Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Inseguire l'adrenalina, intervista a Gregorio Paltrinieri
12 giu 2023
Abbiamo parlato con uno dei migliori nuotatori italiani di sempre.
(articolo)
20 min
Dark mode
(ON)

A 28 anni, Gregorio Paltrinieri conosce il sapore del successo come pochi, pochissimi altri nuotatori italiani (ce lo ricorda il record di medaglie iridate sottratto a Federica Pellegrini) e non, in attività e non. Uno che sa “di essere uno dei nuotatori più forti di sempre”. Con dodici mesi di grandi appuntamenti all’orizzonte, tra i Mondiali 2023 di Fukuoka e le Olimpiadi 2024 di Parigi, ci siamo fatti raccontare da Greg come sia vivere da dentro tutto questo. Se sia possibile, in qualche modo, “viversela bene”, per usare parole sue; oppure se le pressioni, le aspettative e il carico di allenamento siano troppo ingombranti per riuscirci davvero. E dove si trovino le motivazioni per nuotare tanto forte e tanto a lungo, per quattro Giochi olimpici da protagonista. Cambiando disciplina? Rivedendo lo stile di gara? Mettendo in discussione se stessi, nonostante tutti quei successi alle spalle? Scelte che Greg ha avuto il coraggio di compiere, perennemente in bilico tra un’insaziabile fame agonistica e la consapevolezza che godersi il viaggio sia importante quanto la destinazione. Qualunque essa sia, Olimpo del nuoto incluso.

Greg, sei il nuotatore italiano con più medaglie di sempre ai Mondiali: ti fa effetto sentirlo dire, o ti sei abituato? Insomma, riesci a realizzare tutto quello che hai fatto?

Penso che il libro sia ancora un po’ da scrivere, e io sono uno abituato a tirare le somme soltanto alla fine. Me lo sento dire spesso, ma non ci penso molto, anzi. Certo, fa piacere e sono consapevole di essere uno dei nuotatori più forti di sempre, ma riesco a rimanere concentrato sulle piccole cose nel quotidiano per tenermi in forma, per continuare a migliorare. E in questo momento non serve a nulla quantificare il mio valore. Per come sono fatto, quindi, credo che me ne renderò davvero conto soltanto a fine carriera.

Dopo tutti questi anni di successo, senti che quella spinta interiore sia cambiata

No, dal punto di vista delle motivazioni non è cambiato niente. Anzi, nel corso degli anni la spinta è cresciuta, vincere mi ha fatto venire ancora più voglia di vincere. Perché quando provi un’emozione del genere, che hai inseguito per tanto tempo e che ti rende così orgoglioso, non sei sazio: senti il bisogno di riuscirci ancora per stare bene con te stesso. Non è davvero cambiato molto rispetto al Gregorio sedicenne che voleva fare bene e raggiungere risultati importanti.

E risultati così importanti, a 16 anni, li avresti mai immaginati?

Sicuramente ci speravo, ma vincere così tanto e stare a questo livello così a lungo, onestamente, no. Ho sempre pensato in grande e ci ho sempre creduto, ma non ho mai dato per scontato di riuscirci e non ho mai pensato che fosse facile. Però sapevo di averne le possibilità, ed è il motivo per cui mi sono alzato ogni giorno e ho fatto tante rinunce in altri ambiti della vita. L’ho voluto fortemente, questo sì. E ne sono orgoglioso.

Ci sono stati dei momenti in cui hai vacillato nella sicurezza di voler fare questa vita?

Mi sono sempre sentito molto sicuro per quanto riguarda l’aspetto agonistico. Mi piace la sfida, mi piace mettermi in gioco, sicuramente dal punto di vista emozionale non ho mai vacillato né pensato che la mia vita potesse essere un’altra. Questo però non vuol dire che non ho avuto dei momenti difficili, ce ne sono stati tantissimi. Ho avuto dei periodi in cui le cose non andavano come volevo, in cui non riuscivo a mettere in pratica quello che facevo in allenamento… ma succede in ogni lavoro, credo sia normale e faccia parte del percorso. A volte ti senti a bomba, altre ti senti perso e finisci per mettere in discussione ogni cosa della tua vita, ma non ho mai davvero vacillato nella convinzione di voler fare tutto questo.

