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Gudjohnsen, padre e figlio
09 nov 2017
Un estratto da "Un giorno questo calcio sarà tuo", il nuovo libro di Fulvio Paglialunga sul rapporto tra padri e figli nel calcio.
(articolo)
12 min
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Questo estratto è tratto da "Un giorno questo calcio sarà tuo", di Fulvio Paglialunga, che potete acquistare qui.

Il microfono della tv pubblica islandese è bombatissimo. Il canale è Ruv e sta intervistando una sorta di monumento nazionale nell’attimo contemporaneamente più alto e più doloroso del calcio nazionale. Parla Eidur Gudjohnsen, conosciuto anche come Iceman, «uomo di ghiaccio», un soprannome che, accostato al nome del suo paese – Iceland, che etimologicamente significa «terra di ghiaccio» –, lo rende immediatamente «uomo nazione».

È il 19 novembre 2013, e Iceman ha due motivi per essere infelice: il primo è già noto a chi aspetta di sentire il suo commento. Deve parlare della sconfitta dell’Islanda in casa della Croazia, gara di ritorno dei playoff per arrivare ai Mondiali brasiliani del 2014, un sogno infranto proprio a un passo dalla realizzazione. E anche dire sogno è riduttivo, per una Nazionale che non è mai riuscita a qualificarsi per nessun’altra manifestazione internazionale. Niente, anche questa volta. È stata eliminata un attimo prima.

Guäjohnsen è commosso, deluso. E ha un’altra cosa da dire. Guarda il giornalista, abbozza un sorriso nervoso, fa una smorfia, si passa la mano sulla fronte, scuote la testa come per dire no a qualcosa, un «no, non ce la faccio». Avvicina le mani alla bocca, prova a schiarirsi la voce, fissa il vuoto e guarda in basso, si tocca tra labbra e naso e alla fine, quasi grugnendo lo dice: «Ho paura che questa sia stata la mia ultima partita con l’Islanda». Sta piangendo, si lascia abbracciare dal giornalista. Poi va via.

Meglio tornare indietro, al 24 aprile 1996, per raccontare questa storia. Eidur Gudjohnsen quel giorno non sa ancora che diventerà il più grande attaccante del calcio islandese. Non ha ancora compiuto diciott’anni, ma già non si sorprende che la vita lo metta di fronte a sfide notevoli. Ha esordito in campionato sedicenne, è subito stato notato dagli scout del PSV ed è andato in Olanda. Dunque, perché stupirsi se già prima dei diciotto ha addosso la divisa della Nazionale d’Islanda?

Sarà un’amichevole, ma è stato convocato per la prima volta, e basta per essere felice. Molto. Sente la frenesia di chi può esordire da un momento all’altro, e anche se per questa prima volta dovesse rimanere in panca, sarebbe comunque soddisfatto.

Si gioca contro l’Estonia, a Tallinn, la capitale. Eidur segue la partita con attenzione, forse ogni tanto per distrarsi si mette a contare i cinquecento spettatori scarsi che sono lì a vedere la partita. Ma cerca di non farsi sorprendere: è un giovane promettente, sa che questa non sarà l’unica occasione per giocare con la Nazionale, ma non deve sprecare niente. Nemmeno un minuto, se dovesse arrivare il momento. E con il passare del tempo sente che forse quel momento sta per arrivare: al trentesimo l’Islanda è avanti di tre gol, tutti segnati da Gunnlaugsson.

È un mercoledì in discesa, l’ideale per cominciare: infatti, dopo sessantadue minuti di partita è pronto per entrare in campo. Le gambe non tremano, perché vince l’impazienza. L’incoscienza, forse. Sta sciogliendo i muscoli con degli allungamenti poco prima di entrare in campo, il numero 13 sulle spalle. Smania, si vede. Chiunque abbia messo piede in un campo di calcio, anche solo una volta, sogna la Nazionale. Ci arrivano in pochi, però. Se hai l’opportunità – e così giovane – sei un privilegiato, non devi buttare via l’occasione: se tutto va bene puoi prenderti un posto che sarà tuo per molto tempo. Magari abbastanza da diventare capitano.

