Il nostro calendario associa l’inizio ufficiale della primavera al 21 marzo. Nella credenza popolare degli Stati Uniti, però, è il Groundhog Day—che si tiene tradizionalmente il 2 febbraio e va avanti dal 1887—a determinare quando arriverà la primavera. Funziona così: gli americani (sempre fatti a modo loro, è bene ricordarlo) si ritrovano per osservare il comportamento delle marmotte (“Phil” di Punxsutawney, Pennsylvania, è la più famosa, ha pure la sua pagina Wikipedia) in uscita dal letargo: se quando buttano fuori la testa dalla tana vedono nuvole, la primavera arriverà prima; se al contrario c’è il sole e vedono la loro ombra sul terreno, si spaventano e tornano nella tana, ritardando l’arrivo della bella stagione di sei settimane. Hanno anche calcolato una statistica a riguardo, perché notoriamente nelle università americane hanno tempo per calcolare qualsiasi cosa: Phil azzecca nel 70% dei casi, anche se non tutti sono convinti. Questa tradizione ha ispirato il film Ricomincio da capo con Bill Murray, che probabilmente avrete già visto tutti, ma per i più distratti a casa dico solo che il protagonista si sveglia e rivive lo stesso giorno, tutti i giorni.
Questo preambolo mi serve per dire che la NBA ha la sua versione del Giorno della Marmotta, ed è legata al comportamento dei San Antonio Spurs: negli ultimi quattro anni, è il record dei texani dal 2 febbraio in poi a determinare l’andamento dei playoff. In questo lasso temporale hanno vinto 110 partite e perso solo 35 volte, a partire dal 2012 (36-7, stagione del lockout), con un lieve calo nel 2013 (21-13, ne avevano già vinte 16 su 17 dal 13 al 21 febbraio), 28-7 l’anno scorso (poi campioni NBA) e 25-8 (and counting) quest’anno. Insomma: ogni anno è la stessa storia, arriva il 2 febbraio e i San Antonio Spurs diventano imbattibili. A differenza degli altri anni, però, questa stagione ha un protagonista diverso, e si chiama Kawhi Leonard.
Un lungo inverno di transizione
Dopo il titolo di MVP conquistato nelle scorse Finals, i San Antonio Spurs hanno dovuto riservare un trattamento di riguardo al talento di Kawhi Leonard e hanno inserito nel loro sistema di continuità offensiva dei giochi chiamati appositamente per lui “and let him do his thing”. Lo stesso Manu Ginobili ha detto: «Quello che ha fatto Kawhi è incredibile. Sta giocando con più pazienza e sa che i suoi tiri arriveranno, perciò non deve più forzare per imporsi. Non siamo idioti, siamo noi a doverlo cercare. Abbiamo bisogno che segni così, e lui ora lo capisce».
La novità rispetto al passato è che gli Spurs non hanno mai avuto un “realizzatore” nella posizione di ala piccola: in epoca-Duncan quello era il posto solitamente riservato ai Bruce Bowen del caso, l’epitome del role player tutto difesa & tiro da tre dagli angoli, e i tentativi di cambiare spartito sono spesso finiti male, come testimoniato dal disastroso apporto di Richard Jefferson quando è stato preso per ricoprire quella posizione.
Nei suoi primi tre anni, Kawhi ha svolto alla perfezione quel ruolo (per sua stessa ammissione ha spesso ripetuto che «non ci sono giochi chiamati per me»), ma ora è arrivato il momento che il testimone passi a lui, come ha dichiarato Tony Parker settimana scorsa—«Inevitabilmente diventerà la squadra di Kawhi. Come Timmy l’ha passata a Manu e Manu a me, ora verrà passata a Kawhi» (Parker, con il nasino all’insù tipicamente francese, avrebbe anche fatto notare che non ha più il pallone tra le mani “come agli inizi con Timmy”, ma non gioca ai Cleveland Cavs, perciò meglio passare oltre).
Questo processo di transizione dai Big Three a Kawhi è stato bruscamente rallentato dai problemi fisici del nuovo uomo-franchigia, che a inizio anno ha dovuto fare i conti con un problema all’occhio (che gli ha fatto saltare quasi tutta la pre-season e l’opening night) e poi i legamenti della mano destra, quella con cui tira (che gli hanno fatto saltare 17 partite tra dicembre e gennaio). I problemi dei campioni in carica nei primi mesi di regular season si spiegano anche così: a dicembre hanno avuto il terzo mese perdente (8 vittorie – 10 sconfitte) da quando Duncan è a San Antonio (Anno Domini 1997), durante il quale hanno dovuto affrontare la bellezza di sette back-to-back, quasi sempre contro squadre della Western Conference, raccogliendo anche due dolorose sconfitte al triplo overtime (entrambe!) in casa contro Portland e Memphis.