La ricerca di nuovi stimoli ha contribuito, e in che misura, al tuo tuffo nelle acque libere?

Al 100%, lo stimolo di riuscire a reinventarmi è stato fondamentale per me e credo sia stato uno dei momenti chiave della mia vita da sportivo. A me è sempre piaciuta molto la vasca, e ci ho raggiunto dei grandi risultati, però quando fai una cosa così ripetutamente e così tante volte, a un certo punto non è più abbastanza. Sentivo di dover provare qualcos’altro e di voler dimostrare a me stesso che ne sarei stato in grado. Il fondo è davvero uno sport diverso: si tratta sempre di nuotare, ma rispetto alla vasca cambia il mondo. È come pallavolo e beach volley, stesso gioco ma dinamiche completamente diverse. Ho pensato: voglio buttarmi lì e vincere anche lì, questo era il mio obiettivo ed è stato uno sprone incredibile.

Le acque libere piacciono sempre di più ai nuotatori, ma ancora poco al pubblico. Perché?

Il nuoto in acque libere si conosce ancora relativamente poco, ha una storia meno importante e a livello televisivo è più complicato rispetto alla piscina. La tecnologia usata per riprendere le gare non manca, tra droni e quant’altro, però per lo spettatore può essere ancora un po’ difficoltoso godersi lo sviluppo della gara. Non è il Giro d’Italia, con le macchine a fianco ai ciclisti, in acqua è più complesso muoversi. Con il pubblico comunque siamo ancora agli inizi, magari tra una ventina d’anni tutti nuoteranno in mare e sarà la disciplina più seguita.

E lato nuotatore, com’è?

Effettivamente quando lo si scopre ci si diverte un sacco. Ne ho parlato con tanti colleghi che si stanno avvicinando al fondo e la pensano come me. La mia esperienza è quella di chi arriva da uno sport al chiuso, in piscina, abbastanza monotono e certe volte noioso, in cui fai avanti e indietro tra quattro mura… e poi si trova a nuotare nei posti più belli al mondo. Io ho nuotato in posti incredibili in Brasile, in Sardegna, in Sicilia. L’anno scorso abbiamo portatoDominate the Water addirittura nel golfo di Positano. Posti assurdi, e nuotare lì è una figata. Devi prepararti duramente, perché lo sforzo richiesto è molto, però sì, è una sensazione liberatoria rispetto alla piscina.

Ti aspettavi i risultati che se riuscito a ottenere in mare?

È un po’ lo stesso discorso di prima. Ci speravo tanto ed ero consapevole delle mie possibilità, forse addirittura in modo un po’ spavaldo. Pensavo di essere abbastanza forte da poterci riuscire, però non è stato un processo immediato, ci sono stati due/tre anni in cui non vincevo niente. Che visti da fuori non sono tantissimi, però io non riuscivo a farmi una ragione del perché continuassi a perdere. In vasca ero ancora il più forte, però quando mi buttavo in mare, in fiume o in lago, il mio nuoto non contava più. Quello che sapevo fare non bastava, dovevo migliorare e trovare altre strade. Due o tre anni possono essere lunghi, vissuti da dentro.

Praticamente hai dovuto reimparare a perdere, in un certo senso hai quasi cercato quella sensazione.

