tornare a casa e fare posto all’ultimo momento a Pasquale Fornara, al Giro del 1952. Con quei soldi aprì una fabbrica di biciclette a Treviso, garantendosi un futuro.
Renzo Zanazzi, compagno di Gino Bartali, faceva il gregario fin da ragazzino e senza andare in bicicletta. Durante gli inverni della seconda guerra mondiale, in condizioni di povertà estrema, assaltava le ferrovie per rubare delle traversine in rovere da bruciare nella stufa. Amedeo Barducci, invece, afferma di essersi costruito una casa con il proprio gruzzolo accumulato negli anni - i premi per le vittorie si spartivano in parti uguali tra tutti i componenti della squadra.
Zanazzi ha combattuto la guerra da partigiano. Portava le lettere in bicicletta, per lui fare 150 km era uno scherzo. Una volta venne fermato da un posto di blocco tedesco: disse che andava ad allenarsi, e lo lasciarono andare.
Per aiutare la propria squadra a vincere si faceva tutto, e in realtà lo si fa ancora oggi, nonostante il contesto sia cambiato completamente. Una volta invece erano frequenti gli assalti alle fontane (dove i primi riempivano le borracce dai rubinetti, gli ultimi dalla vasca) e ai bar, da cui tutti rubavano cibo lasciandolo sul conto del proprio direttore sportivo. Alcuni uscivano «con così tanta roba addosso che la maglietta gli pendeva fino alle ruote», ricorda Alberto Poletti, gregario di Vittorio Adorni. Nel 2006 Fabio Sacchi, gregario di Alessandro Petacchi, riuscì a portare insieme 18 borracce, un record.
L’obiettivo di ogni gregario, in ogni caso, è sempre arrivare entro il tempo massimo - non finire una tappa del Giro significa automaticamente venirne esclusi -, calcolando l’andatura giusta per sopravvivere. Molto spesso, cercando letteralmente di “portare a casa la pelle”: una volta è il freddo, un’altra la botta di caldo, un’altra ancora semplicemente la fatica per una tappa massacrante, le ragioni per non farcela con le proprie gambe possono essere molte. La spinta di ottenere un piazzamento, però, sembra poter far superare ai gregari qualsiasi cosa.
Uno dei racconti più vividi è quello di Antonio Uliana: «In una giornata apocalittica, nella bufera di neve, stavo vicino al mio capitano Gastone Nencini. Lo incitavo, lo pregavo di tenere duro, il suo piazzamento valeva soldi per tutti. All’improvviso cadde a terra, lo portarono via in ambulanza. Il direttore sportivo mi disse che ero l’unico rimasto della squadra. Arrivai sesto, con le mie gambe. In Albergo mi fecero entrare a forza in una vasca, e mi accorsi che mi sanguinavano i piedi. In discesa, sotto la pioggia, avevo frenato coi piedi, consumando le scarpe e poi la pelle».
I racconti di Colli e Uliana chiariscono perfettamente cosa sia disposto a fare un gregario per continuare la sua corsa. Quella del gregario non è mai una lotta autoriferita contro i propri demoni interiori, ma sempre in funzione degli altri.
Per gli altri
Il ruolo sportivo del gregario è infatti spiccatamente altruista. «Per me ritirarsi è come voltare le spalle ai miei compagni», spiega il canadese Svein Tuft, «magari sono ferito ma posso ancora fare qualcosa per loro». L’aspetto collaborativo del ciclismo è quasi completamente ignorato da chi non è appassionato di questo sport: un mondo fatto di gesti semplici come consegnare dei panini al propri compagni, che rappresentano un modo di pensare e agire umile, al servizio degli altri.
Paolo Tiralongo, gregario anche di Alberto Contador, ha ammesso che gli «piacerebbe rimanere nell’ambiente. Più che altro per insegnare ai giovani la cultura del ciclismo, che cos’è. Non vorrei insegnare a fare il ciclista, ma cosa significa fare il ciclista». Sembra quasi che Tiralongo tenga di più alla conservazione dell’etica dei gregari rispetto ai propri risultati sportivi. L’unica cosa che conta è preservare un codice d’onore, una cultura del lavoro che viene tramandata da un centinaio di anni. Sembra quasi che a nessuno interessi davvero chi vince.
