Martin Amis, parlando di John Travolta, ha scritto dei suoi occhi «vicini e azzurrissimi che ti fanno capire cosa si prova ad essere oggetto di un’attenzione totale». Gli occhi di Zlatan non sono azzurri ma vicini sì e anche loro trasmettono una capacità di concentrazione totale, che sarà magari ossessiva, nascerà dalla sua megalomania, ma lo rende una persona penetrante e magnetica. Una persona in grado di convincerci, anche se sappiamo che non è minimamente così, che a lui basta volere una cosa per ottenerla. Per crearla dal niente, anzi. Una persona che si crede Dio, anche se solo fino a un certo punto - fino a rappresentarsi come una specie di Dio che fa a braccio di ferro con il diavolo, che comunque è un punto ben al di là di quello a cui arriverebbe una persona comune - e che per qualche ragione non ci sentiamo di smentire. Ed è a questa sua forza di volontà un po’ delirante, da pazzo che si crede Napoleone e se ne va in giro con la mano nella giacca, a cui noi colleghiamo i suoi successi sportivi. Anche se ci sono ragioni più razionali che lo spiegano, ragioni fisiche, atletiche, strettamente tecniche o legate alle sue scelte di carriera. Non abbiamo il coraggio di smentirlo e soprattutto abbiamo voglia di credergli. Non importa quanto sia grande la bugia che sta provando a rifilarci, noi gli andremo comunque dietro, disposti a goderci i risultati reali, per quanto lontani dalle promesse.
Adesso Zlatan Ibrahimovic ci sta dicendo di essere eterno, di poter giocare a calcio per sempre, e noi facciamo finta che sia così. “Sì Zlatan, credici”, gli diciamo. Ma se ci crede lui - e lui ci crede sempre - ci crediamo anche noi.
Guardare Zlatan Ibrahimovic è stata per noi un’esperienza unica. Certo, lo abbiamo guardato per diciannove anni consecutivi, normale che a un certo punto sia subentrata un po’ di abitudine. Da giovane, prima che i lineamenti gli si assottigliassero e lui iniziasse a portare i capelli legati strettissimi, e il pizzetto, come una specie di Dracula sudamericano, lo paragonavano a Marco van Basten (e van Basten ha detto di rivedersi in lui). Questo perché categorizziamo i calciatori nei codici della grandezza, ma Zlatan va considerato al di là dei successi, della classe, della potenza. Le generazioni che hanno avuto la fortuna di viverlo in diretta, dall’Ajax a questo secondo periodo al Milan, o a quello che verrà dopo, lo sanno bene, e guardano a Zlatan Ibrahimovic prima di tutto come a un freak, uno scherzo della natura che anche se la storia del calcio dovesse protrarsi all’infinito non accadrà una seconda volta nella storia del calcio. In questo senso forse il giocatore del passato a cui assomiglia di più Ibrahimovic è Garrincha: uno zoppo, con una gamba più corta dell’altra, che anche grazie a questo difetto fisico giocava a calcio in modo irripetibile. Tutti i grandi calciatori in un certo senso sono inimitabili, unici, irraggiungibili, ma letteralmente nessuno tranne Zlatan può rifare anche una sola delle cose assurde che ha fatto in questi anni. Perché quelle cose non sono calcio. Non solo, almeno. C’è sempre qualcosa in più e quel qualcosa in più è Zlatan Ibrahimovic.
Foto di Johan Nilson / Getty Images.
A 19 anni ha ricevuto palla fuori area e con un tocco di esterno se l’è alzata oltre i difensori, che ha superato correndoci in mezzo, e poi ha calciato in porta.
A 23 anni, durante il suo primo Europeo, ha segnato un gol di tacco-esterno anticipando Buffon su una palla che rimbalzava in area di rigore, con una traiettoria strana che ha scavalcato Christian Vieri sulla riga di porta. Poche settimane dopo, ha segnato un gol in solitaria dopo aver dribblato otto volte, sempre fintando il tiro, i difensori del Naac Breda e aver messo a sedere il portiere.
