Grigor Dimitrov è ricomparso nel deserto californiano una decina di giorni fa. Sui campi di cemento di Indian Wells, con sparute palme sullo sfondo, in un set a metà tra il Coachella e Easy Rider, vediamo Grigor Dimitrov giocare a tennis a torso nudo per celebrare sé stesso. La sua bellezza classica da modello, nato per recitare nelle pubblicità kitsch e massimaliste di Versace. In California fa caldo, ma Dimitrov si piace, e gli piace sentire gli occhi bollenti delle persone che gli stanno intorno. Quindi sbraccia qualche dritto e qualche rovescio con assoluta rilassatezza, prima che una donna dagli spalti gli gridi “You made my day!”, e Dimitrov allora sorride, del sorriso di chi lo sa e non ha bisogno di conferme, e poi risponde, mentre raccoglie una pallina da terra, “No, you you made my day”, e la donna si lascia andare a un “ohh” tutto sciolto che conosciamo. Non sembra lì per amore della competizione ma perché giocare a tennis è il suo lavoro e gli tocca continuare a farlo senza particolare gioia o dispiacere.
È in una strana età di mezzo del declino: troppo vecchio per chiedere ancora qualcosa di grande al tennis, troppo giovane per ritirarsi e dire addio. Nato nel ’91, nessuno meglio di Dimitrov esprime l’idea della Lost Generation, il gruppo di tennisti che avrebbe dovuto raccogliere l’eredità di Djokovic, Federer e Nadal, e che si è poi rivelato un gruppo di pigri e viziati che campano di rendita, oppure un gruppo di mediocri utili solo a fare da cartina di tornasole della grandezza dei big-3, a seconda di come la vogliate vedere. Raonic, Goffin, Cilic, Del Potro, Nishikori. Tra loro Dimitrov era l’unico che portava nel suo gioco qualche germe classicista, così vitale per la sopravvivenza di una certa idea di tennis.
Dimitrov è arrivato a Indian Wells con poco da chiedere, nel momento di maggiore flessione della sua carriera. O forse no. Le sue cadute sono state abbastanza da farci perdere una cognizione della sua parabola, specie nella temporalità lenta del tennis. Già nel 2015 Dimitrov veniva associato a concetti come “stallo”, “delusione”, “spreco”, a uno che aveva infranto l’orizzonte di aspettative. Nel 2016 è stato protagonista di uno dei crolli nervosi più ridicoli della storia recente del tennis. In finale a Istanbul contro Diego Schwartzmann, sotto 5-0 nel terzo set, si è avvicinato alla sua panchina con assoluta calma e ha distrutto una racchetta con un’altra racchetta. Ne aveva già rotte un paio nei minuti precedenti. Si è preso il game di penalità, ha stretto la mano a un sarcastico Mohamed Lahyani e poi si è ritrovato ad abbracciare Diego Schwartzman con grande calore. Ricordatosi che c’era un avversario dall’altra parte della rete, si è reso anche conto di avergli rovinato la gioia pura alla fine del suo primo titolo ATP. «Se fossi stato Diego non mi sarei più rivolto la parola».
Rinascita nel deserto?
Sono passati cinque anni da quel giorno e Dimitrov ha perso la voglia di arrabbiarsi. Ora vive pacificamente la sua nuova dimensione di tennista con poco da chiedere. Quando a luglio, ad Atlanta, ha perso contro il numero 405 del mondo Kevin King, la tristezza pareva l’ordine delle cose. Mentre si allenava a torso nudo, prendendosi i complimenti per la sua bellezza, quelli che riceve da tutta una vita, forse nemmeno lui pensava che a Indian Wells avrebbe vissuto una piccola settimana di rinascita.
