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Guardiola il politico
25 set 2015
Di come Pep Guardiola sia diventato, nel tempo, il portabandiera dell'indipendenza catalana, non senza qualche ambiguità.
(articolo)
17 min
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Nella Plaça Gran di Santpedor, cittadina a circa 70 km a nord-ovest di Barcellona, a guardare i bambini che giocano a pallone c’è la statua di un ragazzo che suona un tamburo. La statua dà sostanza fisica a una leggenda molto conosciuta in Spagna, e ancor di più in Catalogna: la leggenda del timbaler del Bruc. El Bruc è un piccolo comune alle pendici del Massiccio del Montserrat dove nel giugno del 1808 l’esercito napoleonico venne sconfitto per la prima volta dalle armate spagnole in quelle che viene ricordata dai libri di storia come la Guerra d’Indipendenza Spagnola, quella dei quadri terribili di Goya. Quella battaglia fu importante per tanti motivi, in ordine: perché fu uno degli eventi che cementificò l’identità nazionale spagnola, perché dimostrò la non invincibilità di Napoleone, perché fu una delle prime espressioni del fenomeno della guerrilla.

La leggenda ricorda in qualche modo la battaglia delle Termopili: parla di questo ragazzo diciassettenne messo in fretta e furia a comando di un’armata di duemila uomini non addestrati pronta ad affrontare un esercito regolare composto da quasi il doppio delle unità. Secondo il mito, fu il suono del suo tamburo, amplificato dalle pareti rocciose del Montserrat, a diffondere la paura nelle truppe napoleoniche, facendo loro credere erroneamente che il numero di spagnoli (in realtà un mix di mercenari svizzeri e di volontari catalani) fosse molto maggiore. A El Bruc la statua che lo ricorda porta con sé questa dicitura: «Viaggiatore, […] ciò che è passato ovunque non passò di qui».

La leggenda è talmente famosa che in Spagna ci hanno fatto un film epico.

Il tamburino del Bruc, cioè Isidre Lluçà i Casanoves, è nato a Santpedor nel 1791. In quel periodo i Guardiola vivevano proprio in quel piccolo villaggio di contadini già da quattro anni. Più precisamente è stato Magì Guardiola, quadrisavolo di Pep, a stabilirsi lì per la prima volta: 180 anni dopo, sempre lì, nasce Pep.

Che la storia di Guardiola e dei Guardiola sia così profondamente interconnessa con quella della Catalogna e della Spagna sembra quasi naturale oggi che il tecnico del Bayern Monaco è diventato uno dei più famosi sostenitori dell’indipendentismo catalano e uno dei più grandi simboli viventi della cultura spagnola. In realtà, almeno all’inizio, non era detto che la storia potesse finire così.

Gli inizi

L’amore tra Guardiola e Barcellona non nasce nel calcio, o almeno non solo. Il piccolo Pep non è un tifoso sfegatato: suo padre segue soprattutto la squadra della sua città, il Santpedor, e suo nonno materno, a cui era molto legato, è addirittura dell’Espanyol. Il suo idolo d’infanzia è Michel Platini, un francese che gioca per la Juventus.

La sua attrazione magnetica per il Barcellona e il Camp Nou è dovuta soprattutto all’importanza e alla storia della squadra e dello stadio. Una delle prime volte che va al Camp Nou, nel 1982, non è l’amore per i colori della squadra a farlo rimanere senza fiato, ma l’imponenza dello stadio. In quell’occasione, sussurra a un suo amico: «Non sai i milioni che pagherei per giocare qui». Quando viene incluso nelle giovanili del Barça, dalla sua stanza nella Masia può vedere l’impianto tutti i giorni.

La Masia, al di là dell’evoluzione calcistica, è per lui una scuola intellettuale e, inevitabilmente, politica. Guardiola è un avido consumatore di cultura e in quegli anni inizia ad approcciarsi soprattutto alla musica e alla poesia catalana. I due artisti più amati in assoluto sono Lluís Llach e Miquel Martí i Pol. I due, cantautore e poeta, non sono solo tra gli artisti catalani più importanti del Novecento, ma anche tra i maggiori rappresentanti della Nova Cançó, quel movimento artistico che mirava alla diffusione creativa del catalano in un periodo, quello del franchismo, in cui l’utilizzo di lingue diverse del castigliano in Spagna era esplicitamente represso. Lo stesso Llach visse un lungo esilio in Francia e tornò a Barcellona solo dopo la morte di Franco, nel 1975.

