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Guerra senza spari
03 giu 2015
Le radici profonde degli intrecci tra calcio e politica nei Balcani.
(articolo)
14 min
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4 maggio 1980, stadio Pojiud di Spalato, si gioca Hajduk Spalato-Stella Rossa: poco meno di un derby, poco più di una partita di calcio. A quattro minuti dalla fine del primo tempo il gioco viene interrotto per dare la notizia della morte di Tito, il leader jugoslavo che ha guidato il paese sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Alla notizia i giocatori e gli arbitri si fermano, iniziando a piangere e disperarsi. Il video della scena è girato molto nelle scorse settimane, in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte di Tito.

Le immagini sono cariche di simboli e sovrastrutture: una squadra croata e una serba che insieme piangono la scomparsa dell’ideatore, per metà sloveno e per metà croato, del progetto politico che doveva riunire tutti i popoli slavi dei Balcani (questo significa “Jugoslavia”: terra degli slavi del sud). Per alcuni quelle immagini rappresentano il contraltare malinconico di un’altra partita metaforizzata, Dinamo Zagabria-Stella Rossa del 1990, quando lo stadio Maksimir di Zagabria divenne il primo campo di battaglia delle guerre jugoslave degli anni ’90.

Il parallelismo calcio-politica è sempre stato affascinante ed evocativo per tutti. Orwell affermava che il calcio, come ogni sport serio, era sostanzialmente “la guerra senza gli spari”. Se completiamo il sillogismo con Clausewitz («La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi») si può arrivare a dire che il calcio non è altro che una delle tante espressioni della politica. Figuriamoci nei Balcani.

Le immagini sono abbastanza inquietanti da poter essere considerate l’anticipazione di una guerra.

Password: Kosovo

Oggi il Kosovo è di fatto uno stato indipendente, ma sia l’Albania che la Serbia lo considerano parte del proprio territorio (sotto il cappello jugoslavo il Kosovo era una regione autonoma della Serbia). La prima perché il Kosovo è etnicamente a maggioranza albanese, la seconda perché il Kosovo contiene la mitologica Piana dei Merli, zona a nord di Pristina dove i serbi iniziarono a perdere la propria indipendenza ai danni dell’Impero ottomano nel 1389.

La Nazionale del Kosovo ha giocato la sua prima amichevole ufficiale poco più di un anno fa, il 5 marzo del 2014 contro Haiti. Un giorno storico perché fu la prima partita della Nazionale kosovara permessa dalla FIFA, che fino a quel momento si era piegata alle proteste serbe. Il compromesso che permetterà al Kosovo di giocare amichevoli ufficiali prevede il divieto di affrontare Nazionali di paesi che facevano parte dell’ex Jugoslavia e quello di mostrare in partita simboli nazionali di qualunque tipo (come bandiere o inni).

Non fu una partita del tutto neutra, come auspicato dalla FIFA. La federazione kosovara decise infatti di non farla giocare a Pristina, com’era logico essendo la capitale, ma a Mitrovica, piccola città nel nord del paese molto cara ai serbi. Alla parte nord della città, a maggioranza serba, sono state infatti concesse alcune autonomie dopo i periodici scontri etnici (gli ultimi poco più di un mese fa) e nel tempo è diventata un simbolo della “resistenza serba” al nuovo stato indipendente.

L’ingresso in campo delle squadre in Kosovo-Haiti. Sugli spalti nessuna bandiera kosovara ma molte bandiere albanesi.

I Balcani oggi

La questione Kosovo è stata riportata alla ribalta durante Serbia-Albania dello scorso 14 ottobre, valida per le qualificazione agli Europei del 2016. Con le squadre sullo 0-0 (coincidenza: a quattro minuti dalla fine del primo tempo come nel caso dell'annuncio della morte di Tito) un drone ha iniziato a sorvolare lo stadio Partizan di Belgrado con appesa la bandiera della cosiddetta Grande Albania: il progetto politico, nato alla fine del XIX secolo, che mirava a ricongiungere in un unico stato tutti gli albanesi, comprendendo oltre all’Albania odierna anche il Kosovo, parte della Grecia nord-occidentale, parte del Montenegro meridionale e parte della Macedonia sud-occidentale.

Come gettare un fiammifero nel serbatoio di un'auto.

Il giocatore serbo che strappa la bandiera della Grande Albania dal drone si chiama Mitrovic, il calciatore più coinvolto negli scontri invece è Lorik Cana, capitano della Nazionale albanese nato in Kosovo (e tra i principali firmatari della lettera con cui molti giocatori di origini kosovare, tra cui anche Shaqiri e Behrami, chiesero ufficialmente alla FIFA di ammettere la neonata Nazionale). La UEFA ha risolto la questione con una decisione discutibile: assegnando la vittoria a tavolino alla Serbia, ma detraendole i tre punti. Sia la federazione albanese che quella serba hanno fatto ricorso.