È una questione caratteriale, di come sono fatto. Non è che mi fossi abituato a vincere, mi piaceva ancora e mi piaceva tanto, e poco cambiava che fosse in piscina o in mare. A me piace la sensazione di potercela fare, di competizione pura: siamo i migliori otto nuotatori al mondo uno a fianco all’altro, e vediamo chi vince. E questo lo provo anche quando gioco a Cluedo con gli amici, eh. Quindi, ecco, non mi ero abituato a vincere, però la sfida successiva era dimostrare a me stesso di non essere un nuotatore monodimensionale. Spaziavo già tra due gare in piscina, ma avevo bisogno di qualcos’altro per vedere dove sarei potuto arrivare, sentivo il bisogno di testare i miei limiti come sportivo. In piscina facevo gli 800 e i 1.500, gare da otto minuti e un quarto d’ora, mentre in mare la 10 chilometri dura due ore. È una maratona, e sentivo una forte attrazione verso questa sfida.

In passato erano due mondi molto distanti tra loro, oggi meno. Come mai?

Fino a dieci anni fa era impensabile che uno potesse fare sia nuoto che fondo, perché le preparazioni erano molto diverse. Allenarsi in piscina o in mare cambiava tanto. Come in ogni sport, però, le innovazioni degli ultimi anni hanno aperto nuove possibilità.

“Nuove possibilità”, come quella di diventare il primo a vincere un oro olimpico sia in vasca sia in mare: è un record a cui pensi?

Solo un nuotatore nella storia era riuscito a fare doppia medaglia olimpica in piscina e in mare, Oussama Mellouli (Pechino 2008 e Londra 2012), che è stato uno dei più grandi fondisti di sempre. Mellouli ha dimostrato che era possibile fare entrambi gli sport con un’unica preparazione, ma dopo di lui non l’ha più rifatto nessuno per un po’ di tempo, finché non siamo arrivati io e Florian Wellbrock che ci siamo lanciati in questa sfida. Io venivo da tanti successi in piscina, mentre lui è partito direttamente così, e alla fine siamo riusciti entrambi a ripetere l’impresa della doppia medaglia. Come dici, però, nessuno è ancora riuscito a fare doppio oro. Ogni tanto ci penso, sì. Sarebbe un sogno, davvero una figata. So che è difficilissimo, quasi impossibile, però è l’obiettivo per cui mi sto allenando per Parigi 2024.

A proposito di record: nella tua carriera, quanto hai pensato ai record del mondo? È mai stata un’ossessione, o conta solo il colore della medaglia?

Direi che non è mai stata un’ossessione. La priorità è sempre stata vincere, e non ho mai visto nel record del mondo una cosa che dovevo assolutamente fare, ma come una cosa in più. Mi è capitato in un solo momento di pensarci tanto, di scervellarmici: alle Olimpiadi di Rio. Pensavo di poterlo battere, mi ero buttato in acqua pensando che ne sarei uscito con il nuovo record del mondo, ma non ci sono riuscito. E alla fine, per questo, non mi sentivo totalmente soddisfatto dalla medaglia d’oro. Ma è stata l’unica volta in cui ho avuto un pensiero del genere, in tutte le altre occasioni ho solo pensato alla medaglia, a battere gli altri. L’essenza della gara alla fine è quella, non i record.

In passato hai raccontato che, una vittoria dopo l’altra, hai avuto la sensazione che i tuoi risultati venissero dati per scontati, facendoti diventare “prigioniero di un obiettivo da raggiungere”. È una sensazione che avverti ancora?

Era davvero così, a un certo punto. Non perdevo un 1.500 da tanto tempo e sentivo che vincere fosse diventato quasi un dovere, qualcosa che dovevo a qualcuno. Finché senti la gente dire questa cosa, ti può anche scivolare addosso; ma quando davvero ti convinci di non poter perdere, allora inizi a fare errori, ad essere arrogante, a non prenderti cura dei dettagli come dovresti, e soprattutto a non vivere bene quello che fai. Negli ultimi anni invece, per quanto la mia immagine si sia ulteriormente elevata, la competizione nei 1.500 si è alzata di livello e io ormai parto quasi da underdog. Non sono mai l’atleta più forte tra gli otto partenti in una finale, e questa situazione mi sta piacendo onestamente. Ci sono continuamente dei nuovi ventenni che vanno fortissimo e io sono un eroe decadente che pare a un passo dall’essere sconfitto una volta per tutte. L’anno scorso è stato palese ai Mondiali: io sapevo di essere in forma, ma è bastata una gara fatta male - la prima tra l’altro, gli 800 - per sentir dire che ormai ero distante dai più forti, e che dovevo farmene una ragione. Per me però non era così, non mi bastava raggiungere la finale: volevo ancora vincere… e ci sono riuscito, quindi forse avevo ragione.