Notoriamente gli Spurs iniziano a salire di colpi in occasione del “Rodeo Trip”, ovverosia quando vanno in trasferta per due settimane a inizio febbraio perché il palazzetto di San Antonio è preso d’assalto dal rodeo (son pur sempre texani). Quest’anno, per la prima volta, gli Spurs hanno chiuso con un record negativo (4-5) la trasferta dove solitamente fanno capire al resto della Lega che sono ancora la squadra da battere, facendo nascere per l’ennesima volta dei dubbi sulla loro carta d’identità, “perché i Big Three e Diaw hanno superato da un po’ i 30” (e il resto del mondo sembra non accorgersi che il resto della squadra rimane ben al di sotto di quella soglia, ma fa niente).
Anche in questo periodo di transizione, gli Spurs con Kawhi Leonard in campo hanno fatto segnare un Net Rating di +12.7 prima della pausa per l’All-Star Game—il che significa che la squadra che adesso sta prendendo a calci la Lega c’era già anche prima, non è nata dal nulla: semplicemente, non sono mai stati a posto fisicamente (23 quintetti titolari diversi nelle prime 46 partite) per avere l’ennesima regular season dominante a cui ci hanno abituati. Ma non se ne sono mai andati.
Two-way player
Certo, quello che hanno fatto dalla pausa per l’All-Star Game in poi è spaventoso: 21 vittorie e 7 sconfitte (solo Golden State ha fatto meglio), con il miglior attacco (110.6 punti su 100 possessi), la terza miglior difesa (99.1, a un decimo da Memphis seconda), per il miglior Net Rating della Lega (+11.5). Per fare un paragone, gli Spurs dell’anno scorso hanno chiuso post-ASG con dati peggiori tanto in attacco quanto in difesa, e hanno finito per vincere il titolo.
L’ascesa di Kawhi Leonard in quest’ultimo periodo è stata impressionante. Dopo la vittoria del premio di MVP delle Finals ci si chiedeva se potesse mantenere quel livello di gioco per mesi interi, e non per sole tre partite come fatto da gara-3 a gara-5. Beh, questi ultimi mesi ci hanno dimostrato che Kawhi is for real, e non sono tanto le cifre grezze (18 punti, 6.7 rimbalzi, 2.6 assist, 2.6 recuperi con il 52% dal campo e il 36% da tre) a impressionare, quanto l’impatto che ha sulle partite e sulle squadre avversarie.
Negli ultimi mesi Kawhi Leonard è stato il miglior difensore perimetrale della NBA (tanto che potrebbe vincere il premio di Difensore dell’Anno) e uno degli attaccanti più efficienti della Lega (per quanto molto meno reclamizzato di altri). A voler ben guardare, non c’è nessuno che abbia tanto impatto sulle due metà campo: una volta LeBron James giocava così, ma negli ultimi anni ha trattato la difesa con regale distacco—anche perché ha una mole di gioco offensiva enorme da dover sopportare, mentre Kawhi può ancora contare su Parker, Duncan e Ginobili. Vero, ma nessuno cambia il respiro delle squadre avversarie quanto lui: quando è nelle vicinanze della palla, gli avversari devono muoversi con molta più circospezione e “trattenere il respiro” come quando vi immergete totalmente in qualcosa (figurativamente e letteralmente), perché l’alternativa è vedersi scippati del pallone e osservare il numero 2 andare a schiacciare dall’altra parte. Solo una volta uscito dal campo gli avversari sembrano riuscire a rilassarsi e giocare in maniera un po’ più sciolta, tanto è vero che il Rating difensivo degli Spurs passa da 96.9 a 102.1 quando è fuori, il peggior dato di squadra.
Chiedere a Steph Curry e compagnia per informazioni.
Ma che Leonard fosse il miglior difensore perimetrale della NBA lo sapevamo già dagli scorsi playoff. Quello che non conoscevamo era il suo ceiling come attaccante, e tuttora non possiamo esserne completamente certi: negli ultimi mesi ha dimostrato di poter essere un realizzatore efficiente (e la sua shot-chart lo dimostra), ma che ha ancora dei miglioramenti da dover fare per poter essere a tutti gli effetti una Prima Opzione Offensiva su base continuativa, anche per la tendenza ad accontentarsi un po’ troppo del tiro dalla media (quasi il 40% del suo attacco post-ASG) e del fadeaway, solitamente in svitamento (sesta, settima e ottava opzione più frequente del suo attacco), oltre al fatto di non essere un tiratore naturale ma quasi del tutto costruito (al college tirava col 25% da tre).