Mercoledì sera affrontava il tennista meno battibile di questi tempi, ovvero Daniil Medvedev, fresco vincitore del suo primo slam agli US Open in finale contro Djokovic. Dal 2018 Medvedev ha vinto più partite di tutti sul cemento: 30 più di Djokovic. In questi mesi ha dato l’impressione di aver scoperto un segreto ultimo del tennis sui campi duri. Un equilibrio misterioso tra fase offensiva e difensiva, di fronte a cui gli avversari non sanno bene come comportarsi. Le cose stavano andando secondo copione, finché Dimitrov non si è acceso in un particolare stato di ispirazione che lo rendono uno dei pochi tennisti davvero capaci di tutto. Sotto 6-4, 1-0 con break, gioca un punto in cui mostra il suo repertorio quasi per intero. Ribalta lo scambio con un rovescio di puro polso che atterra all’incrocio delle righe e mette un po’ sulle gambe Medvedev; in quel momento ha una palla da spingere sul dritto, ma all’ultimo cambia idea e gioca una palla corta. Il dettaglio più maligno è il fatto che la palla corta è giocata “inside-out” e prende in controtempo il russo che lancia una specie di grido di dolore; quello ci arriva con uno slice profondo, a cui risponde con un rovescio di controbalzo. Medvedev gioca una volée profonda sui piedi di Dimitrov e il punto pare finito. Il bulgaro però ha un momento di genio e organizza un tweener, un colpo tra le gambe che cade appena oltre la rete e coglie di sorpresa Medvedev, che sbaglia. Dimitrov è tra i pochi tennisti che sembra restituire una spazialità inedita del campo da tennis. È uno di quei quindici capaci ribaltare l’inerzia tecnica ed emotiva della partita, e da lì inizia la rimonta.
Dimitrov comincia a giocare un tennis di una brillantezza tecnica e di una sensibilità creativa che paiono appartenere a un’epoca leggermente diversa di questo sport. Gli highlights della partita della ATP lo descrivono in “GOD MODE”. Medvedev, al suo cospetto, pare sghembo e disordinato, incapace di trovare vincenti, mandato fuori fuoco poco alla volta dal martellamento di slice di Dimitrov. Ha tagliato in back il 70% dei suoi rovesci, costruendo un contesto ipnotico. Con Federer fuori dai giochi, in pochi tagliano un back così efficace nel circuito. Di solito è il russo ad assorbire la violenza dei colpi avversari, o ad appoggiarcisi, e ha trovato poche idee di fronte a un tennista che si è messo ostinatamente a fare il suo stesso gioco. Medvedev, che quando perde assume spesso una posa capricciosa, alla fine del match si è lamentato della lentezza della superficie: «Era come giocare su terra»; poi ha detto una cosa strana: «Non avevo mai perso il servizio tre volte consecutive sul cemento, per farvi capire quanto fosse lenta la superficie». È stato un tema di discussione di questo torneo, quello della lentezza dei campi (a dire il vero lo è quasi in ogni torneo: per qualcuno la superficie è troppo veloce, per altri troppo lenta); Andy Murray l’ha definita “dolorosamente lenta”, come se non riuscisse proprio a non inserire una nota di patimento; Rublev ha faticato a trovare le giuste parole per esprimere quanto la percepisse lenta: «È super, super, super, estremamente lenta» e ha aggiunto che è molto difficile ottenere un vincente. Berrettini, senza rinunciare al tono diplomatico, ha parlato male anche delle palline, evocando quelle che nei campi da circolo vengono definite “caciotte”: «Dopo un po’ diventano molto grandi, con quelle degli US Open avremmo visto un gioco diverso». Di solito a Indian Wells si gioca a marzo e questo spostamento in autunno ha sorpreso i giocatori in negativo, ma non tutti.
È forse anche grazie a queste condizioni, a quest’aria così secca, a palline grandi che rallentano, che Dimitrov ha trovato un ritmo tutto suo, approfittando del fatto che i tennisti più grossi e potenti di lui venissero impantanati in un cemento più lento del solito. Dopo Medvedev ha sconfitto anche il lanciassimo Hubert Hurcacz, strafavorito contro di lui e che pareva in un gran momento di forma. Anche in quella partita Dimitrov si è spinto fino all’orlo del baratro, per poi venirne fuori con soluzioni impreviste e dimenticate. Una capacità di trovare vincenti impossibili nei momenti chiave che non gli è mai troppo appartenuta nella carriera. Quello più incredibile è la volée bassa tirata scivolando alla sua destra, come se grazie a un improvviso processo alchemico avesse davvero trasformato il cemento in terra rossa.
Davvero difficile da credere.
Manierismo
Dimitrov ha ricevuto la sua condanna in giovane età, quando qualcuno ha avuto la grande idea di soprannominarlo “Baby-Fed”. La somiglianza stilistica era difficile da negare: il rovescio a una mano, il dritto giocato con un movimento fluido e semplice, il servizio elegante e composto, la sensibilità del gioco di rete. Non solo questo, ma anche una creatività entusiasmante nelle giornate di luce. C’era ancora qualche speranza che il tennis “modern-retrò” di Federer potesse sopravvivere al congedo del re. Un tennis per molti versi trascorso, superato, inservibile, anacronistico per la violenza di oggi. Cosa ne pensava Dimitrov? Che pressione doveva percepire? Non era chiamato solo a diventare un campione, ma a farlo con più eleganza possibile, pareggiando una delle espressioni estetiche più impareggiabili dello sport contemporaneo.