A proposito di pressioni e “fallimenti” nello sport: so che sei appassionato di NBA, vorrei sapere cosa pensi delle parole di Giannis Antetokounmpo sulla stagione dei Bucks e sul loro “fallimento”. È un discorso che senti tuo? Cosa hai pensato, ascoltando quelle parole?

Ho pensato che dire certe cose fosse un po’ a favore di telecamera, onestamente. Capisco il senso di quello che voleva dire e credo che sia giustissimo, se guardo al significato profondo delle sue parole ha senza dubbio ragione. L’insegnamento è corretto, perché non c’è reale sconfitta se dai tutto te stesso per qualcosa. Io poi sono uno che considera il viaggio, e riuscire a goderselo, più importante ancora che la meta. Allo stesso tempo, però, in un contesto altamente agonistico in cui si viene valutati dai risultati, tanto dagli altri quanto soprattutto da se stessi, io la vedo più come Kobe Bryant: o vinco, o per me è un fallimento. E penso che se tu giochi nei Milwaukee Bucks, sei il giocatore più forte del mondo, entri nei Playoffs con il primo seed e poi esci al primo turno… beh, è stata una delusione enorme. Poi magari non era neanche colpa di Giannis, che non era al meglio fisicamente, sia chiaro; però in un gioco in cui o vinci o perdi, se perdi in quel modo è un fallimento. Senza che questo debba togliere niente alla tua carriera, al giocatore.In ogni caso, ammiro come lui sia riuscito a elaborare filosoficamente la sconfitta: se parlate con me dopo una brutta gara, io sono una bestia, sono l’opposto di Giannis. Non mi sentirete mai dire parole del genere, perché non fanno parte del mio modo di essere. Sono intransigente con me stesso e se le cose non vanno come voglio mi incazzo, forse anche più del dovuto, ma è come sono fatto. E non ho paura di dire che una gara è stata un fallimento, se penso di essere andato male. Al di là di tutto questo, poi, Giannis ha fatto un brutto paragone e ha messo in una brutta situazione il giornalista che gli aveva fatto quella domanda. E onestamente mi è spiaciuto per il giornalista, perché stava facendo il suo lavoro e tra l’altro gli ha detto quello che tutti pensavano, cioè che quella dei Bucks fosse un’annata fallimentare. Il paragone col giornalista non c’entra niente, perché è impensabile che uno lavori ogni anno per una promozione, mentre Giannis lavora ogni anno per vincere il titolo. Insomma, capisco il significato del suo messaggio e lo condivido, ma non credo abbia senso tutto quello che ha detto, almeno per me. È un bel messaggio e un esempio positivo quello che ha dato, però non credo che il giornalista abbia esagerato parlando di “fallimento” e non credo che lui avrebbe dovuto rispondere così.

Un fallimento della tua carriera: se ti chiedo una gara che vorresti rifare, a quale pensi?