A 24 si è lanciato da solo nello spazio controllando un passaggio teso di tacco, ha disarcionato il difensore che provava a stargli dietro e poi, appena entrato in area, ha calciato di esterno destro sotto la traversa, all’incrocio col palo più vicino.
A 25 anni ha calciato al volo da trenta metri tenendo la palla a mezzo metro da terra, troppo forte per il portiere del Palermo. A 27, di sinistro, che non sarebbe il suo piede, ha scavalcato con un cucchiaio da fuori area il portiere della Reggina. Quello stesso anno ha segnato di tacco, su cross teso, colpendo la palla almeno quattro metri fuori dal primo palo; poi ha segnato su una mezza pallaccia arrivata in area, con due difensori dell’Atalanta addosso che ha spostato a spallate, prima di anticipare il portiere in uscita con un colpo di tacco all’angolino.
A 29 anni contro il Lecce ha segnato al volo da quasi trenta metri, con un pallonetto teso di collo sinistro, sul secondo palo. Contro la Fiorentina si è alzato una palla sporca in area di rigore solo per schiacciarla sul secondo palo, con una rovesciata così bassa che è quasi una capriola all’indietro.
A 31 si è disarticolato in aria per segnare in rovesciata da centrocampo, al volo, dopo un rinvio di testa di Joe Hart, in un’amichevole che non avrebbe avuto molto senso tra Svezia e Inghilterra e che invece verrà ricordata per sempre proprio per il suo gol.
Foto di Jamie McDonald / Getty Images.
A 32 anni ha segnato con uno “scorpione”, colpendo al volo di tacco, cioè, un cross spiovente al centro dell’area, col busto piegato in avanti e il proprio piede all’altezza della faccia del difensore alle spalle, schiacciando la palla sul secondo palo con la stessa forza di un tiro di collo. Ha anche segnato anticipando l’uscita del portiere con un calcio frontale, colpendo la palla con i tacchetti del piede; e su angolo, calciando fortissimo con la parte del piede tra tacco ed esterno, mandando la palla sotto la traversa quasi dal limite dell’area.
A 37 anni, su un lancio lungo che lo trova di spalle rispetto alla porta, si è staccato da terra e in avvitamento ha colpito la palla con la suola, con la grazia di un ballerino che fa una piroetta e la violenza con cui Derek Vinyard, protagonista di America History X, schiaccia la testa di un nemico contro l’angolo del marciapiede.
Tutte queste cose le ha fatte con maglie diverse, in campionati diversi, in anni molto lontani tra loro. Quando era ancora solo uno sbruffone odiato dal resto dello spogliatoio e quando era diventato ormai un’icona. E ogni volta sembrava una cosa eccezionale, forse l’ultima che avremmo visto di quel tipo. Se Zlatan si fosse ritirato dopo gli anni ai Galaxy non ci sarebbe neanche bisogno di andarsele a rivedere, tanto abbiamo presente, quando parliamo di Ibrahimovic, quello che è stato in grado di fare. Ma Ibrahimovic è ancora là, senza nessuna ragione al mondo. Senza niente da dimostrare né (probabilmente) soldi da guadagnare per un motivo diverso da quello che guadagnare soldi è sempre un piacere. Di sicuro continua a farlo per il piacere di farsi vedere, per nutrirsi dei nostri sguardi.
