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Grizz & Grind
31 mar 2015
I Memphis Grizzlies, ultimi esemplari di un basket in estinzione, da quattro anni sono ai vertici della Western Conference. Ma si può vincere il titolo NBA giocando "male"?
(articolo)
15 min
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Negli ultimi cinque anni l’NBA sta attraversando una grossa trasformazione. L’evoluzione delle statistiche avanzate e il progressivo cambiamento delle personalità all’interno delle dirigenze di numerose franchigie sta promuovendo sempre di più un tipo di basket ridefinito (in maniera dozzinale, come tutte le etichette) “Pace and Space”, nel quale elementi come i quintetti piccoli, gli spread pick and roll e la creatività dal palleggio—che fino a 10 anni fa giocava quasi solamente una squadra, ovverosia i Phoenix Suns di Mike D’Antoni—la fanno da padrone. La sublimazione di questo percorso si è potuta osservare nelle scorse Finali NBA, durante le quali i San Antonio Spurs hanno divelto i Miami Heat facendoli correre da tutte le parti grazie ad uno straordinario movimento di uomini e palla. Un tipo di basket non solo efficace, ma anche estremamente bello da guardare.

Ovviamente, quando una cosa funziona, il resto della Lega prova a replicarlo, adattando questi concetti ai giocatori a loro disposizione. Ad alcuni questo tentativo è riuscito molto bene—basta osservare il modo in cui i Golden State Warriors stanno prendendo a calci l’intera Lega o come gli Houston Rockets siano riusciti a rimanere nei primi posti di una Western Conference terrificante grazie ad un sistema di quel tipo on steroids—, ad altri un po’ meno, perché il talento dei giocatori è sempre il punto di partenza e di conclusione del successo di una squadra.

Ad ogni modo, il fatto che negli ultimi anni il numero di triple tentate si stia progressivamente avvicinando a quello dei tiri liberi tentati è sintomatico di questa trasmigrazione verso il perimetro dell’NBA contemporanea, se non altro per cercare di muovere e “aprire” delle difese formate da atleti sempre più grossi, più veloci e più resistenti.

All’interno di un panorama del genere, c’è un’enclave che invece gioca un basket basato sull’uso estensivo, continuativo e quasi ossessivo del post basso e della difesa come cardine sopra il quale far ruotare tutto il funzionamento della squadra, della franchigia e della città intera. Di più: non esiste una correlazione tanto forte quanto quella che intercorre tra il modo di giocare di una squadra e il suo nome quanto quella che si trova a Memphis.

I Grizzlies giocano effettivamente come l’animale da cui prendono il nome, che nella nomenclatura trinomiale viene denominato Ursus Arctos Horribilis e viene definito come «assoluto padrone del suo habitat naturale», capace di «sopraffare facilmente qualsiasi animale nel suo territorio», tanto che anche il resto dei predatori, quando vedono un grizzly nelle vicinanze, «consegnano spontaneamente le loro prede». Per sottomissione.

Proprio la parola Horribilis è particolarmente interessante per il nostro discorso: non solo vuol dire “imponente”, come la stazza dei due uomini franchigia, Zach Randolph e Marc Gasol, ma anche "orribile, che incute orrore”, che è esattamente il modo in cui Memphis vuole trasformare ogni contesa. Una partita dei Grizzlies deve essere quanto più possibile brutta affinché loro possano vincere. Un ragionamento di questo tipo andava molto di moda tra gli anni ’90 (avete detto Pistons e Knicks?) e la metà degli anni 2000, quando il basket NBA era diventato talmente brutto (cfr. Finali tra Spurs e Pistons) che la Lega si vide costretta a cambiare le regole sull’hand-check per “aprire il gioco”—migliorando esponenzialmente l’estetica del prodotto (checché ne pensino i puristi dell' “ERA MEGLIO PRIMA!!1!1” come state of mind).