Ricordo varie brutte gare, ma sicuramente quella che mi ha fatto stare peggio è stata l’800 ai Mondiali di Budapest nel 2017. Sono arrivato terzo, ho preso anche medaglia, ma la mia percezione quel giorno era che potessi andare veramente forte. Preso troppo dall’istinto, sono partito molto forte e ho esagerato in modo gigantesco rispetto a quello che potevo fare. L’ho proprio gestita male, ed è un peccato perché mi sentivo bene, e infatti due giorni dopo ho vinto i 1.500 e fatto 14’35”, un tempo della Madonna. Quella gara negli 800 è stata brutta perché era l’anno post-olimpico, dopo aver vinto l’oro a Rio, e nella mia testa c’era l’idea che se non mi fossi riconfermato in quei Mondiali, sarebbe iniziato il mio declino. Mi sembrava fondamentale riconfermarmi, e ai tempi non facevo ancora fondo. Per quanto ci ero arrivato preparato e carico, è stata una gara completamente sbagliata, troppo istintiva e poco razionale. Quel giorno mi ha insegnato tanto, ho capito che i dettagli fanno la differenza e che si può mandare tutto all’aria con poco. Stavo bene, ma ho sbagliato la gestione e sprecato un’opportunità.

È nata lì la spinta per imparare a gestire diversamente le gare? E anche qui: quanto ha a che fare questo cambiamento con la ricerca di nuovi stimoli?

È un processo partito per motivi strategici, ma anche gli stimoli c’entrano, sicuramente. Un po’ e un po’, diciamo. Io di istinto sono diverso rispetto a quello che sto provando a fare ultimamente, sono un cane: parto, do tutto e finché ci sto, vado. Ho sempre vinto così le gare in questi dieci anni, tenendo un ritmo molto sostenuto da subito e mettendo gli altri in difficoltà, perché era un ritmo difficile da tenere dall’inizio. Ma questo anche ai Mondiali dell’anno scorso, dove sono partito molto forte e nessuno è stato con me. Quello è il mio istinto. Però credo sia importante trovare altre strade, avere delle carte in più da giocarmi, anche per potermi adattare a gare che si mettono in modo diverso e in cui sono necessarie strategie diverse. Già da qualche anno sto facendo questo tentativo, a volte cambio il modo in cui gestisco la gara. Penso possa aiutarmi in futuro.

Dopo tanti anni e soprattutto tanti successi, non è scontata la disponibilità a mettere in discussione le proprie certezze.

Per me è un cambiamento quasi più filosofico che tecnico, perché devo cercare di limitare il mio istinto e pensare maggiormente alla gestione della gara, conservando energie per la fine. Non è nulla di trascendentale, ma per me non è semplice da mettere in pratica. Come dici, a 28 anni cambiare il modo di gestire le gare non è automatico.Al di là di tutto, comunque, i riscontri sono stati abbastanza buoni fin qui, ma continuo a decidere di gara in gara la strategia da adottare. Nei Mondiali dell’anno scorso, ad esempio, la posta in gioco era molto alta e ho preferito gestirla come ho sempre fatto. Negli 800 agli Europei di Roma, invece, mi è tornata comoda questa alternativa, per come si stava mettendo la gara: siamo partiti abbastanza piano, poi negli ultimi 400 sono riuscito ad accelerare e vincere in modo diverso rispetto alle mie abitudini. Cerco di essere pronto per avere più opzioni nelle gare importanti.

Quindi ai Mondiali di Fukuoka e poi ai Giochi di Parigi. Come vedi la concorrenza?

La competizione è diversa rispetto al passato, ci sono tanti ragazzi che vanno davvero forte. Nell’ultimo anno si sta dicendo che i 1.500 saranno la gara regina della prossima Olimpiade, perché siamo in tanti forti e con esperienza. E ad oggi, è impossibile immaginare chi vincerà. Siamo almeno in sei che facciamo sotto i 14’40”, e fino a qualche anno fa con un tempo del genere eri sicuro della medaglia, probabilmente oro. Invece oggi ci siamo io, Wellbrock, Romančuk, Wiffen, Fink, Märtens... Quindi sì, la competizione è molto più serrata. Io cercherò di prepararmi in mare e in piscina nel miglior modo possibile, senza un ordine di priorità ma cercando di arrivare pronto per tutte le gare.

E dopo Parigi? Quante bracciate senti di avere ancora davanti a te?