Più in là, Eidur Gudjohnsen avrà pure la fascia al braccio, ma adesso è il momento di esordire: è lì che scalpita perché arrivi il compagno con la maglia numero 9, che gli farà spazio in campo, aspetta sulla linea laterale che si compia il rito, con il titolare che lascia le consegne, e un incoraggiamento, al sostituto. Ma questo rito ha qualcosa di più: il calciatore che esce non solo incoraggia quello che entra, ma lo abbraccia, lo stringe affettuosamente e gli bacia la guancia destra, come un papà con il suo bambino.

Infatti il 24 aprile 1996, durante Estonia-Islanda, al sessantaduesimo Eidur Gudjohnsen prende il posto di Arnor Gudjohnsen: suo padre.

Una sostituzione è un momento importante: può essere il particolare da cui si giudica un allenatore, il cambio di passo in una partita stanca, un modo per decidere di lanciarsi all’attacco o di ritirarsi per difendere il risultato. Può essere la passerella per un campione al quale viene permesso di uscire attraversando un corridoio di applausi convinti, oppure il momento drammatico di un infortunio che costringe a lasciare il campo. O ancora, serve a nascondere qualche alchimia tattica. Si può sostituire un uomo per correggere una formazione sbagliata o per evitare che, se troppo nervoso, possa condizionare la gara degli altri. Può essere anche, come in questo caso, il momento per concedere scampoli di gloria a un esordiente.

Questa sostituzione crea per l’ereditarietà del calcio una rappresentazione quasi irripetibile. Alla nascita di Eidur, Arnor aveva solo diciassette anni e aveva passato la vita a rincorrere un pallone su campi gelati e pieni di buche alle pendici dei vulcani. Una volta diventato calciatore girerà molto. Ancora minorenne finisce in Belgio, all’Anderlecht, dove riesce anche a vincere la classifica dei cannonieri. Poi Francia e Svezia, prima di tornare in patria per contribuire a costruire quel movimento calcistico che gli è mancato mentre stava diventando un professionista.

Una carriera splendida, la sua, un islandese in giro per l’Europa a fare l’eccezione, a segnare. Con un solo momento da cancellare.

Era il 1984 e portava la maglia dell’Anderlecht. Sbagliò il primo rigore nella finale di Coppa Uefa contro il Tottenham, togliendo alla sua squadra la possibilità di vincere. Insieme ai compagni aveva già compiuto l’impresa in semifinale, rimontando con il 3-0 del ritorno il 2-0 dell’andata contro il Nottingham Forest, ma quella finale si era conclusa sull’1-1 in Belgio e anche in Inghilterra, quindi c’erano da tirare i rigori; e Arnor Gudjohnsen, entrato dalla panchina, ebbe abbastanza coraggio da prendersi questa responsabilità. Ma fu impreciso. Poi sbagliò pure Olsen, gli avversari ne avevano sbagliato solo uno e dunque vinsero, e festeggiarono.

Arnor faceva gol. Non tantissimi, ma abbastanza. Da punta dell’Islanda ne mise a segno addirittura quattro in una partita contro la Turchia, in totale quattordici in settantatré partite. Aveva esordito a diciott’anni, nel 1978, quando il figlio aveva appena un anno, e smise nell’ottobre del 1997, dopo una partita contro il Liechtenstein. Quando gli fu chiesto quale fosse il suo sogno la risposta fu netta: «Giocare nel calcio internazionale accanto a Eidur». Sogno che sembrava audace. Ma Arnor Gudjohnsen aveva allora venticinque anni e suo figlio otto, gli sarebbe bastato essere un po’ più longevo della media e sperare che il ragazzo fosse pronto subito. Ma voleva dire anche pensare che quel bambino sarebbe diventato calciatore, e che sarebbe stato bravo, in grado di arrivare in Nazionale e per giunta così presto da trovarsi in squadra con suo padre. In effetti, così accadde. Sotto gli occhi dei pochi che stanno guardando Estonia-Islanda, è come se entrasse in funzione una macchina del tempo: entra un Gudjohnsen diciassette anni più giovane di quello che esce. Entra un figlio atteso in campo dal padre fin dal giorno della nascita e dunque allevato per diventare un bravo calciatore.