I Grizzlies in quelle Finali si sarebbero trovati perfettamente a loro agio, perché il loro obiettivo non è giocare bene o meglio degli avversari, quanto piuttosto farli giocare male, rendere ogni partita in una battaglia di intensità, nervi e agonismo, farli sentire a disagio e imbruttire (anche nel senso romano del termine) chiunque si trovino davanti. Un tipo di basket che nel Tennessee è stato ribattezzato “Grit & Grind” e che si adatta perfettamente alla mentalità operaia della città di Memphis.

Zach Randolph, che di questo modo di giocare non è solo professore emerito, ma proprio socio fondatore, lo descrive così: «Noi siamo questi: combattivi, orgogliosi, determinati. Noi non siamo belli da vedere. Non corriamo su e giù per il campo ad alzare lob e schiacciare in windmill. Noi siamo nel fango».

Questo è il fango.

La domanda ora è: si può vincere il titolo nella NBA contemporanea giocando sistematicamente male, cioè proprio scegliendo di giocare male, cercando di portare gli avversari ad esprimersi come peggio non potrebbero, trascinarli nel fango e costringerli a batterti nel tuo habitat naturale? È quello che i Memphis Grizzlies, dopo anni di tentativi, devono scoprire quest’anno, perché il tempo sta per scadere.

Grit 'n' Grind Era

Sono ormai quattro anni che Memphis ha lo stesso nucleo di giocatori—Randolph, Marc Gasol e Mike Conley sono nei primi sei posti della storia della franchigia per minuti giocati in maglia Grizzlies—ed è stabilmente la squadra più rognosa della Western Conference.

Ha iniziato a costruire la propria nomea nel 2011 battendo i San Antonio Spurs in sei partite in uno scontro 1 vs 8 ai playoff, prima di essere eliminata dai Thunder al secondo turno.

L’anno dopo è uscita a gara-7 contro i Clippers in uno scontro 4 vs 5, pur avendo il fattore campo a favore; nel 2013 è arrivata fino alle finali di conference, pur perdendo per 0-4 con gli Spurs (ma le due gare centrali si sono risolte solo all’overtime).

L’anno scorso è stata eliminata ancora dai Thunder in una serie assurda, dovendo fare i conti con una stagione martoriata dagli infortuni e senza avere Randolph in gara-7 per squalifica.

In definitiva, vuoi per demeriti o per qualche lucky bounce andato in favore degli avversari: la differenza ai playoff è sempre infinitesimale, Memphis non è mai riuscita ad arrivare alle Finali e a contendere per il titolo, ma è sempre stata lì a giocarsela con le migliori, sia sotto coach Lionel Hollins che con il suo vice Dave Joerger, attualmente capo-allenatore della squadra. E dire che non più tardi della scorsa estate sarebbe potuto finire tutto: il proprietario Robert Pera (un personaggio by his own self) a fine maggio aveva deciso di licenziare due membri del “triumvirato” che gestivano i Grizzlies, ovverosia il CEO Jason Levien e l’assistente GM Stu Lash, mentre il terzo, l’ex guru statistico di ESPN John Hollinger, è rimasto al suo posto insieme a Chris Wallace, riportato al suo ruolo di GM dopo essere stato accantonato per mesi. In una situazione tanto confusionaria, a Dave Joerger era stata data l’opportunità di parlare con i Minnesota Timberwolves per la loro panchina, ma alla fine lui e Pera sono riusciti a trovare un punto in comune e proseguire insieme, mantenendo intatta l’identità del "Grit & Grind" per un altro anno.

I risultati di questa era, dopo tutto, sono stati eccezionali: considerando l’intero anno solare 2014 nessuno ha fatto meglio dei Memphis Grizzlies, che hanno chiuso il periodo tra gennaio e dicembre con un record di 60-23 e hanno aperto il 2015 con un ottimo 18-6, suggellandolo con una vittoria a Los Angeles contro gli odiati Clippers il 23 febbraio.