Il Camp Nou come tempio del popolo. Qui Llach canta la sua canzone più famosa, L’Estaca, insieme agli 80mila spettatori presenti. Il brano, composto in esilio nel 1968, è un inno anti-franchista: il regime è paragonato a un bastone (l’estaca, per l’appunto) che «se tiriamo forte, faremo cadere».

Il campione della nazione

Il contesto avvicina inevitabilmente Guardiola alle posizioni dell’indipendentismo catalano. Lo si vede pubblicamente per la prima volta alla fine della stagione 1991/1992: Guardiola ha esordito la stagione precedente ed è già un giocatore imprescindibile per la squadra di Cruijff, grazie a grandi mezzi tecnici e a un carisma innato, è l’anno del Dream Team e della (fu) Coppa dei Campioni, vinta a Wembley contro la Sampdoria. Tornata a Barcellona, la squadra trova un milione di catalani in festa: è la prima volta che il Barcellona vince la massima competizione europea e lo fa da squadra più iconica del calcio spagnolo dai tempi del Real Madrid degli anni ‘50.

Affacciatosi dal balcone dal palazzo della Generalitat, l’edificio che ospita gli uffici del governo della Comunità Autonoma della Catalogna, Guardiola urla alla folla, tenendo la coppa in mano: «Ciutadans de Catalunya, ja la tenim aquí», e cioè: «Cittadini di Catalogna, adesso la coppa è qui». È una citazione di Josep Tarradellas, ex presidente della Catalogna fuggito in Francia a causa del franchismo, che nel 1977, tornato a Barcellona dopo un esilio durato 38 anni, esclamò dallo stesso balcone: «Ciutadans de Catalunya, ja sóc aquí» («Cittadini di Catalogna, sono finalmente qui»). Fu Tarradellas a firmare l’Estatut nel 1979, attraverso cui la Catalogna tornava a essere autonoma dopo decenni di repressione.

Lo storico discorso di Tarradellas dai balconi della Generalitat di Barcellona.

Nella prima metà degli ’90, quando è ormai diventato una stella del Barcellona, Guardiola partecipa a un programma televisivo chiamato Fantastic, prodotto dal circuito catalano di TVE, in cui ogni giovedì sera chiacchiera con un invitato della giornata di campionato appena passata. È Fantastic che permette a Guardiola di conoscere Lluís Llach e viceversa, dato che anche il cantautore partecipa al programma solo per poter incontrare di persona il giocatore. A fine puntata i due iniziano a chiacchierare e Guardiola chiede espressamente a Llach di voler conoscere di persona Martí i Pol. Da questo incontro nascerà un’amicizia duratura tra i tre, che si incontreranno spesso negli anni successivi per parlare di calcio, poesia e musica. Nel 1997 Martí i Pol gli dedica un suo libro, il Libro delle Solitudini.

L’amicizia con Llach e Martí i Pol e le assidue frequentazioni con il resto del mondo intellettuale catalano e spagnolo (tra cui il poeta Segimon Serrallonga e il regista David Trueba) rendono Guardiola un idolo prima per ciò che egli rappresenta, cioè un esponente di fatto della classe intellettuale catalana, e solo dopo per le sue azioni sul campo. O forse sarebbe meglio dire che viene da tutti considerato un artista, allo stesso livello di tutti gli altri, con la conseguenza che le sue opinioni politiche hanno un potere più grande rispetto a tutti gli altri calciatori. Nel 2002 Narcís Comadira, poeta di Girona, scrive l’Ode a Pep Guardiola. La poesia, che ricalca "A un vincitore nel pallone" di Leopardi, descrive l’atleta come simbolo dell’eroe antico che rappresenta le virtù civiche del paese.

È un vestito, però, che sta scomodo a Guardiola, almeno inizialmente: nel maggio del 1994 partecipa al programma La vida en un chip di TV3, l’intervistatore gli chiede come ci si sente a essersi trasformato in un simbolo. Guardiola ha da poco compiuto 23 anni. Risponde quasi infastidito: «Mi si dà troppa importanza, gioco solo a calcio». Chissà se ci crede davvero.

La forza magnetica e il carisma fuori dal comune di Guardiola ricordano quelli dei grandi leader politici del passato: già quando era nella Masia, i compagni lo delegavano spesso come rappresentante nelle occasioni ufficiali. Nel 1992 diventa capitano della Spagna alle Olimpiadi di Barcellona. Nel 1997 sembra in procinto di passare al Parma, con il club di Tanzi ha già firmato un preaccordo. Nella capitale catalana esplode una specie di rivolta popolare, alla sede del club arrivano 30mila lettere di protesta. Alla fine, l’allora presidente Nuñez lo convince a rimanere e, con il suo rinnovo sotto il braccio, vince facilmente la rielezione alla presidenza del Barça.