A Eidur andrà ancora meglio, nel calcio. Intanto perché cresce in un’Islanda in cui quello sport sta diventando popolare. Il governo ha iniziato a investire negli impianti (ché giocare da quelle parti aveva sempre voluto dire fare i conti con temperature rigide e poche ore di luce al giorno, se non ci si attrezza) e nella formazione. Grazie all’impegno statale, adesso in Islanda c’è un allenatore qualificato ogni cinquecento abitanti circa (in Inghilterra il rapporto è uno ogni diecimila) e il 7 per cento della po- polazione è un calciatore «registrato» (in Italia la percentuale viaggia intorno al 2). Una nazione di poco inferiore a Bari per numero di abitanti fa del calcio una questione così seria da ammettere senza difficoltà l’inferiorità del proprio campionato. Infatti i giocatori migliori vanno all’estero, e la vera squadra di tutti è la Nazionale, per la quale la gente tifa compatta. Solo adesso il resto del mondo se n’è reso conto: con l’invasione di islandesi all’Europeo di Francia del 2016 e il loro modo pittoresco di esultare – un applauso ritmato e un movimento di braccia prima larghe e poi sopra la testa, in perfetta sincronia, chiamato Geyser Sound.

Per diventare Iceman, Eidur Gudjohnsen dovette andare all’estero, al PSV Eindhoven, ma un infortunio portò la squadra olandese a stracciare il contratto e a rimandarlo a casa. Poi ripartì per l’Inghilterra, e poi, ancora, per Spagna, Francia, Grecia, Belgio, Cina, Norvegia. Non tappe secondarie, ma squadre come Chelsea, Barcellona, Monaco, Tottenham, Fulham e altre ancora. E se il padre ha cuciti sul petto tre scudetti vinti in Belgio e uno in Francia, oltre che qualche coppa, il figlio ha vinto tutto: Champions, Supercoppa, Liga, le due Premier, il campionato olandese e altre coppe di varia importanza.

Eidur e Mourinho si sono voluti bene ai tempi del Chelsea. Allo «Special One», Gudjohnsen è rimasto particolarmente impresso, lo ha citato anche in una delle sue battute, prima della finale di Champions del 2010, in cui guidava l’Inter contro il Bayern di Van Gaal. Si doveva andare a Madrid ed era già cominciata la guerra dei nervi: il tecnico dei tedeschi aveva detto di aver paura dell’arbitro e Mourinho – erano i giorni in cui il vulcano Eyjafjöll eruttava creando gravi problemi al traffico aereo – ribatté: «Van Gaal è preoccupato per l’arbitro? Io per Gudjohnsen, il vulcano islandese...» E a chi gli chiedeva spiegazioni disse che il nome del vulcano era troppo difficile, «quindi io lo chiamo Gudjohnsen». E Eidur da quel momento fu un po’ centravanti e un po’ vulcano.