Ecco un altro modo di guardare Zlatan Ibrahimovic adesso che ha 38 anni: come uno di quegli ologrammi con cui le case discografiche riportano in vita cantanti defunti per farli esibire di fronte a centinaia di migliaia di persone. Solo che l’ologramma di Tupac, quello di Michael Jackson, quello di Amy Winehouse, non sono in grado di produrre effettivamente qualcosa di autentico, né di sentire alcunché. Zlatan invece a 38 anni, nel suo primo derby di questa nuova vita milanista, è salito fino a 2 metri e 53 centimetri di altezza per prendere una palla di testa ed esultare dopo che Rebic ha trasformato a porta vuota la sua sponda in assist. Solo tre centimetri più in basso di dove aveva colpito la palla Ronaldo contro la Sampdoria lo scorso dicembre. E poi ha segnato un gol tutto sommato facile, di testa, diventando il giocatore con più anni (non riesco proprio a scrivere “più vecchio”, scusate) a segnare in un derby di Milano.
Foto di Stu Forster / Getty Images.
Adesso che ammiriamo Ibrahimovic anche nei suoi gesti più piccoli, come ammireremmo il Mosé di Michelangelo se si animasse anche solo per sgranchirsi le gambe, possiamo guardare alla sua storia da una prospettiva diversa. E quindi ammirarlo in modo diverso. Ibrahimovic è stato l’emblema del giocatore egoista, egocentrico, alieno a qualsiasi sistema, un individuo irriducibile a qualsiasi sistema in uno sport di gruppo. In un pezzo di non molto tempo fa ho scritto che la sua superiorità era «una forma di contemplazione della sua stessa grandezza, Ibrahimovic che medita su Ibrahimovic». Questo d’altra parte è il modo in cui lui si racconta, anche a costo di farci rimanere male qualcuno (tipo quando saluta i suoi ex tifosi americani dicendogli “Adesso tornate a guardare il baseball”). Ed è il modo in cui vive davvero, comprandosi un’isola tutta per lui per andare a caccia, rispondendo male a chiunque abbia provato a mettersi al suo stesso livello. Non è difficile capirlo: è quello che lo ha portato al successo. Perché se avesse dato retta a quel compagno nel Malmoe che gli diceva che erano capaci tutti di mettersi sulla bandierina e palleggiare in faccia agli avversari, noi probabilmente non avremmo visto lo Zlatan Ibrahimovic che conosciamo.
Zlatan sta rifiutando anche la fase nostalgica che accompagna qualsiasi carriera sportiva giunta ormai agli ultimi colpi. Lo rifiuta non solo rivendicando, ancora, le proprie ambizioni. Incazzandosi molto autenticamente perché la sua squadra, in vantaggio 2-0, non gestisce e finisce per perdere il derby 4-2. Ma anche accettando di essere centrale in un modo diverso rispetto al passato, con una centralità che non è una totalità, insomma. Oggi Ibrahimovic si fa trovare al centro del campo per fare da sponda con pochi tocchi (molto diverso anche dal modo che aveva Suso, che ha di fatto espulso dalla squadra, di essere centrale per il Milan) e soprattutto vince i duelli fisici sulle palle lunghe, indirizzando la palla con la punta della fronte verso un compagno, o mettendola giù e ripulendola prima di passarla a un compagno libero. Gestendo e organizzando l’intera metà campo offensiva, mettendo in contatto tra loro i propri compagni - lui che più di ogni altro ha giocato isolato, è stato totalmente autosufficiente. Oggi Ibrahimovic esulta per un assist.
Sarà questa la sua legacy? Quella di un calciatore grandissimo, fuori scala rispetto al calcio in cui si è trovato a giocare, troppo strano tecnicamente e umanamente per essere capito da tutti e che si è avvicinato alla normalità del calcio che vediamo di solito solo quando non ha più potuto essere sempre e solo eccezionale?
Se non fosse sempre lui, se non lo conoscessimo così bene, potremmo pensare che ci sia della generosità nel suo modo di invecchiare. Lasciandosi guardare, lasciando che la squadra si appoggi su di lui. E non è un caso che lo stia facendo in Italia, davanti a quel pubblico che più di ogni altro gli ha restituito, riflessa nei propri occhi, l’immagine che lui voleva proiettare dall’interno della mente all’esterno del mondo reale.
Sì Zlatan, credici. Fallo (anche) per noi.