Detto questo, la varietà del repertorio offensivo di Kawhi—a neanche 24 anni di età, è bene ricordarlo—è spaventosa: è sempre più a suo agio palla in mano, porta in post i difensori meno fisici, in transizione sa giocare sopra il ferro (forse l’unico del roster?), è un passatore molto sottovalutato ma allo stesso tempo non si fa problemi a giocare in isolamento e a imporsi quando la situazione lo richiede (andando anche fuori spartito, perché ora se lo può permettere), creandosi un tiro quando vuole e andando anche in lunetta (6.4 liberi su 100 possessi, ben 3 in più rispetto all’anno scorso), vale a dire la conditio sine qua non per diventare un realizzatore d’élite in NBA. O un candidato MVP per gli anni a venire, se riuscirà a rimanere sano per una stagione intera.
They’re back
Al di là dell’ascesa di Kawhi, però, è anche il resto degli Spurs ad aver cambiato marcia: Tony Parker, dopo aver dovuto fare i conti con la sua dose di infortuni, è finalmente tornato a bacchettare nelle aree avversarie come ai bei tempi; Tim Duncan è ancora capace di andare sul campo dei Rockets, metterne 29 e fare la giocata decisiva su Harden (boh, io non ho più parole); Danny Green è il segreto meglio tenuto della NBA e sta tirando col 69% di eFG% nel post-All-Star Game, oltre alla solita spaventosa difesa perimetrale; Tiago Splitter è il perno che tiene assieme tutto (difende il lungo avversario più pericoloso permettendo a Duncan di pattugliare il resto e non sporca in attacco), tanto da avere un Net Rating di +18.7 post-ASG.
Mettendo assieme questi cinque pezzi, il quintetto titolare degli Spurs è di gran lunga il migliore della NBA tra quelli che han giocato almeno 250 minuti, dando 5.3 punti su 100 possessi a quello dei Golden State Warriors—che, se avete notato, quest’anno han vinto oltre 65 partite.
Ma uno dei segreti degli Spurs campioni l’anno scorso è stato l’impatto della panchina, e anche in questa si è confermata come una delle migliori della Lega. Manu Ginobili, pur in inevitabile calo, è sempre uno dei giocatori con maggior impatto del roster (93.7 Def Rtg con lui in campo post-ASG, migliore di squadra) e rimane essenziale per il gruppo, anche come leadership; Boris Diaw è finalmente uscito dal suo letargo ed è tornato a dominare le operazioni in post alto e in post basso (rimanendo un giocatore unico nel panorama NBA); e il resto della banda ha comunque dato il suo contributo—da Patty Mills (insidiato da Cory Joseph nelle rotazioni) al nostro Marco Belinelli (con meno fiducia rispetto all’irripetibile anno scorso, anche per problemini fisici), fino ad un Aron Baynes estremamente concreto e cattivo sotto canestro.
Ci sono ottime possibilità che questo sia effettivamente l’ultimo giro di valzer per Tim Duncan e Manu Ginobili: il loro contratto è in scadenza e, con le redini della squadra saldamente in mano a Tony Parker e Kawhi Leonard, possono pensare di godersi il meritato riposo lasciando la squadra ad ottimi livelli, specie se in estate arrivasse un giocatore di impatto dai free agent (di Marc Gasol avevamo già parlato qui).
Detto questo, per l’ennesimo anno gli Spurs hanno portato il concetto di “peaking at the right time” ad un altro livello, irraggiungibile per il resto della Lega: se gli Warriors sono stati continui fin dall’inizio, gli Hawks hanno dominato a cavallo dell’anno e i Cavs da metà gennaio in poi, Popovich e la sua banda ha trovato il momento perfetto per arrivare in forma ai playoff che iniziano a fine settimana. Stanno giocando partite competitive da due mesi, hanno buone probabilità di arrivare secondi a Ovest (leggi: evitare gli Warriors fino alle finali di conference), hanno la stessa fame dell’anno scorso e hanno un roster mediamente sano, ad eccezione dell’azzoppato Splitter (che però dovrebbe essere pronto per la post-season).
È lo stesso film che continuiamo a rivedere tutti gli anni: ad un certo punto sembrano vecchi, subiscono qualche sconfitta qua e là, qualcuno inizia a dubitare, poi arriva la primavera e sono di nuovo la solita, meravigliosa squadra che gioca meglio di tutti, pronta a dare l’assalto ad un altro titolo. Vogliamo dire le cose come stanno? Per vincere l’anello, ancora una volta, bisogna battere questi qui.
Per la stesura di questo pezzo si ringrazia Francesco Tonti.