Dall’anno successivo è capitano della squadra mentre sulla panchina siede van Gaal. Nel 2006 se ne va in Argentina per parlare di tattica con Bielsa e Menotti. Jaume Collell, autore del libro Pep Guardiola. De Santpedor a la Banqueta del Camp Nou, scrive che le sue conversazioni assomigliano a quelle di Fidel Castro: parla anche dieci ore senza mai alzarsi dalla sedia (e non è un caso che Ibrahimovic pensi il contrario: nella sua autobiografia lo ha descritto dicendo che entrando in una stanza piena di gente nessuno noterebbe Guardiola. Forse bisogna avere orecchie per ascoltarlo).

Nella parte finale della sua carriera da calciatore, quando è in Qatar, lontano da riflettori pericolosi, torna sul tema dell’indipendentismo catalano. È il 2004 e l’intervistatore gli chiede quale sia il suo miglior ricordo. Lui risponde, senza nemmeno pensarci: «Aver giocato nel Barcellona». Poi ci riflette un attimo e, come se le due cose fossero strettamente legate, aggiunge: «Essere nato in un paese così stupendo come il mio: la Catalogna».

L’utilizzo del termine país non è ovviamente casuale e infatti poco dopo l’intervista scivola inevitabilmente sulla domanda: «Perché giocavi con la Spagna?». La risposta è lunga e articolata, ricalca il tema antichissimo del contrasto tra le imposizioni sociali e le pulsioni dell’essere umano: «Le leggi ci dicevano di dover giocare con la Nazionale spagnola perché quella catalana non è legittimata a giocare competizioni internazionali. Io giocavo nella Liga spagnola, mi convocavano e dovevo rispondere». Poi, rendendosi conto della forza di quelle parole, continua: «Ero felice di rispondere alle convocazioni, però non posso nascondere quello che sento e amo. Io sono molto legato al mio paese, la Catalogna, che possiede una sua lingua da 800 anni».

«Pep Guardiola: un fuoriclasse in campo e una persona fedele ai suoi princìpi».

È un momento di svolta nella vita politica di Guardiola perché, per la prima volta, il calciatore catalano non vive le sue idee da semplice cittadino, ma utilizza la sua immagine per mandare all’esterno messaggi politici. Nonostante ciò, l’allora giocatore dell’Al-Ahly rimane ancora su posizioni relativamente moderate e cioè quelle della possibile convivenza delle due identità, quella spagnola e quella catalana, o, per utilizzare il riferimento culturale della lingua, così importante per il catalanismo politico, del castigliano come lingua delle labbra contrapposto al catalano come lingua del cuore.

La consapevolezza della sua importanza anche (e forse soprattutto) al di fuori dell’universo calcistico emerge anche dal fatto che, ancora nel 2004, Guardiola rimane possibilista sul suo futuro dopo la fine della sua carriera da calciatore. Alla fine della stessa intervista accenna alla possibilità di poter diventare allenatore, ma chiude con un apertissimo «poi vedremo».

E alla fine del 2006, poco dopo essersi ritirato, gli balena per la mente l’idea di poter diventare un giornalista politico. Con l’aiuto del gruppo televisivo Mediapro, si unisce alla troupe che segue l’allora primo ministro spagnolo Zapatero e viene addirittura programmata un’intervista tra i due, che però non verrà mai realizzata. Nonostante ciò, lo segue per tre mesi, unendosi all’aereo presidenziale e ottenendo altre testimonianze importanti come quelle di Alfredo Pérez Rubalcaba, Juan Carlos Rodríguez Ibarra e Pedro José Ramírez. In Algeria, è l’unico “giornalista” a poter seguire l’incontro tra Zapatero e Bouteflika, presidente algerino in carica ancora oggi. Alla fine di quest’esperienza, però, decide di abbandonare precocemente la via del giornalismo, disgustato anche dall’eccessiva condiscendenza dei suoi colleghi.

Sulla panchina del Barça

Guardiola non è uomo dalle mezze misure, lotta affinché possa avere una qualche influenza sul mondo e viceversa. Quando Laporta, un altro acceso sostenitore dell’indipendenza della Catalogna, gli affida la panchina della prima squadra del Barcellona, il club blaugrana dà un senso ancora più profondo al suo slogan Més que un club. Con Guardiola (e Laporta), il Barcellona diventa un mondo ideologico omogeneo dalla panchina ai più alti vertici dirigenziali, l’arma più importante in mano alla Generalitat nella lotta per l’autodeterminazione catalana. Di conseguenza anche Pep si sposta sulle stesse posizioni radicali.