In particolare, l’acquisizione di Jeff Green dai Boston Celtics sembrava poter rappresentare il definitivo salto di qualità della squadra, che con lui ha vinto 12 delle prime 13 partite giocate, facendo levare sguardi preoccupati dal resto della Lega e confermandosi come seconda forza della Western Conference dietro ai Golden State Warriors.

Difficoltà

Nell’ultimo mese e mezzo, però, i Grizzlies sono visibilmente calati: il tris di sconfitte contro Cavs, Warriors e Spurs dell’ultima settimana è solo il punto più basso di un mese nel quale hanno perso contro Kings, Jazz, Celtics e Pistons in casa, con Mike Conley vittima di un infortunio alla caviglia e un generale calo di concentrazione che ha portato Randolph a definire la squadra «soft»—solitamente il termine “che fa scattare l’allarme” quando un giocatore vuole mandare un messaggio ai suoi compagni.

Il problema è proprio questo: una volta raggiungo il record di 41-14 (miglior partenza della storia della franchigia, ça va sans dire) i Grizzlies si sono un po’ seduti, e una squadra come la loro non può mai permettersi di abbassare l’intensità e di “gestirsi”, perché non ha abbastanza talento per giocare meglio degli avversari. Tutti i membri della rotazione sono “quality players” che possono dare il loro contributo, ma anche le tre stelle non sono esattamente note per il loro tracotante talento offensivo, anzi.

Mike Conley vive nel perenne limbo tra essere underrated e overrated allo stesso tempo: underrated perché ogni anno viene snobbato dai convocati per l’All-Star Game (avete visto però gli avversari nella Western Conference?); overrated perché, per quanto sia nettamente sopra la media, è a malapena tra le prime 10 point guard NBA (anche qui, avete visto che razza di avversari nel suo ruolo?).

“Zibo” Randolph è un giocatore di culto, ma compirà 34 anni a luglio e ha già giocato quasi 30.000 minuti in regular season, una soglia che hanno raggiunto solo 134 giocatori nella storia NBA. È ancora capace di portare a scuola molti lunghi avversari (è nel 70.esimo percentile tra i giocatori in post) e ha giocato una quantità enorme di possessi in quella situazione (ben 448, quarto in NBA), ma per quanto potrà andare avanti così?

Problemi di deferenza

Soprattutto, quello che deve fare il salto di qualità è Marc Gasol: il giocatore visto a inizio stagione era un più che meritevole candidato MVP, capace di andare sopra quota 30 punti per più volte (4) rispetto al resto della carriera messa assieme (1).

Questa squadra per avere successo ha bisogno che Gasol giochi da miglior centro della NBA, perché ha tutte le qualità per esserlo: non solo è un difensore d’elite (votato come il migliore in assoluto nel 2013), ma è anche una forza immarcabile in post basso (80° percentile su 476 possessi, 3° in NBA) e un distributore di gioco eccellente dal gomito (19.3% di AST%, secondo solo a Joakim Noah tra i lunghi). Gasol è nettamente il centro più completo che ci sia in circolazione in un ruolo che si sta specializzando sempre di più nel fare una-cosa-sola-ma-molto-bene, ma spesso si dimentica di esserlo, risultando fin troppo “egoista” nel suo altruismo.

Ho usato spesso la parola “brutto” in questo pezzo, ma Marc Gasol non è mai brutto. Al massimo un po’ sgraziato. Ma brutto mai. #BasketballPorn

Questa poca “decisione” nell’imporsi a centro area fa un po’ parte del suo heritage europeo e un po’ del ruolo da sempre prioritario che ha avuto Randolph per l’attacco di questa squadra: i loro giochi alto-basso sono l’unico squarcio di bellezza in una tela fatta di spallate e "hustle plays", ma nella distribuzione dell’attacco Memphis (e quindi Marc) è ancora fin troppo deferente nei confronti di Randolph—che è l’anima di questa squadra e sempre così sarà fino a quando sarà in campo, ma spesso ha bisogno di 3-4 secondi per ricevere, girare sul perno, provare qualche jab step e poi decidere cosa fare col pallone in mano, spesso accontentandosi del tiro da fuori. Non esattamente la definizione di continuità offensiva.