Ma il caos di Serbia-Albania è solo la proverbiale punta dell’iceberg. Lo scorso 22 marzo il portiere serbo della squadra albanese Apolonia Fier, Vilson Cakovic, ha fermato un invasore di campo strappandogli di mano una bandiera con scritto: «Nessuna Albania senza Kosovo e Cemerija». Il portiere serbo forse voleva solo riprendere a giocare il prima possibile (ha dichiarato che «qualcuno doveva farlo per ricominciare il gioco») ma i suoi stessi tifosi hanno iniziato a fischiarlo e a un certo punto l’allenatore si è trovato costretto a sostituirlo.

Pochi giorni dopo, il club ha annunciato che Cakovic ed un altro giocatore serbo, il centrocampista Djordje Djordjevic, avevano lasciato la squadra «per timore della mancanza di un ambiente tranquillo durante gli incontri futuri».

Interessante osservare la reazione dei compagni, più che degli avversari.

Anche il resto dei Balcani sembra scontare in questo periodo la mancanza di un ambiente tranquillo, per dirla con le parole del tecnico dell’Apolonia. Durante Montenegro-Russia, giocata a Podgorica lo scorso 27 marzo, diversi tifosi serbi si sono uniti a quelli russi per provocare lo stadio montenegrino (il Montenegro ha ottenuto l’indipendenza dalla Serbia molto tardi, nel 2006). L’ambiente si è scaldato a tal punto che l’arbitro è stato costretto a interrompere la partita dopo che un fumogeno caduto in campo aveva colpito il portiere russo Akinfeev. La UEFA alla fine ha assegnato lo 0-3 a tavolino alla Russia.

Il giorno successivo, lo stadio Maksimir di Zagabria (corsi e ricorsi storici, si direbbe) durante Croazia-Norvegia intonava il canto nazional-fascista “Za Dom-Spremni” (letteralmente: per la patria siamo pronti). Lo slogan era il saluto ufficiale dello stato fascista croato durante la seconda guerra mondiale, famoso per le sue indicibili atrocità contro ebrei, rom e, ovviamente, serbi. Anche in questo caso la UEFA è intervenuta costringendo la Croazia a giocare il successivo match contro l’Italia a porte chiuse. La federazione croata ha reagito dicendosi «scioccata della punizione draconiana» inflittale dalla UEFA.

19 novembre 2013: Josip Simunic, ex difensore della Dinamo Zagabria, festeggia proprio con il canto “Za Dom-Spremni” la qualificazione della Croazia ai Mondiali brasiliani.

Tra realtà e propaganda

Questioni come quelle dei Balcani ci obbligano apparentemente a prendere una posizione tra due antipodi: il calcio come mezzo per la pace tra i popoli (com’è, o dovrebbe essere, nelle intenzioni della FIFA e della UEFA) o il calcio come specchio della società (come prevede il sillogismo Orwell-Clausewitz). Secondo la prima posizione, partite come quella tra Albania e Serbia vanno giocate, sono uno strumento di propaganda di valori positivi. Per l'altra posizione invece (quella adottata da molti commentatori il giorno dopo i fatti) partite di questo genere andrebbero evitate, anche a costo di modificare i regolamenti.

Ma forse la realtà non si adatta a nessuna delle due retoriche, è ancora più complessa. Nessuna delle due versioni, cioè, tiene conto del potere manipolativo negativo, di propaganda, del calcio. Il calcio, cioè, fornisce una simbologia immediata facilmente utilizzabile dai leader politici per incendiare il nazionalismo radicato e diffuso nei Balcani. La famosa Dinamo Zagabria-Stella Rossa del 1990 arrivò appena una settimana dopo l’instaurazione in Croazia di un governo ultranazionalista, quello di Franjo Tudjman (uno dei pochi leader politici che può fregiarsi di un’accusa per crimini di guerra postuma). Quel governo trasformò gli scontri del Maksimir in uno dei miti fondativi della neonata repubblica croata.

Un altro esempio: Zeljko Raznatovic (meglio conosciuto come Arkan), che al Maksimir guidava le operazioni di guerra degli ultras della Stella Rossa, i Delije, decise di comprarsi la squadra di Belgrado dopo essersi costruito una reputazione tra le atrocità croate e bosniache. Vistosi rifiutato dall’allora presidente, la sua scelta ricadde su un club minore che però possedeva un dettaglio fondamentale. Il FK Obilic si chiamava così in onore di Milos Obilic, principe serbo morto durante la battaglia del Kosovo, famoso per aver ucciso il sultano ottomano Murad I.