Nel sistema di pensiero del tecnico di Santpedor il confine tra calcio e politica non esiste. Negli spogliatoi Guardiola non insegna solo il calcio totale di Rinus Michels e Johann Cruijff, ma legge anche i versi di Martí i Pol e Lluis Llach. Per molti giocatori, come Puyol, Abidal, Xavi e Piqué, l’influenza delle sue idee politiche e culturali è profondissima.

Guardiola, da allenatore del Bayern Monaco, ha presentato alla Literaturhaus di Monaco il libro L’àmbit de tots els àmbits di Martí i Pol. In questo video legge “Ara mateix” (letteralmente, “Proprio adesso”), poesia ricca di riferimenti alla situazione politica della Catalogna. La poesia si chiude con augurio per il futuro: «Trasformiamo in amore l’antico dolore / e leghiamolo, solenni, alla storia».

Anche pubblicamente i riferimenti al catalanismo politico non mancano. Nel dicembre del 2010 il Barcellona costringe la federazione spagnola a spostare la partita con l’Osasuna di un giorno perché si ostina a voler prendere l’aereo nonostante lo sciopero dei controllori di volo. I culé vengono sommersi di fischi in campo e nella conferenza post-partita Guardiola è costretto a dare spiegazioni: «Io non decido queste cose, signori. Noi veniamo da un luogo… da un paese che sta lassù e si chiama Catalogna».

Nella stessa stagione sulla panchina del Real Madrid si è seduto José Mourinho, che metaforicamente rappresenta l’apice dell’arroganza dell’egemonia castigliana. Nella famosa conferenza stampa dell’aprile del 2011 in cui attacca in maniera diretta il tecnico portoghese («Qual è la sua videocamera? Suppongo tutte»), Guardiola riesce ancora una volta a issare la senyera, bandiera catalana a strisce giallorosse: «Siamo caduti tante volte come squadra e come paese ma siamo tornati a rialzarci. È così piccolo il mio paese che dall’alto di un campanile si può sempre vedere il campanile più vicino». La seconda frase è una citazione della canzone "País Petit" del solito Llach, una dichiarazione d’amore musicata alla Catalogna.

Nella stessa conferenza stampa, Guardiola definisce alcuni giornalisti come «amici di Florentino Pérez».

Durante l’amministrazione Guardiola, il Barça vince 14 trofei: è il ciclo più vincente in assoluto nella storia del club. Contemporaneamente, come se il movimento politico fosse legato da un filo invisibile ai successi della squadra, il processo indipendentista fa passi da gigante, come mai aveva fatto: precisamente alla fine del ciclo Guardiola, nel settembre del 2012, il Parlamento della Catalogna approva una risoluzione in cui si constata «la necessità che il popolo catalano possa determinare il suo futuro collettivo in maniera libera e democratica». È l’immagine vincente del Barcellona ad aver spinto l’indipendentismo catalano? O è l’ineluttabilità dei processi storici che ha portato il club blaugrana all’apice del suo successo?

Nel settembre del 2011, quando Guardiola riceve ufficialmente la Medaglia d’Onore dal Parlamento della Catalogna, l’allora tecnico del Barcellona sembra rendersi conto dell’attualità dell’interrogativo. In un discorso emozionante e commosso in cui parla quasi esclusivamente della sua esperienza da allenatore (in una retorica così pregna di riferimenti politico-culturali, è indicativo che in uno dei pochi eventi politici a cui partecipa in quel periodo Guardiola parli solo di sport), Guardiola arriva a citare Valero Rivera, allenatore della Nazionale spagnola di pallamano. Una sua frase nello specifico, detta chissà quando al Camp Nou: «Il Barça ci rende tutti migliori». L’allenatore più rivoluzionario e vincente mai sedutosi sulla panchina del Barcellona nega per l’ennesima volta la sua influenza sul mondo: «Non voglio essere d’esempio per nessuno».

Guardiola chiude il discorso con un appassionato: «Siamo un paese inarrestabile, credetemi».

Lontano dalla Catalogna

Anche presumendo la sincerità di quelle parole, è difficile però credere che Guardiola ancora non si renda conto dell’inevitabile risonanza delle sue azioni. E infatti negli anni successivi, durante l’anno sabbatico a New York e poi sulla panchina del Bayern Monaco, la sua immagine si pietrifica in simbolo, utilizzato a più riprese dal movimento indipendentista, e soprattutto dal movimento politico dell’attuale presidente catalano, Convergència i Unió, federazione di due partiti scioltasi proprio per le elezioni del 27 settembre.