In generale, i Grizzlies in questa stagione sono riusciti nell’ottimo risultato di mettere in campo un attacco medio (103.2 punti su 100 possessi, 14.esimi in NBA) grazie allo sfruttamento intensivo di questo tipo di post basso. In una Lega nella quale i giocatori spalle-a-canestro sono sempre di meno, sono secondi per “tocchi” entro 4 metri da canestro (quasi l’inizio di ogni azione prevede la ricezione di uno dei due lunghi in post) e producono 18.1 punti a partita da lì (secondi in NBA dietro gli Spurs), con oltre la metà dei tiri di squadra che viene presa in area (54%). In compenso, sono agli ultimissimi posti per triple tentate—Houston ha segnato più triple dagli angoli (300) di quante loro ne abbiano provate (294)—e quartultimi sia per punti da catch & shoot che nelle percentuali.

Al di là però dei risultati finali, è il processo di costruzione del tiro ad essere farraginoso: i Grizzlies si passano discretamente il pallone (11.esimi per passaggi tentati) ma risultano fin troppo stanziali perché palleggiano poco, muovendo raramente le difese (24.esimi per penetrazioni, solo 19.6 a partita) senza “minacciarle” con il tiro da fuori (penultimi per triple tentate dal palleggio dietro agli Wizards), restringendo quindi sempre il campo e andando a sbattere contro delle difese già piazzate. Gli unici due palleggiatori della squadra, Conley e Jeff Green, possono saltuariamente battere l’uomo in uno contro uno o sfruttando un pick and roll, ma non hanno abbastanza talento per “spaccare” una difesa continuativamente e creare un vantaggio, specialmente quando gli spazi sono così intasati dalla presenza contemporanea di Gasol, Randolph e un terzo lungo “di fatto” di nome Tony Allen, totalmente incapace di tirare. I "beat writer" di Memphis hanno coniato per lui la regola del “5 or 5”, secondo la quale Allen può tirare solo ed esclusivamente se negli ultimi 5 piedi di campo (meno di due metri) o gli ultimi 5 secondi dell’azione. Tutto il resto è da evitare.

Avere una guardia che viene completamente ignorata dalle difese avversarie è un dramma per una squadra che non ha un lungo che apra il campo (a parte Jon Leuer, che è un buon giocatore, ma rimane sempre Jon Leuer), e per questo Allen gioca solo 26 minuti a partita, nonostante il Net Rating con lui in campo segni +10.2, nettamente il più alto di squadra soprattutto in difesa (94.9, i Warriors primi in NBA si fermano a 97.4). Perché se "Zibo" è il padrone del “Grit & Grind” in attacco, Tony Allen in difesa è “The Grindfather”.

“Welcome to the Grindhouse, son”.

La difesa vince i titoli (da sola)?

Negli ultimi cinque anni i Grizzlies hanno sempre avuto una delle prime 10 difese NBA, in particolare per la loro capacità di negare l’area (anche in questa stagione solo 4 squadre hanno concesso meno tiri di loro nei pressi del ferro) e le triple dagli angoli (meno dell’8% dei tiri subiti), costringendo gli avversari a prendersi tiri dalla media distanza (26%), dal resto dell’area (16%) e dalle triple frontali (20%). Soprattutto però sono bravissimi a contestare tutti i tiri degli avversari, senza lasciare conclusioni semplici e senza mai mollare un secondo. In questo Tony Allen è il re assoluto e anima della squadra: il giocatore da lui marcato solitamente tira con l’8% in meno rispetto alla sua media stagionale (!!!), il miglior dato tra i difensori perimetrali NBA. È inoltre uno dei migliori ladri di palloni della Lega (oltre 2 di media) nonostante i pochi minuti giocati—su 100 possessi siamo oltre i 4, solo il compagno Nick Calathes fa meglio di lui. La sua energia è contagiosa tanto per compagni quanto per i tifosi di casa, per i quali è diventato qualcosa di più di un beniamino: il culto è tale che, se mai gli venisse voglia di candidarsi, potrebbe tranquillamente diventare sindaco della città (anche se non sempre è facile sopportarlo, anzi).