Eidur ha esordito in Nazionale con quella sostituzione che non ricorda eguali e ha segnato (26 gol) fino a diventare il miglior marcatore del suo paese. Con il genitore condivide un rimpianto: in quella partita con l’Estonia, in realtà, non avrebbero dovuto darsi il cambio. Il piano iniziale era che la giocassero insieme. Sembrava che tutto stesse andando verso questa decisione fino al momento in cui la squadra, in pullman, stava raggiungendo lo stadio. Era stato allora che il presidente della Federazione, Eggert Magnusson, aveva chiesto di rimandare alla partita successiva. Se doveva scriversi un pezzo di storia, aveva pensato il dirigente, andava scritto nel migliore dei modi. Contro l’Estonia era solo un’amichevole, mentre poco più di un mese dopo si sarebbe giocata al Laugardalsvöllur – lo stadio della Nazionale a Reykjavik – la partita di qualificazione ai Mondiali contro la Macedonia. In casa, e con tre punti veri in palio, tutto avrebbe avuto un tono più solenne. Eidur era felice, nonostante l’autorizzazione a metà del presidente federale, nonostante il rinvio del momento sognato. Arriverà, pensava. Presto, pure. Ma non poteva sapere che proprio in quel mese si sarebbe rotto la caviglia, e che ci avrebbe messo due anni a tornare in campo. Fu così che perse il contratto con il PSV Eindhoven e soprattutto l’opportunità di essere in Nazionale insieme a suo padre. Arnor, negli anni che Eidur ha dedicato alla riabilitazione, si era ritirato dalla Nazionale. Il desiderio di essere in campo insieme, dunque, si era realizzato solo a metà. Ma si erano accontentati.

I due si sono trasmessi il talento, ma anche l’amore per il pallone. Perché se non hai quell’amore lì non ti commuovi quando hai paura che quella appena giocata possa essere stata la tua ultima partita in Nazionale; che poi non fu nemmeno l’ultima, ma ci vollero quasi due anni per rivedere Eidur Gudjohnsen con la maglia dell’Islanda, il tempo lungo di asciugare le lacrime e di sentirsi di nuovo pronto, perché la sua nazione stava entrando nella storia e il suo giocatore più noto non poteva certo mancare. Tornò, in modo discreto, in tutte partite che portarono l’Islanda fin dove non era mai arrivata: al suo primo torneo internazionale.

Qualificandosi per l’Europeo di Francia, la Nazionale della terra dei ghiacci ha potuto celebrare in maniera degna il ritorno di Iceman. Non poteva mancare, aveva continuato a girare fino in Cina ed era da poco approdato in Norvegia, nel Molde, per essere ancora in campo. Di fatto il calcio internazionale lo aveva perso di vista, ma Gudjohnsen doveva stare lì. Per Lars Lagerbäck, svedese alla guida dell’Islanda, era fondamentale. Anche se Eidur non era più il diciassettenne che stava per entrare in campo al posto del padre. Tanti erano molto più giovani di lui, e alla tv lo ha detto con un pizzico di imbarazzo: «Ho la sensazione che diversi di loro mi guardino dal basso in alto. Probabilmente sono cresciuti guardandomi giocare, forse mi hanno pure scelto come giocatore alla PlayStation».

Ha avuto anche spazio, nell’Europeo: due micropresenze nello storico torneo che ha portato l’Islanda fino ai quarti di finale con il tifo di chiunque. Quei sei minuti contro l’Ungheria e quei sette contro la Francia lo hanno fatto diventare il quarto giocatore di movimento più anziano del torneo: dopo Lothar Matthäus, tedesco, Morten Olsen, danese, Ivica Vastic, austriaco, Ricardo Carvalho, portoghese.

I cognomi islandesi sono patronimici: indicano il nome del padre con l’aggiunta del suffisso «figlio» (o «figlia») e non il cognome storico della famiglia. Così era praticamente per tutti gli islandesi, così non era per lui, un’eccezione per via del cognome di origine danese che ha sempre portato sulla maglia ben stampato: «Gudjohnsen». Lo stesso cognome lo porta adesso sulle spalle Svein Aron, il suo primogenito, attaccante del 1998 che si sta facendo strada in Islanda. Ma soprattutto lo porta Daniel Tristan, funambolo nato nel 2006 che sembra uno dei migliori della Cantera del Barcellona: segna gol bellissimi e tra qualche anno potrebbe anche prendere la cittadinanza spagnola. Potrebbe diventare un fenomeno internazionale, se le premesse saranno rispettate.

Suo padre e suo nonno si diedero il cambio nel 1996, lui è nato dieci anni dopo e non ha perso tempo a farsi notare. Non poteva tradire il patrimonio genetico di chi, con quella sostituzione, ha scritto una pagina meravigliosa.

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