Quella promessa sembrava finalmente compiuta a Wimbledon nel 2014, quando era riuscito a battere il campione uscente Andy Murray in tre semplici set ai quarti di finale. La sua crescita era stata lenta, ma i giocatori con un repertorio vasto ci mettono di più a mettere insieme i pezzi. Dimitrov aveva 23 anni, un fisico scultoreo, un gioco che pareva disegnato in CGI e una storia d’amore con Maria Sharapova. A Wimbledon poi perse non senza brutalità da Novak Djokovic, e la sua promessa cominciò a sbiadire nel caos dei cambi di allenatori, preparatori, racchette.
Pochi tennisti sembrano così a proprio agio sui prati verdi di Wimbledon.
Col tempo Dimitrov smette di sembrare l’erede di Federer, per diventare al massimo il suo cosplayer, un tennista manierato in grado di replicarne alcuni tratti formali del gioco ma non il suo genio. A un certo momento Dimitrov ha cominciato a sembrarci, come dire, vuoto. Una specie di giocatore decorativo, magnifico per arredare un salotto, un video di highlights o un profilo Instagram.
Nelle interviste pare tenerci proprio ad apparire perfetto e frivolo. Ha vissuto a Parigi, dice di amare Montmartre, è appassionato di moda, racconta che quando è arrivato nel circuito si è preso il suo tempo per capire i suoi gusti. «Non mi piacciono le cose ordinarie. Mi piacciono le cose differenti e uniche. Tutto è nei dettagli». Definisce Anna Wintour «La più grande persona di sempre»; un giorno lei lo ha chiamato per andare a una sfilata a Milano, lui era ancora sul campo «Ma non si dice mai no ad Anna, quindi mi sono fatto una doccia e mi sono messo su un aereo». Dice che non ha mai bevuto alcol nella sua vita, «Una delle storie più fiche che mi riguardano». Non ha nessun timore di sembrare vuoto, e accanto a Maria Sharapova, donna dall’evidente brillantezza, pareva un toy boy: più piccolo di lei di quattro anni, con meno carisma e meno trofei in bacheca. Si erano messi insieme dopo che una sera lui si era presentato a casa di lei con in mano un orsacchiotto di peluche e un mazzo di rose. Alcuni sostengono che quella relazione gli abbia portato via parecchie energie, ma a posteriori quel periodo è stato anche quello più di successo della sua carriera. Dimitrov poi è declinato pian piano; nel 2020 ha preso il Covid-19 e ha faticato a scendere a compromessi con i suoi effetti a lungo termine; oggi ne parla come un sopravvissuto: «Non respiravo bene, ero stanco, non sentivo odori e sapori. A essere onesti mi sento fortunato a essere in campo ora, non lo do per scontato».
Dopo la vittoria con Hurkacz, a Indian Wells, Dimitrov è rimasto l’unico tennista di prestigio in un tabellone sguarnito e tutto pare apparecchiato per coronare la sua settimana di rinascita. Dimitrov però ha fatto quello che fa da tutta la carriera: scogliersi nel momento più inatteso, perdendo in semifinale in modo dimesso da Cameron Norrie. Difficile trovare un tennista più diverso da lui. Britannico nato in Sudafrica con una vita normalissima e un talento difficile da decifrare, un tennis razionalizzato al massimo per aggirare limiti piuttosto chiari. Dimitrov, a braccia alzate, ha fatto tutto da solo, commettendo un numero clamoroso di errori non forzati, non trovando mai il ritmo di fronte a un avversario che invece ha imparato a non sbagliare mai. Norrie poi vincerà il torneo mantenendo ordine e calma di fronte al tennis furioso di Basilashvili.
Della settimana di Dimitrov restano due partite di nitido splendore, e cos’altro? Può essere anche una grande metafora della sua carriera, capace di squarci di bellezza e fragilità nei momenti chiave. Dimitrov a volte pigro, a volte deconcentrato, a volte semplicemente meno forte di quanto volevamo credere. Ma Indian Wells ha anche dimostrato che Dimitrov ha ancora qualcosa da dare al tennis, che può ancora rappresentare di più del semplice involucro di un tennista ideale. Mentre il tenace tramonto dei big-3 spande gli ultimi raggi, e il mondo del tennis comincia ad avvolgersi di una nebbia che rende tutto incerto e precario, Dimitrov potrebbe approfittare dell’oscurità per regalarci un ultimo, splendido momento di grandezza, da qualche parte, prima o poi.