Uno dei pochi difetti di questa difesa è che a rimbalzo non è eccezionale: con due lunghi del genere ci si aspetterebbe un dominio maggiore sotto i tabelloni, invece si segnalano solo nella media per percentuale di rimbalzi, sia in difesa (14.esimi) che in attacco (18.esimi). Questo in post-season potrebbe rivelarsi un problema, perché giocando così pochi possessi (i Grizzlies hanno il 4° pace più lento della NBA) ogni rimbalzo acquisisce un’importanza capitale e Memphis conquista meno del 60% di quelli che si procura.

Ma soprattutto, la domanda è quasi filosofica: se il tuo attacco è così macchinoso, può la sola difesa, per quanto straordinaria, farti vincere quattro serie di fila in questa NBA?

◊◊◊◊

In una recente intervista con i suoi ex colleghi di ESPN, John Hollinger ha parlato diffusamente dello stile della squadra, dichiarando: «Noi giochiamo in maniera diversa rispetto al resto della Lega. Abbiamo il personale per segnare in area e in post, ma poi siamo anche capaci di fermare quegli avversari che vogliono aprire il campo. Se decidono di accoppiare Randolph con un 4 che sa tirare, benissimo. Poi però devono anche marcarlo di là...».

In vista dei playoff, per Memphis si gioca tutto su questo sottile filo degli accoppiamenti attacco-difesa: quando i Grizzlies riescono a tenere in campo sia Allen che Randolph, diventano una squadra molto difficile da battere sulle sette partite; al contrario, senza quei due giocatori perdono la loro anima e ridiventano una squadra “normale”. Probabilmente speravano che l’arrivo di Jeff Green riuscisse a dare un’altra dimensione sulle ali, aggiungendo un’ulteriore minaccia sul perimetro oltre alle doti balistiche di Conley e Courtney Lee, ma finora i Grizzlies si sono rivelati migliori senza di lui (-2.7 di Net Rating quando è in campo e +8.6 quando è fuori) con un effetto simile se non peggiore di quello portato dalla firma più importante dell’estate, ovverosia Vince Carter (-1.6 in campo, +4.3 fuori). Due mosse che sulla carta sembrano perfette, ma che nella realtà dei fatti si stanno dimostrando finora piuttosto deludenti.

Soprattutto, è il futuro di questa squadra ad essere in gioco: gli ultimi quattro anni hanno rappresentato il miglior periodo della storia della franchigia, ma il roster sta invecchiando e Marc Gasol è in scadenza a fine anno. Le possibilità che rimanga a Memphis—dove è cresciuto, ha fatto il liceo, ha giocato per tutta la sua carriera NBA e soprattutto guadagnerebbe più soldi—sono molto alte, ma gli Spurs potrebbero offrirgli il centro area del post-Duncan e la possibilità di giocare i prossimi anni con Tony Parker, Kawhi Leonard, il miglior allenatore della NBA, Gregg Popovich, e un sistema perfetto per le sue caratteristiche. Non una scelta semplicissima, mi sentirei di dire.

Una cosa però è certa: pur con tutti i loro difetti, i Memphis Grizzlies non si batteranno mai da soli. Non saranno loro a perdere una partita, ma piuttosto gli altri a doverla vincere: sudando, battagliando e combattendo su ogni possesso.

In regular season questo approccio, unito a quel sistema e quegli interpreti, basta e avanza per vincere un’enorme quantità di partite, come successo negli ultimi anni, ma nei playoff c’è bisogno di qualcosa di più. Quel qualcosa in più che il grizzly può trovare solamente quando è nel suo habitat naturale, dove è «assoluto padrone e può sopraffare qualsiasi animale». Vale a dire “nel fango”, dove i Memphis Grizzlies attendono di conoscere il loro destino.

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