Sotto la sua “presidenza”, l’Obilic passò tra il 1996 e il 1998 dalla Serie B alla vittoria del titolo. L’anno successivo sarebbe stato quello della definitiva consacrazione (stava guidando il campionato con il record di 24 partite senza sconfitte) se non fossero intervenuti i bombardamenti NATO sulla Serbia, causati dalla Guerra del Kosovo, quella vera. Oggi l’Obilic è relegato nelle leghe dilettantistiche.

Arkan all’interno dello stadio dell’Obilic che, incredibilmente, si vergogna un po’ del suo passato (inteso come passato da hooligans, quello da criminale di guerra va bene invece).

Le cose non sono cambiate poi tanto. Serbia-Albania arrivava otto giorni prima di uno storico incontro tra il premier albanese Edi Rama e quello serbo Aleksandar Vucic. Erano 68 anni che i leader politici dei due paesi non si incontravano. Dopo quello che è successo in campo l’incontro è stato posticipato al 10 novembre. Quel giorno Rama, nonostante le rassicurazioni di rito, ha dichiarato che «la questione del Kosovo è risolta, ora è uno stato indipendente», scatenando le proteste serbe.

Nel frattempo molti dubbi si sono addensati intorno al ruolo giocato dal fratello del premier albanese, Olsi Rama, nell’ideazione del blitz del drone a Belgrado. Ma ormai la questione era stata sollevata e lo scorso 7 aprile Edi Rama ha potuto dichiarare che «l’unificazione dell’Albania e del Kosovo è inevitabile e indiscutibile», provocando questa volta anche la reazione di Bruxelles, che ha come obiettivo quello dell’integrazione europea di Kosovo e Albania come due stati separati.

Utopia Bosnia?

Per uscire dagli schemi preconfezionati del nazionalismo balcanico bisogna guardare all’unico paese dove il messaggio delle guerre jugoslave (“Io e te non possiamo convivere nella stessa casa”) non è passato: la Bosnia-Herzegovina. Lo Stato è ancora oggi composto da tre diverse comunità: quella croata, quella serba e quella bosgnacca (semplificando molto, quella di religione musulmana). Secondo molti lo stato bosniaco è fallito prima di nascere esattamente per questo motivo. Le tre etnie non possono convivere insieme, sono troppo litigiose e l’assurda architettura costituzionale del paese, nata con gli accordi di Dayton del 1995, non fa che acuire le distanze tra le diverse frange della popolazione.

Effettivamente le istituzioni sono degne di un romanzo di Kafka. Il paese, tecnicamente una confederazione, è diviso in due regioni autonome, la Republika Srpska e la Federazione di Bosnia-Herzegovina (quest’ultima a sua volta divisa in dieci cantoni autonomi) ognuna con il proprio parlamento e il proprio presidente. A livello nazionale la presidenza è tripartita, in modo da dare eguale rappresentanza alle tre etnie riconosciute, che per legge devono avere lo stesso peso anche all’interno del governo e dei servizi pubblici (in Bosnia c’è anche una forte presenza di ebrei e rom, che però non hanno lo stesso riconoscimento costituzionale). Ad aggiungersi al quadro istituzionale delirante c’è l’Alto Rappresentate della comunità internazionale, che sostanzialmente fa da arbitro tra le tre comunità.

Come una volta ha detto Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, «tutto in Bosnia-Herzegovina deve avere una presidenza tripartita, anche l'associazione degli apicoltori». E così sono nati anche gli organi di amministrazione del calcio, con una presidenza tripartita. Le tre etnie riconosciute avevano ognuna una propria federazione, il cui presidente a rotazione prendeva lo scettro della federazione nazionale.

La scelta creò diverse situazioni grottesche. Un esempio: nel 2008 fu nominato Meho Kodro, ex stella del Real Sociedad, come tecnico della Nazionale, ma dopo nemmeno sei mesi venne esonerato. La federazione, controllata in quel momento dai bosgnacchi, motivò la scelta accusando Kodro di essersi rifiutato di giocare delle amichevoli con paesi islamici, come l’Iran e l’Azerbaijan. Lui se ne andò dichiarando che quelle amichevoli, fissate a sua insaputa, erano state organizzate esclusivamente per motivi politici. La Nazionale comunque non riuscì a qualificarsi per i mondiali del 2010.

A seguito dell’esonero di Kodro, i tifosi bosniaci boicotteranno in massa l’amichevole con l’Azerbaijan. Si presentarono circa in 150 allo stadio Bilino Polje di Zenica.