Nel settembre del 2012 partecipa virtualmente alla Diada, il giorno nazionale catalano in cui si commemora la presa di Barcellona da parte delle truppe borboniche di Filippo V dell’11 settembre 1714 e la conseguente soppressione di tutte le istituzioni autonome della Catalogna. Quel giorno in piazza ci sono un milione e mezzo di persone e sui maxischermi viene trasmesso un suo video in cui tiene in mano un voto simbolico per l’indipendenza della sua terra: «Qui ce n’è uno in più».

Il 2014 è un altro anno fondamentale per il processo indipendentista e l’esposizione politica di Guardiola arriva al massimo. In aprile si fa intervistare dall’emittente tedesca ZDF (un evento rarissimo per lui, che non concede quasi mai interviste individuali) per parlare delle sue radici catalane. A giugno partecipa alla manifestazione catalanista di Berlino (che si tiene contemporaneamente in altre sette città europee), ha una maglietta bordò con scritto: “Catalans want to vote”. Quell’anno culmina con la partecipazione al referendum simbolico del 9 novembre, con l’80% dei votanti che votano a favore dell’indipendenza. Poco prima di entrare nell’urna a Barcellona, Guardiola dichiara: «Quando c’è tanta gente che lo chiede, non esistono leggi che possano impedirlo. Il lavoro dei politici è ascoltare».

In questo video promosso dal parlamento regionale della Catalogna, Guardiola, insieme ad altri esponenti della società civile catalana (tra cui Llach), legge l’articolo 1 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici delle Nazioni Unite relativo all’autodeterminazione dei popoli.

L’anno successivo segna la definitiva trasformazione di Guardiola da cittadino a eroe. Il tecnico del Bayern, in vista delle fondamentali elezioni regionali del 27 settembre, si candida nella lista indipendentista unitaria Junts pel Sí (Uniti per il Si), ma lo fa in funzione esplicitamente simbolica, all’ultimo posto in modo da non essere eletto. L’unica cosa che conta è mettere il suo nome su quella lista, perché il suo nome porta voti. Nell’inevitabile pioggia di polemiche che segue (soprattutto proveniente dal governo centrale spagnolo), Guardiola si difende come ha sempre fatto, affermando il suo diritto a difendere la propria opinione. Poi quella frase, finita sui titoli di tutti i giornali, che sembra venire da un’epoca lontana: «Tutto ciò che facciamo nella nostra vita è politica».

L’illusione del destino

Che cos’è la politica se non una scelta? Non è stato il destino del timbaler del Bruc a portare Guardiola all’apice del mondo politico e simbolico della Catalogna. Diventare una sorta di eroe per il suo popolo di appartenenza è stata una scelta.

«Non tutte le scelte di Guardiola sono però così luminose. E se la scelta di accettare le convocazioni in Nazionale è comprensibile, dato il sacrificio enorme e la consapevolezza che avrebbe richiesto (che forse non sarebbe neanche giusto pretendere in un ragazzo), è più difficile da accettare quella di diventare sponsor ufficiale della candidatura ai Mondiali del Qatar».

«Perché appoggi questa candidatura per i Mondiali del 2022?» «Fondamentalmente perché ho vissuto là».

Il rapporto tra Guardiola e il Qatar ha gettato sulla sua futura statua un’ombra inquietante e poco comprensibile. Su Guardiola e sul Barça, insieme anche nelle conseguenze più estreme e paradossali: il club blaugrana nel dicembre del 2010 ha chiuso una lunga tradizione di assenza di main sponsor per firmare un contratto da 170 milioni di euro con la Qatar Foundation. Quella tradizione era basata sullo storico carattere sociale del Barça, lo stesso che portò il club a pagare pur di avere la scritta UNICEF sulle proprie maglie. La storia stessa della Catalogna, fatta di «affermazione e rispetto dei diritti fondamentali e delle libertà pubbliche della persona e dei popoli», impallidisce di fronte a un paese che schiavizza i lavoratori e sopprime lo sviluppo democratico.

«È senz’altro vero che non si raggiungerebbe il possibile, se nel mondo non si tentasse sempre di nuovo l’impossibile», scriveva Max Weber ne La Politica come Professione, «ma colui che può farlo deve essere un capo, e non solo questo, ma anche, in un senso molto semplice della parola, un eroe». E Guardiola dovrebbe sapere che agli eroi non è concesso il lusso dell’incoerenza.

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