Gli sforzi dei gregari hanno un loro senso pratico solamente in relazione a qualcun altro, che assume varie declinazioni. I compagni di squadra in primo luogo, tra borracce e semplici incoraggiamenti, che nelle situazioni più difficili fanno la differenza, ma anche gli avversari: se in fuga va un certo numero di corridori di squadre diverse, si danno il cambio in testa al gruppetto, a volte scambiandosi acqua e viveri (la stessa cosa può avvenire in fondo al gruppo, quando tra corridori in crisi ci si aiuta a prescindere dallo schieramento).
E poi il pubblico che segue la corsa e la propria famiglia, indispensabile per superare i momenti più difficili. Entrambi gli aspetti toccano due momenti della carriera di Daniele Colli, che ricorda i minuti successivi a un brutto incidente: «Quando ero a terra chiudevo gli occhi per il dolore, non vedevo quanto pubblico ci fosse; quando mi hanno tirato su con la barella c’è stato un applauso lunghissimo, è durato finché non sono entrato in ambulanza. Lì ho sentito veramente che il pubblico era scosso per quello che era successo. Sono delle emozioni, mi ricordo un applauso come se avessi vinto».
Marzio Bruseghin, gregario classico proveniente dalla tradizione contadina, si sente con la coscienza a posto anche quando una tappa va male, contento per «tutte quelle facce che ti urlano addosso», anche quando sono lì da ore e vengono da un picnic condito da qualche bicchiere di troppo, e finisce che «inali zaffate alcoliche che alla fine ti gira la testa». Di sicuro non si può negare ai gregari una grande autoironia: nel suo contributo a Il diario del gregario (Ediciclo Editore) Bruseghin dice che «la maglia rosa non la indosserei nemmeno per vedere come sto. Per pudore. Per imbarazzo. E per non sembrare blasfemo». E in questo senso, rivedendo le immagini di quella edizione, fa impressione vedere la leggerezza di Scarponi prima di dannarsi l’anima al Giro 2016 sul Colle dell’Agnello, la Cima Coppi di allora.
L’importanza dell’apporto del pubblico è sempre vitale. Spingi me sennò bestemmio, del resto, è ispirato alla leggenda di Dino Zandegù, che rivolse quella frase ad un prete, unico spettatore in un difficile tratto in salita dove si erano attardati Zandegù e un altro corridore; effettivamente pare che Zandegù, grazie a quella “minaccia”, persuase il prete ad aiutarlo. Una caratteristica chiave del ciclismo, infatti, è che, a differenza di quasi tutti gli altri sport, in cui il pubblico sta in tribuna (nel calcio, ad esempio, è frequente sentire che “non si è mai visto il pubblico segnare un gol”), il pubblico non solo ti incita, ma è con te e ti aiuta fisicamente, il pubblico partecipa.
A questo proposito, è particolarmente significativo un altro momento di Wonderful Losers, che riguarda nuovamente la vita di Daniele Colli e si riferisce all’anno in cui il Giro passava molto vicino a casa sua. Era partito con una brutta frattura, che si era procurato in una gara di preparazione, ma il desiderio di salutare la famiglia era talmente forte che ha stretto i denti per due settimane, pur di arrivare lì. Il padre, commosso dopo il suo passaggio, lo definisce un “vittorioso”.
Una lunga attesa per un momento fugace, un attimo per un corridore che passa a 40 km all’ora; un piccolo segmento di gara che dura niente e vuol dire tutto per Daniele Colli.
Il padre di Daniele Colli compare anche un paio di scene prima, intervistato in ospedale mentre si prende cura di suo figlio, quando ancora non riusciva a muoversi dopo l’operazione al bacino: «Non è la prima volta, ci sono stati anche i problemi al ginocchio e al tendine. Per noi ormai è una routine accudirlo».
I parenti sono dentro la competizione, una corsa di rilevanza mondiale. Ne fanno parte, ne costruiscono lo spettro emotivo. In qualche modo, ne determinano il risultato e sottolineano la natura del ciclismo come sport del popolo, con un’identità antica e profonda. Le sue radici sono immutate, e alla luce di queste immagini l’epoca in cui si ascoltavano alla radio le imprese di Coppi e Bartali non sembra poi così lontana.
Nel bel documentario realizzato da Rai Sport “Nel nido dell’Aquila - a casa di Michele Scarponi”, Marco Scarponi, fratello di Michele, sottolinea come il ciclismo sia «uno sport legato alla terra, alla strada, che ti passa davanti a casa. Il rapporto con la propria terra è tutto. Michele aveva capito che restando a vivere a Filottrano (dove è cresciuto, dove abita la sua gente) avrebbe dato un senso enorme a ciò che faceva, a ogni sua pedalata». Poco dopo richiama anche la loro origine contadina: «Siamo cresciuti nei campi, da lì vengono i nostri nonni. Abbiamo un modo di rapportarci con gli altri molto sincero. I nostri genitori e nonni ci hanno insegnato che stare insieme è il senso vero della vita».
In una scena dal sapore mistico di Wonderful Losers, davanti al fuoco in una notte tra le gelide montagne dell’Andorra, Svein Tuft è molto preciso nel definire l’importanza di pensare a un contesto collettivo nel ciclismo, specialmente da giovani: «Nel mio mondo tutti cercano di essere perfetti. Ma non siamo robot, non siamo macchine. Siamo solo esseri umani [...] Credo che per un ciclista sia difficile capire che non tutti gareggino per vincere. È particolarmente difficile per i giovani, perché sono dei super talenti e intorno hanno solo idioti che gli dicono cose meravigliose. Nessuno dà loro i mezzi per fare le altre cose importanti nella vita che possono cambiarli; non solo per se stessi, ma per le persone che li circondano».
Maglie nere, exploit personali
Nonostante una vita di sacrifici per gli altri, i gregari non disdegnano certo delle piccole soddisfazioni esclusivamente personali. Partiamo dal lato comico della cosa: il modo migliore per distinguersi e uscire dall’anonimato per anni è stato indossare la maglia nera, destinata all’ultimo in classifica durante il Giro d’Italia. Nel 1979 Bruno Zanoni fu l’ultimo ad avere questo “privilegio”: «La gente mi riconosceva. Adriano De Zan mi citava nelle telecronache, i giornalisti mi intervistavano alla partenza, anche perché certe volte quando arrivavo loro avevano già scritto l’articolo».
In aggiunta a un riconoscimento in denaro, la maglia nera poteva valere i premi più disparati: due settimane di villeggiatura a Forte dei Marmi, un materasso Permaflex, cento chili di caffè, un fucile da caccia Beretta, una serie completa di pentole da cucina.
La maglia nera era così ambita che se ne facevano di tutti i colori per mantenerla. Il pioniere della lentezza è stato sicuramente Luigi Malabrocca: si nascondeva nei fienili, nelle cantine, oppure entrava nei bar e si fermava lì per ore. Pare che una volta si nascose pure in un pozzo. Lucillo Lievore invece arrivò ultimo al Giro del 1971 grazie a una strategia elaborata da un telecronista: ogni giorno andava in fuga all’inizio della tappa, sicuro che le telecamere lo avrebbero inquadrato, garantendogli qualche minuto di celebrità; Lievore consumava tutte le energie e mollava appena veniva raggiunto dal gruppo, assicurandosi l’ultimo posto.
Anche quando raccontano di essere arrivati ultimi, i gregari rivendicano l’orgoglio per essere riusciti ad arrivare in fondo, e quindi sempre prima dei ritirati, magari in una tappa mitica per l’impresa di un capitano, per delle condizioni meteo proibitive. Semplicemente per dire “io c’ero”.
Oltre alle vittorie “dal basso”, però, ci sono anche quelle propriamente dette, come quella di Eros Poli, gregario col fisico da rugbista che nel Tour del 1994 ebbe un’idea che stava sul sottilissimo confine tra il trionfo e il suicidio: andare in fuga sul Ventoux, tappa regina del Tour, una montagna durissima da scalare (non a caso i valorosi che compiono una particolare impresa su questa montagna entrano nella “confraternita dei matti” del Monte Ventoso). Poli staccò tutti e una volta in cima si buttò a peso morto in discesa, perdendo scientificamente un minuto a chilometro. Vinse la tappa. A quattro minuti da lui, secondo, arrivò Marco Pantani.