Nel corso del 2011 la situazione, condita da scandali arbitrali e disastri finanziari, divenne talmente ingestibile che sia la FIFA che la UEFA decisero di sospendere la federazione bosniaca finché non avesse abbandonato la soluzione della presidenza tripartita. La Nazionale non avrebbe potuto partecipare né agli Europei né ai Mondiali e i club bosniaci sarebbero stati esclusi dalle coppe europee.

È bastato questo a far uscire la Bosnia dalla dicotomia Blatter-Platini/Orwell-Clausewitz. Dopo la sospensione di FIFA e UEFA, la federazione bosniaca ci ha messo meno di due mesi per dotarsi di un regolamento “normale” e dal dicembre del 2012 ha un unico presidente, Elvedin Begic. Nel 2014 la Nazionale ha raggiunto per la prima volta nella sua storia le fasi finali di un Mondiale e la “soluzione bosniaca” è stata talmente un successo (uno dei pochi annoverabili nel capitolo FIFA) che è stata applicata anche a Cipro nel novembre del 2013, diventando così un caso di studio.

Ma il calcio non ha risolto nulla in Bosnia, come forse speravano ai quartieri generali di UEFA e FIFA. Il paese rimane paralizzato tra le sue mille fratture etniche, dimenticato dalla comunità internazionale. Nel 2018, con ogni probabilità, si terrà un referendum sull’indipendenza della Republika Srpska che potrebbe gettare di nuovo l’intera regione nel caos. Lo scorso 10 maggio, la UEFA ha negato l’autorizzazione per un’amichevole tra la Nazionale della Republika Srpska e la Serbia.

L’immagine che ha fatto la storia: Pjanic che piange a seguito della prima qualificazione della Bosnia a una fase finale dei Mondiali.

Il futuro in Macedonia

È di pochi giorni fa un attacco terroristico a Kumanovo, nel nord della Macedonia, a pochi chilometri da Serbia e Kosovo. Secondo la versione ufficiale, un gruppo armato di origini kosovare avrebbe coinvolto degli ufficiali di polizia macedoni in una sparatoria, provocando 22 morti e diversi feriti.

Per una buona fetta degli abitanti di Kumanovo, invece, il tutto sarebbe stato orchestrato dal governo di Skopje in modo da riaccendere le fratture etniche che spaccano il paese, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dalle proteste trasversali che avevano attraversato la Macedonia nei giorni precedenti, con il premier Gruevski accusato dall’opposizione e da alcune rivelazioni di stampa di aver messo in piedi un sistema di sorveglianza di massa al fine di mettere a tacere i dissidenti.

L’attentato ha portato alla sospensione del campionato macedone, così il “derby etnico” Shkendija-Vardar non si è giocato a Kumanovo come da programma. Lo Shkendija è una squadra di fatto albanese. Venne fondata nel 1979 dalla comunità albanese di Tetovo e nel 1981, un anno dopo la morte di Tito, venne sciolta dal governo jugoslavo per timore che il suo successo potesse riaccendere lo spirito nazionalista schipetaro. Il Vardar è invece la punta di diamante del calcio macedone, la squadra di Skopje, oggi di proprietà russa.

In realtà la partita si sarebbe dovuta giocare il 22 aprile, cioè 18 giorni prima dell’attentato di Kumanovo, ma la federazione macedone ha posticipato la partita ripetutamente su pressione del Ministero degli Interni, inizialmente con il pretesto di un altro attentato terroristico di matrice albanese nel nord del paese, avvenuto il giorno prima del fischio d’inizio. Alla fine la partita si è giocata il 12 maggio, solo due giorni dopo la strage, su campo neutro. In campo ha vinto lo Shkendija, 1-0, rimandando la festa scudetto del Vardar. Fuori dallo stadio nessuno scontro.

Shkendija-Vardar: una partita come tante.

Il giorno dopo la strage il ministro degli interni macedone si è dimesso su pressioni del premier Gruevski. Ma la mossa non ha placato le proteste, albanesi e macedoni hanno continuato a scendere in piazza insieme contro il governo. Alla fine il governo ha ceduto e ha indetto elezioni anticipate per aprile 2016.

La mossa di usare il pallone come miccia delle divisioni etniche nella più banale rievocazione del divide et impera per una volta non ha funzionato. Si è svolta una partita unicamente per il gusto di giocare a calcio, nessuno ha fatto riemergere il passato doloroso che i simboli delle due squadre portano con sé. Nei Balcani, come abbiamo visto, è già una notizia.

Nonostante ciò, rimane difficile trarre conclusioni definitive, perché le metafore da stadio rimarranno sempre argilla per le mani di propaganda e diplomazia. Alla fine è facile se il calcio è la rievocazione della guerra senza gli spari.

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