Per adesso non ci sto pensando tanto a dire il vero. Voglio arrivare all’Olimpiade dell’anno prossimo senza pensare a quello che verrà dop, voglio godermela. Perché quando inizi a pensare più in là, al futuro, in qualche modo ti deconcentri, perdi un po’ il focus. Io ad ora sono sicuro di quello che voglio fare a Parigi, poi in effetti verrà il momento di fare delle valutazioni: come starò fisicamente, quanta voglia mi sarà rimasta di faticare così tanto… lo scoprirò. La cosa sicura è che da qui a Parigi ci metterò tutto me stesso per quelle gare.

Michael Phelps in passato aveva raccontato la sua “depressione post-olimpica”. È una cosa che hai sperimentato?

reply]La depressione post-olimpica esiste, ed è dovuta a vari fattori. C’è enorme attenzione mediatica, e del nuoto si parla tanto solo in quell’occasione, ma io credo che il punto principale siano le motivazioni, almeno così è stato nel mio caso. Dopo aver fatto un’Olimpiade c’è la difficoltà di ricominciare e rimettersi in gioco, hai la sensazione che nulla abbia senso e importanza. Se io ripenso alle mie tre Olimpiadi, credo di aver sempre avuto un momento di bassa dopo i Giochi, ma di esserne uscito abbastanza bene tutte e tre le volte. All’inizio hai un po’ un senso di vuoto e ci porti tutte le paure per il futuro, poi la vita va avanti e inizi un nuovo ciclo. Però sì, è un momento strano. Devi ricostruire da zero, la gara importante successiva è lontanissima, quattro anni dopo, e sai che in quel periodo cambierai tanto, cambierà tutto intorno a te. Da un giorno all’altro ti ritrovi a pensare che un obiettivo che ha definito una parte così importante della tua vita ormai è passato, e non sai se e come arriverai alla prossima Olimpiade. È un misto di vuoto, ansia, paura, spaesamento.

Tutte le vicissitudini (leggere: mononucleosi) avute a Tokyo ti hanno lasciato un senso di rivalsa? Ti ha aiutato a superare il vuoto post-olimpico di due anni fa?

Sicuramente sì. Rispetto alle altre Olimpiadi, ne sono uscito pensando di dover ancora dimostrare qualcosa. Se dopo Londra e Rio ero abbastanza appagato dai grandi risultati e a posto con me stesso, dopo Tokyo è stato diverso. Ero arrivato con la voglia di spaccare il mondo, volevo provare a vincere tre ori, poi è andata come è andata e sono andato via con molto meno. Per come stavo fisicamente, ero molto contento di aver vinto un argento e un bronzo, perché se me lo avessi chiesto due giorni prima delle gare ti avrei detto che sarei tornato sicuramente a casa a mani vuote, quindi è anche stata una situazione paradossale. Non sono tornato con la pancia piena, ecco, perché ho gareggiato al 60-70% delle mie possibilità, e non ho potuto esprimere il mio reale valore. Senz’altro mi ha aiutato a vedere il mio futuro come un percorso ancora lungo, a sentire che non era finita lì, e questo è stato d’aiuto per non vivere il vuoto post-olimpico.

Il risveglio del giorno dopo al ritiro: ti fa paura, o è un momento che in qualche modo stai aspettando?

Se ci penso, credo sia più la paura che la voglia di quel giorno, perché temo che mi mancherà l’adrenalina di quello che sto facendo. La mia vita è stata costruita intorno a questo, all’essere performante e sempre al limite, alla continua ricerca di uno stato adrenalinico incredibile. La cosa che mi spaventa è non sentirmi come mi sento adesso ogni due mesi, quando c’è una gara importante e sento la voglia di competere, la spinta a fare il massimo. Questo continuo inseguimento di un’emozione forte credo mi possa mancare dopo aver smesso di nuotare, qualsiasi cosa farò. Sono sicuro che mi mancherà e mi fa un po’ paura. Per il resto, so che c’è un mondo da scoprire per me e quello non mi fa paura, anzi, sono curioso di vedere come sarà.