Più recentemente, la vittoria di Paolo Tiralongo al Giro del 2011 è uno degli esempi maggiormente impressi nella memoria collettiva ciclistica. Secondo Edita Pučinskaitė, ex ciclista lituana di fama mondiale che ha collaborato alla lavorazione di Wonderful Losers, «il ciclismo è come la vita: se lavori duro prima o poi ti restituisce tutto».
La prima vittoria di Tiralongo, a 34 anni, spiegata con le immagini della corsa anticipate da delle elegantissime scritte in Comics Sans MS, come nelle peggiori slide di questo mondo.
Le tre vittorie di tappa in carriera hanno sicuramente fatto un piacere immenso a Tiralongo. Eppure gli exploit personali, bellissimi e inattesi, non coincidono con le “vittorie” più importanti di un gregario. C’è qualcos’altro che“muove un gregario”, anche letteralmente visto cosa si costringono a fare per tutta la loro carriera.
Scoprirsi
Ci sono tre gregari, in particolare, che mi hanno restituito questo sentimento, che mi hanno permesso di guardarlo da dentro per capire cosa ti spinge a correre tutta la vita senza avere la vittoria come ricompensa. Il primo è Patrizio Gambirasio, secondo cui «il ciclismo insegna a scoprire il mondo, a conoscere se stessi e gli altri, soprattutto a fare fatica. Imparata quella, le fatiche della vita sembrano meno crudeli e più sopportabili». L’esperienza da gregario sembra poter temprare un essere umano in maniera più diretta rispetto ad altri sport, mettendolo alla prova su una grande varietà di piani emotivi e relazionali, schiantandogli addosso le gioie e i dolori della vita, preparandolo a tutto.
Il secondo è Màrico Ronchiato: «Si sapeva di qualcuno, i più forti, che si facevano seguire da un medico. Io volevo farcela con le mie forze, con la mia volontà. E volevo vincere su di me, con me, per me. Nessun eroismo. Mi aiutò a capirmi». Infine Giuseppe Fonzi: «Non ho mai pensato di mollare e non mi sono mai detto “chi me l’ha fatto fare”. La risposta la conoscevo già: a farmelo fare, sono sempre stato io.»
Chi sceglie la strada del gregario deve rispondere con una fortissima urgenza alle domande che lo attanagliano: cosa sono capace di fare? Quanto sono disposto a soffrire per aiutare gli altri? E cosa sono disposti a fare gli altri per me? Mi torna in mente una frase di Adriano Malori, compagno di Scarponi e Cunego, ritiratosi a soli 29 anni dopo un brutto incidente: «Io non ho sogni nella vita, solo quello di scoprire i miei limiti».
I gregari hanno bisogno di confrontarsi con tutto questo. Il contesto intorno a un corridore sembra meno influente rispetto a quello che circonda atleti professionisti di altre discipline. Sembra che ci siano meno distrazioni, che ognuno sia concentrato quasi esclusivamente su queste domande: come posso trovare una buona relazione con me stesso e con gli altri? Come posso crescere?
Per volersi scoprire ci vuole grande coraggio, ma una volta identificata questa esigenza, non ci si può tirare più indietro, altrimenti ci si sente immobili, incompleti. E la fatica, in questo discorso, è un passaggio doloroso ma inevitabile. Bruseghin coglie questo aspetto meglio di tutti: «Con la fatica abbiamo un rapporto di amore e odio: se possiamo la evitiamo, ma quando la evitiamo, poi ne soffriamo. La bici ti da la possibilità di conoscerti e studiarti».
Queste parole mi fanno ripensare all’immagine di me a vent’anni sul divano. Mi sono svegliato a mezzogiorno, come ho fatto per tutta la settimana, frequentando l’università solo di pomeriggio. La sera prima ho visto due film che conoscevo a memoria. Accanto a me c’è ancora mio padre, il televisore è acceso. Vedo dei ragazzi di qualche anno più grandi che attraversano l’Italia in cerca di risposte; gregari che si stanno consumando fisicamente per trovare il coraggio di guardarsi dentro.
Rivedo l’immagine di me a vent’anni sul divano, arroccato in qualche debole certezza; ancora per molti anni, di me stesso, non avrei saputo niente.