Ci sono stati dei sacrifici costosi, a livello umano, per poter inseguire questa vita?

Non tanti a dire la verità. Rifarei tutto quello che ho fatto, perché mi ha dato tanto a livello umano, mi ha fatto crescere. Me ne sono andato di casa a 16 anni per andare a nuotare a Roma, poi è stato un susseguirsi di esperienze incredibili. Non ho avuto la crescita ordinaria di un ragazzo normale, ma ho viaggiato tantissimo, ho conosciuto un sacco di persone, ho potuto confrontarmi con persone più grandi di me quando ero ancora adolescente, e tutto questo me lo sono goduto.

E il rovescio della medaglia?

C’è, ovviamente. A tratti mi è mancato avere una vita più tranquilla. Ci sono stati momenti in cui quello che facevo era diventato un lavoro a tempo pieno in cui subivo il peso della responsabilità, l’idea di dover ripagare le aspettative di tante persone molto più grandi e importanti di me, che pretendevano risultati da me. Quando i miei risultati sono diventati così influenti per loro, le aspettative e le responsabilità mi hanno fatto vivere un momento complicato emotivamente.

Quanto si parla della gestione di questi momenti, nel mondo del nuoto?

Mi capita di parlarne con i miei colleghi e in generale è un aspetto di cui si parla. È un ambiente in cui ci si apre su come si sta mentalmente quanto su come si sta fisicamente. Nel mio mondo, almeno per la mia esperienza, non ci sono grosse barriere ad esprimersi in questo senso. E in generale nello sport credo che si è visti ed etichettati meno che in passato come atleti deboli, se ci si rivolge a degli specialisti per avere un supporto psicologico.

Nel tuo caso quali sono le principali difficoltà che hai dovuto affrontare?

Ci sono stati momenti in cui non stavo bene, mi facevo dei problemi e non mi sentivo realizzato. E se adesso è un periodo buono, è perché ho imparato a dirmi e ricordarmi è che quello che sto facendo, lo sto facendo per me. Ogni sforzo, ogni risultato. Prenderla alla leggera, per così dire, è fondamentale per non viversi male le pressioni, il giudizio delle altre persone, quello che si dice di me. Sono cose che non posso controllare e soprattutto sono secondarie rispetto ai miei risultati e a quello che voglio fare. Ora riesco a nuotare in modo più leggero che in passato, cercando di divertirmi e non rendendo le cose più pesanti di quello che sono. Nel nuoto, così come in qualsiasi altra cosa della vita, ci sono tante cose che ti possono condizionare: i pareri esterni ti depistano, e anche se non dovresti darci retta, li senti e lasci che ti portino fuori strada. È una dinamica e un problema che abbiamo sperimentato tutti nella vita. Mi dico e mi ripeto di prenderla alla leggera, perché se ci penso veramente so che è un gioco e che faccio tutti i giorni quello che mi piace. A prescindere dal vincere o perdere, godersi il viaggio è la cosa più importante ed è quello che rimane nel tempo.

Quanto ci hai messo a trovare questa serenità?

Io penso che per ogni cosa ci sia un periodo, e che si impari dalle proprie esperienze prima di tutto. Io quando ero giovane non avevo bisogno necessariamente di parlare con qualcuno, anzi lo avrei trovato abbastanza ingombrante e superfluo; poi, però, sono arrivati i momenti in cui ho avuto bisogno di un supporto, mi sentivo solo e avevo davvero la necessità di parlare con altre persone. Che fossero dei mental coach o anche semplicemente degli amici, che è altrettanto importante. Parlarne aiuta, sempre. Aiuta a sentirsi meglio, a sentirsi più liberi e leggeri. E rispetto a dieci anni fa, credo che oggi sia molto più semplice.

Si ringraziano Francesco Caligaris, Erminio Alessandro Gus e Luigi Razzano per il prezioso contributo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura