Dopo 1.230 partite di regular season, finalmente sono arrivati i due mesi più belli dell’anno. Molto di quello che ci si aspettava prima dell’inizio della inizio stagione è cambiato, anche se una certezza è rimasta: Golden State è ancora la squadra da battere e ogni discorso su chi vincerà il titolo NBA passa prima di tutto da loro. Il vuoto lasciato da LeBron James nella Eastern Conference apre invece spazio ad una nuova finalista dopo quattro edizioni in fila di Warriors-Cavs: capire chi uscirà vincente dall’Est è forse la trama più avvincente delle prossime sei settimane che stanno per cominciare.
Eastern Conference
Milwaukee Bucks
di Dario Ronzulli
La miglior squadra della regular season, ma con poca esperienza playoff.
Il miglior record NBA e la miglior difesa NBA: non male come biglietto da visita per i playoff. Ah, poi c'è anche il candidato MVP, quello con il 34 che pare sempre più intenzionato a prendersi il mondo. Ai Bucks sembra non mancare nulla per fare strada e ritornare a giocarsi le prime finali di Conference dal 2001, o persino la finale per l'anello, la cui ultima volta risale addirittura al 1974.
Lo stile che Budenholzer ha dato alla sua squadra è estremamente contemporaneo e ben si adatta ad essere indecifrabile anche quando il livello delle difese si alzerà. I Bucks sono, escludendo i Rockets che fanno storia a sé, la squadra che prende più tiri da tre sui 100 possessi mentre l'anno scorso erano al 25° posto. Inoltre sono quinti per numero di possessi giocati con un incremento di 15 posizioni in una lega dove, peraltro, sono aumentate in maniera considerevole le squadre sopra i 100 da un anno all'altro. Avere il fattore campo contro tutti permetterà di sfruttare l'effetto Fiserv Forum: in stagione Milwaukee ha un record di 33-8 in casa e, per quanto tante statistiche tra casa e trasferta non siano troppo dissimili, c'è un bel divario nel Net Rating: tra le mura amiche è +11.5, fuori “solo” +5.7 (comunque il secondo migliore della Lega dietro Golden State).
Ma... c'è un ma. Coach Bud ha tra le mani una squadra con pochissima esperienza individuale e ancor meno di squadra nei playoff. Rapida occhiata al quintetto base: Malcom Brogdon, 13 presenze (per di più ancora alle prese con una fascite plantare); Eric Bledsoe 24, di cui 17 con i Clippers ormai diverse stagioni fa con un ruolo completamente diverso; Middleton, 19; Antetokounmpo, 19; Lopez, 13. Presenze nei playoff totali in carriera: 88.
Anche per questo sono stati presi George Hill, che di partite in post season ne ha collezionate 102 da solo, e soprattutto Pau Gasol, sceso in campo 136 volte in carriera nei playoff con l'aggiunta di due anelli non proprio da comprimario. Lo spagnolo tornerà tra un paio di settimane esattamente come Mirotic e saranno utili per allungare le rotazioni (più il secondo del primo, a dir la verità). Ma comunque, senza girarci troppo intorno, questi dovranno essere i playoff di Antetokounmpo: se vuole prendersi il mondo, ora è il momento di fare sul serio.
Toronto Raptors
di Daniele V. Morrone
La squadra più profonda e camaleontica, con un Kawhi Leonard in sospeso.
Toronto forse non ha mostrato i picchi di gioco visti in stagione regolare da parte di Milwaukee, ma la differenza tra questa versione dei Raptors e il resto delle contendenti a est è che i Raptors sono costruiti pensando ai playoff. Per questo hanno organizzato tutta la stagione per permettere sia a Kawhi Leonard che a Kyle Lowry di arrivare il più sani possibile, anche a costo di perdere qualche partita in più del necessario. E per questo Masai Ujiri ha forzato lo scambio per Marc Gasol a metà stagione, con tutti i rischi del caso. E per questo Nick Nurse ha lavorato per tutta la stagione provando diverse rotazioni soprattutto tra i lunghi invece di accontentarsi di una fissa su cui costruire il sistema.
Lo stesso sistema dei Raptors è stato modellato più e più volte durante la stagione, ritoccandolo per provare più cose possibili. Hanno inciso su questo un po’ le tante assenze di Leonard, l’esplosione di Pascal Siakam e l’arrivo di Gasol: Toronto ha iniziato la stagione regolare con un sistema praticamente binario (con Leonard e senza Leonard) e l’ha conclusa invece con un insieme di pick and roll, circolazione del pallone per vie esterne e l'utilizzo di Gasol come hub per i tagli verso il canestro. La palla gira bene e in modo democratico, e con Leonard non manca comunque la stella a cui affidare un canestro forzato se serve. Ecco, forse proprio la continuità di Leonard in un periodo così pieno di partite ravvicinate può essere la variabile per determinare il reale potenziale dei Raptors.
https://twitter.com/TheRenderNBA/status/1114958468241330177
Dall’arrivo di Gasol i Raptors sono passati dal 23° posto a chiudere la stagione al primo posto per percentuali da 3.
Rimane il fatto che anche in difesa Toronto è una garanzia: può permettersi nel quintetto che chiude le partite con la protezione del ferro con Gasol, due giocatori superversatili come Leonard e Siakam e un difensore élite sugli esterni come Danny Green. L’unico punto di domanda su questa strutturazione è la tenuta a rimbalzo difensivo, dove la percentuale di rimbalzi presi è solo nella media. Toronto ha comunque chiuso la stagione come secondo miglior record della Lega, come terza per Net Rating, come terza per percentuale effettiva e come quarta per eFG% concessa. La profondità del roster non ha lo stesso valore ai playoff come in stagione regolare, ma per i Raptors anche la rotazione ristretta ai primi nove giocatori - con Leonard, Lowry, Green, Siakam e Gasol come quintetto che chiude le partite e Ibaka, Anunoby, VanVleet e Powell uscendo dalla panchina - è un gruppo che può adattarsi a qualunque avversario su entrambi i lati del campo, garantendo una versatilità come nessuna pretendente ad Est.
Philadelphia 76ers
di Lorenzo Bottini
Talento vs chimica.
Poche squadre entrano nei playoff con il talento su cui possono contare i Sixers. Il quintetto base formato da Simmons, Redick, Butler, Harris ed Embiid distrugge gli avversari dandogli 17.6 punti di scarto ogni 100 possessi. Solo tre lineup in NBA fanno meglio dello starting five di Phila, e due di queste hanno la maglia dei Warriors. Allo stesso tempo, bisogna pur dire che quel quintetto ha giocato molto poco insieme (solo 161 minuti) - sia perché la trade per Tobias Harris è arrivata a metà stagione, sia per i cronici problemi fisici che caratterizzano la carriera di Embiid.
La condizione del lungo camerunense è il vero ago della bilancia per la squadra allenata da Brett Brown. Ha giocato solo 10 delle 24 partite in programma dopo l’All-Star Game per non meglio specificati problemi al ginocchio ed è stato risparmiato per farlo arrivare pronto ai playoff. Tutto nella norma, se non fosse che nelle interviste di rito subito dopo la fine della stagione regolare sia Brett Brown che Elton Brand sono stati estremamente elusivi sull’argomento, lasciando intendere che Joel possa saltare alcune delle prime partite contro Brooklyn.
Ultima partita giocata da Embiid contro Brooklyn. Un solo aggettivo: dominante.
I Nets sono una delle vittime preferite del lungo, che ha chiuso le sfide contro i Nets a 30 punti e 14 rimbalzi di media con il 60% dal campo e il 45% da tre punti. Cifre da capogiro che dimostrano quanto la presenza di Embiid sia decisiva per sbloccare l’ultimo livello di competitività dei Sixers, che con lui in campo sono 8-2 contro le altre quattro nobili della Eastern Conference (Bucks, Raptors, Celtics, Pacers). Attorno a lui le altre stelle devono trovare il modo di brillare di luce propria, e se a Butler e Harris si chiede soprattutto di essere dei role player extralusso, le questioni tattiche riguardo il ruolo di Simmons rimangono aperte. Specialmente quando le difese cominceranno a raddoppiare forte su Embiid, situazione dove in stagione i Sixers hanno segnato solo 89 punti in 108 possessi: Brown dovrà trovare delle contromisure con lo scarso materiale umano disponibile. La panchina cortissima e praticamente inutilizzabile ad alti livelli costringerà i migliori giocatori a minutaggi importanti - da una parte massimizzando il talento della squadra, dall’altra consumandoli in vista di serie lunghe e accese contro le altre rivalità ad Est.
I Sixers hanno scommesso pesantemente sul talento, sacrificando in suo nome la chimica e la profondità di squadra. Scelte rischiose che troveranno la loro validazione durante questi playoff, sempre sperando che il ginocchio di Joel non faccia scherzi.
Boston Celtics
di Nicolò Ciuppani
Arriveranno in tempo per i playoff?
In una stagione che è stata un continuo di sali-scendi, anche la prossima serie playoff sembra voler proseguire sulla stessa falsariga per i Boston Celtics. I biancoverdi dovrebbero essere teoricamente soddisfatti di aver pescato gli Indiana Pacers, orfani del loro miglior giocatore - Victor Oladipo - per un infortunio al ginocchio, ma le ultime giornate di regular season hanno procurato un problema muscolare agli addominali a Marcus Smart, che salterà dalle 4 alle 6 settimane di attività fisica.
Per i Celtics è l’ennesimo brutto colpo: Smart è senz’altro il miglior difensore tra quelli a disposizione di coach Brad Stevens, e sarebbe stato ideale da poter schierare a ombra su Bojan Bogdanovic che ha assunto il ruolo di terminale offensivo più pericoloso per i Pacers. Invece i Celtics si ritrovano a dover già effettuare degli aggiustamenti prima di gara 1: potrebbero provare Gordon Hayward per sostituire Smart nello scacchiere, anche se la sua forma (seppur in crescita nell’ultimo periodo) non è ancora ai livelli prima dell’infortunio. Il resto del roster non fornisce risposte certe: Jaylen Brown potrebbe essere una valida alternativa, ma durante l’anno non ha mai brillato nel ruolo e ultimamente sembra soffrire di qualche dolore alla schiena, mentre Terry Rozier e Jayson Tatum non hanno semplicemente mantenuto le aspettative che avevano costruito agli scorsi playoff; anche Al Horford, in certi momenti della stagione, è sembrato in difficoltà con un fisico di difficile manutenzione.
L’unica certezza di questa stagione sembra essere Kyrie Irving, che è sembrato portare in campo un rendimento costante ed estremamente efficiente, anche se i tifosi Celtics preferirebbero vederlo agonizzante piuttosto che davanti ad un microfono. I biancoverdi si affidano quindi ancora una volta al loro allenatore, che nelle passate stagioni è riuscito a spremere dal proprio roster sempre qualcosa di più di quanto ci si potesse aspettare - ma, a differenza degli anni scorsi, non ha una squadra che sembra volare sulle ali dell’entusiasmo. I Pacers rischiano di essere un ostacolo più arduo del previsto, e la brutta notizia è che le difficoltà sono destinate ad aumentare ad ogni singolo turno: meno di un anno fa sembrava lecito chiedersi se i Celtics avrebbero vinto l’Est per molti anni a seguire, oggi non sembra scontato neppure l’approdo alle semifinali di conference.
Indiana Pacers
di Dario Ronzulli
Che squadra di playoff sono senza Victor Oladipo?
Quando il 23 gennaio scorso Victor Oladipo si è infortunato nella sfida contro i Toronto Raptors, la stagione dei Pacers sembrava in procinto di implodere. Una squadra costruita in gran parte sulle caratteristiche della sua stella - capace già l'anno scorso di trascinare ai playoff e a gara 7 contro LeBron James un gruppo atteso a una stagione da comparsa – è stata costretta a ripartire quasi da capo e con molto meno talento.
Va dato atto a coach Nate McMillan di aver saputo trovare una nuova alchimia di squadra, e pure in fretta. E va dato merito a tutti i giocatori – Domantas Sabonis e Bojan Bogdanovic su tutti - di essersi rimboccati le maniche e di aver alzato il proprio livello di gioco nel momento del bisogno. Nel complesso, però, l'assenza di Oladipo pesa eccome. Considerando tutta la stagione regolare, i Pacers sono quarti per percentuale dal campo sui 100 possessi e quinti dall'arco; ma contando le 35 partite post 24 gennaio sono decimi dal campo, pur rimanendo in zone altissime per quanto concerne i tiri da 3. Il volume dei tiri è rimasto lo stesso, così come il numero di possessi, ma in troppi momenti si è sentita l’assenza del talento offensivo dell’ex Magic e Thunder, quando l’attacco ristagnava e faticava a trovare ritmo e spazio.
Quello che è cambiato maggiormente è stata la quantità di palloni dati sotto per i lunghi, in primis per Myles Turner e Thaddeus Young. Questa potrebbe anche essere la chiave per mettere in difficoltà Boston, che ha dei lunghi meno fisici rispetto a quelli di Indiana a cui potrebbe contrapporsi schierando Aron Baynes con Horford da ala forte, per sfruttare i problemi a rimbalzo dei Pacers, in enorme difficoltà tutto l'anno quando si è trattato di battagliare sotto i tabelloni (22esimi per percentuale a rimbalzo difensivo, solo Brooklyn e Houston fanno peggio tra le squadre da playoff).
In definitiva, Indiana ha fatto grandi cose l'anno passato e se possibile ne ha fatte di maggiori in questo tenendo la posizione playoff nonostante il ko del suo leader. Ma senza Oladipo sembra davvero difficile poter superare il primo turno, per quanto il gruppo sia determinato e convinto.
Brooklyn Nets
di Miky Pettene
In anticipo sul tabellino e mortali in the clutch.
18 Febbraio 2016. La classica data che verrà ricordata per aver cambiato le sorti di una franchigia. Solo nel 2013 il General Manager Billy King veniva managerialmente stuprato da Danny Ainge con “La rapina del secolo”, dando vita a un purgatorio che sarebbe presto diventato un inferno da 20-62 nel 2016-17, il peggior record dell’intera NBA.
Poi, lentamente, la luce sempre più intensa: grazie all'ex Spurs e nuovo GM Sean Marks e il nuovo coach Kenny Atkinson, Brooklyn lo scorso anno aveva già mandato dei chiari segnali, giocando "the right way" con un team giovane, atletico, futuribile, sano. Mancava solo la stella: pochi pensavano che potesse esserlo D'Angelo Russell, bocciato troppo rapidamente dai Lakers con gli occhi a cuoricino per Lonzo Ball, ma la notte incredibile (una delle tante) dei 44 punti in rimonta su Sacramento del 19 marzo ha tolto qualsiasi dubbio.
Una delle partite che hanno lanciato i Nets ai Playoff: la rimonta folle contro Sacramento.
"D-Loading" condurrà contro Philadelphia nel primo turno dei playoff una truppa senza pressioni che non ha alcun timore di essere arrivata prima delle previsioni (altrui) tra le prime otto dell'Est: merito di tanti protagonisti - dal miglior tiratore NBA per percentuale Joe Harris alla reattività di Jarrett Allen e del suo afro taglia so ‘70s, a un Caris LeVert in decollo - ma soprattutto di un’estrema fiducia in un sistema "moderno" fatto di ritmi alti, una panchina seconda per punti segnati nella Lega, tanti tiri in area e da tre (quinti per triple segnate), una difesa solida nelle stesse due zone del campo. E a tutto questo si aggiunge pure un’inattesa qualità da squadra matura, la mentalità vincente nel“crunch time" (55% di vittorie su 44 partite).
Grazie allo swag di Russell, certo, ma anche a un altro go-to-guy, Spencer Dinwiddie, candidato a Sesto Uomo dell'Anno e decisivo anche contro i 76ers (2-2 il confronto stagionale: serie lunga?). Ma se di singola prestazione dobbiamo parlare, allora la più importante per peso specifico rimane quella di Russell del 7 dicembre 2018 contro una corazzata come Toronto: i Nets arrivavano da una striscia di 8 sconfitte e un’orrenda partenza da 8-18 ma Russell, con dei canestri da urlo tra ultimo quarto e overtime, riportò alla vittoria le Retine, che da lì non si sarebbero più fermate. Fu l’inizio di un percorso da 34 vinte e 22 perse che li ha riportati dritti dritti ai playoff dopo tre stagioni da dimenticare.
Come dice il “loro” JAY Z: “Your boy back in the building, Brooklyn we back on the map!”.
Orlando Magic
di Fabrizio Gilardi
Cosa sono i Magic?
I Magic sono innanzitutto la squadra più giovane tra le qualificate ai playoff ad Est e la seconda alla pari con Portland se si include l’Ovest, appena dietro a Denver che è l’unica a restare sotto i 25 anni di età media. Tra i giocatori impiegati regolarmente solo D.J. Augustin è nato negli anni ‘80, mentre sono ben tre gli under 25: Aaron Gordon, Wes Iwundu e Jonathan Isaac, la spina dorsale della terza miglior difesa della NBA a partire da Natale, momento che per molti coincide con il vero inizio della stagione.
Un attimo, chi? La domanda è certamente legittima, perché è legittimo non avere la più pallida idea di chi siano i giocatori di complemento di una squadra che per 7 anni è stata del tutto irrilevante. Aaron Gordon è noto alle masse anche grazie alla battaglia con Zach LaVine nel Dunk Contest del 2016 ed in questa stagione ha compiuto un deciso miglioramento nella comprensione del gioco, sviluppandosi come glue guy di ottimo livello. Iwundu invece è la cosa più simile a Thabo Sefolosha versione Thunder vista negli ultimi anni, mentre Isaac è la sesta scelta del Draft 2017, un progetto estremamente intrigante di… non si sa ancora bene cosa, ma che pur con gli alti e bassi tipici dei suoi 21 anni si è reso protagonista di prestazioni degne di nota, in alcune occasioni anche in attacco.
I Magic sono stati secondi a rimbalzo difensivo dietro ai Jazz e secondi nel gestire le transizioni avversarie dietro ai Bucks, entrambe caratteristiche che sono marchi di fabbrica di Steve Clifford, appena eletto coach del mese di aprile e vero valore aggiunto della squadra in questa stagione. Perché che Orlando potesse arrivare fin qui era assolutamente impronosticabile sia in autunno - quando i bookmakers di Las Vegas avevano indicato 30 vittorie come quota di riferimento per scommesse over/under - sia alla fine di gennaio, quando si trovavano a 10 vittorie di distanza da un record positivo. E hanno quasi certamente già raggiunto il massimo del proprio potenziale, perché il talento offensivo è obiettivamente inadeguato: Nikola Vucevic, meritatamente convocato per l’All-Star Game, è l’unico giocatore in grado di creare attacco e attirare l'attenzione delle difese avversarie, ma dietro di lui i realizzatori principali sono Terrence Ross e Evan Fournier, ottimi nella propria serata migliore, ma dannosi in quella peggiore per evidenti limiti rispettivamente di selezione di tiro e playmaking. Ed anche l’eccellente difesa messa in mostra in regular season resta sospetta per un livello di competizione più alto, perché per quanto gli schemi di Clifford e la competenza degli esterni possano coprire alcune lacune resta il fatto che il difensore sul punto di attacco è Augustin, sottodimensionato e non esattamente uno specialista, e a centro area c’è Vucevic, che non fa certo della mobilità laterale la sua arma principale.
Orlando è una squadra molto ben allenata in cui il rendimento del collettivo è superiore a quello della somma delle singole parti e che difficilmente si batte da sola, ma che per avversarie di un certo rango come i Raptors non dovrebbe rappresentare certo un ostacolo insormontabile. In ogni caso si può essere ampiamente soddisfatti, mentre ci si augura che Markelle Fultz e Mo Bamba possano garantire in futuro il talento necessario per competere anche ai playoff.
Detroit Pistons
di Dario Costa
Le ginocchia di Blake Griffin contro il mondo.
Chiusa senza grandi rimpianti l’era Stan Van Gundy, nella scorsa estate in Michigan hanno deciso di ingaggiare Dwane Casey con un’idea molto chiare: tornare ai playoff in qualsiasi modo e il più in fretta possibile. Con una sola presenza nella post-season negli ultimi dieci anni, i Pistons hanno puntato sul coach dell’anno in carica per costruire la loro scalata verso la parte alta della classifica della non irresistibile Eastern Conference. Obiettivo centrato, soprattutto grazie al rendimento tenuto tra febbraio e marzo (17-9 il record, 11-1 tra le mura amiche) e l’effetto benefico delle trade che hanno portato altrove Stanley Johnson e Reggie Bullock, lasciando spazio a tiratori più affidabili come Wayne Ellington o trattatori di palla come Ish Smith.
Un effetto che però è sembrato svanire nelle ultime settimane, anche se Miami e Charlotte non ne hanno approfittato. Alla nuovissima Little Caesars Arena andrà quindi in onda la sfida a Giannis Antetokounmpo e ai Milwaukee Bucks, squadra con il miglior record della lega. Le chances dei Pistons sono di fatto nulle, la speranza anche solo di allungare la serie passa dalle ginocchia di Blake Griffin (non in perfette condizioni, per usare un eufemismo) e dalle percentuali dalla lunga distanza dei compagni che si alterneranno in quintetto a fianco dell’ex-Clippers insieme a Drummond e Jackson. Non è molto, ma a Detroit, dopo un decennio di amarezze vere, ci si può accontentare - ed è un atteggiamento consigliabile anche per gli anni a venire.
Western Conference
Golden State Warriors
di Fabrizio Gilardi
I più forti nonostante tutto.
Se le stagioni NBA avessero dei titoli, come gli episodi di una serie TV o di una saga cinematografica, per la 2018-19 Gli Elefanti nelle Stanze sarebbe certamente adeguato. E due di questi elefanti, uno dei quali probabilmente è il più grosso di tutti, stanno in una stanza sola che si affaccia sulla Baia di San Francisco.
La piazzata tra Kevin Durant e Draymond Green risale ormai a cinque mesi fa e pare preistoria. Ormai non è cronaca quotidiana - insieme al probabile addio di KD a fine stagione - solo perché gli Warriors sono una franchigia gestita in modo esemplare e che lava in casa i propri panni sporchi, anche quelli che richiedono pre-lavaggio con candeggina e altri trattamenti supplementari a causa della quantità e persistenza delle macchie.
Si riuscirà a fare altrettanto anche sotto pressione, magari in situazione di svantaggio in una serie come successo lo scorso anno contro i Rockets? Questo enorme elefante è una questione di spogliatoio che può avere ripercussioni sul campo; l'altro è un questione di campo che può avere ripercussioni sullo spogliatoio. Nel caso nemmeno poi così remoto in cui la bilancia di DeMarcus Cousins dovesse pendere più verso il segno meno dell'oggettiva fatica a difendere in certe situazioni di gioco che verso il segno più del contributo offensivo, sarà possibile ridurre la sua presenza in campo a pochi e ben selezionati minuti senza ripercussioni?
Guardando oltre gli elefanti, però, gli Warriors se sani paiono ancora intoccabili e oltretutto le condizioni fisiche di Andre Iguodala sono molto più simili a quelle del 2015 che a quelle degli ultimi due anni. Il margine sugli avversari magari si è ridotto, ma dovrebbe essere ancora ampiamente sufficiente per portare a casa il terzo titolo in fila.
Denver Nuggets
di Dario Vismara
Con così poca esperienza condivisa, come reagiranno alle prime avversità?
Tra tutte le squadre della Western Conference, quella che si porta dietro più punti di domanda paradossalmente è quella che ha concluso come prima tra le “umane” della conference. Sarà perché il record contro le squadre sopra il 50% di vittorie è un “normale” 24-20; sarà perché buona parte del bottino è stato raccolto contro le squadre più scarse (30-8 il record) e grazie a un rendimento eccellente nei finali tirati (13-3 con punteggio finale entro tre punti). E sarà per il fattore campo, con l’altitudine di Denver che fa sempre la differenza non appena i Nuggets sono minimamente competitivi (34-7, nessuno come loro in tutta la NBA). Eppure attorno a loro ci sono più dubbi di quanti se ne porta normalmente dietro una squadra che ha vinto 54 partite e che ha chiuso con la seconda testa di serie nella conference più difficile.
A far storcere il naso a molti è anche l’esperienza di playoff pressoché inesistente sia per i protagonisti in campo che per il coaching staff, soprattutto perché al primo turno dovranno vedersela contro i volponi di San Antonio guidati da Popovich e Messina. Ecco allora che l’upset sembra dietro l’angolo, specialmente perché questa squadra - tolto Paul Millsap - non ha ancora provato sulla propria pelle cosa vuol dire affrontare una serie di playoff e, soprattutto, come bisogna reagire davanti alle inevitabili avversità che la post-season ti costringe a gestire. Detto questo, tra i vari accoppiamenti che potevano capitare quello con gli Spurs non è nemmeno il peggiore da un punto di vista tecnico-tattico, visto che la presenza fissa di uno o due lunghi “statici” come Aldridge e Poeltl permetterà a coach Malone di tenere in campo Nikola Jokic senza che le sue mancanze difensive vengano esposte da uno “stretch 5” o da un lungo particolarmente dinamico a 8 metri dal canestro.
Un giocatore semplicemente da amare.
È ovviamente vero anche il contrario, con gli Spurs che si accoppiano bene con i Nuggets (come dimostra anche il 2-2 nella serie stagionale, con la squadra in casa sempre vincente), però per Denver aver evitato di finire dalla parte di Golden State, Houston e Utah è già un successo. Ora bisognerà difendere il proprio campo e confermare il proprio status di favorita, cosa tutt’altro che scontata: ma se davvero ci troviamo di fronte a una contender per gli anni a venire - quando magari sarà passata la “mareggiata” Golden State -, questo è l’anno per scoprirlo.
Portland Trail Blazers
di Miky Pettene
Senza Jusuf Nurkic sono ancora una mina vagante?
La risposta potrebbe essere racchiusa tutta negli ultimi secondi della vittoria casalinga contro i Lakers di tre giorni fa: successo sudato molto più del previsto contro una squadra eliminata dai playoff e in piena crisi esistenziale e gara risolta non da una delle due superstelle bensì da una tripla allo scadere di Mo Harkless dall’angolo, celebrata sui social con molta enfasi proprio dall’assist man di quel buzzer beater, il rientrante C.J. McCollum.
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For the game ! Good shiiii @moe_harkless
Un post condiviso da CJMcCollum (@3jmccollum) in data: Apr 9, 2019 at 10:46 PDT
Festeggiamenti che raccontano di una squadra che inizierà il primo turno dei playoff contro OKC con degli equilibri ancora in fase di assestamento, dopo il brutto infortunio subìto dal loro centrone titolare Jusuf Nurkic lo scorso 25 marzo, ma che sembra aver già iniziato a trovare delle valide alternative alla mancanza di una pedina fondamentale (11mo Net Rating Nba!) all’interno della loro pallacanestro, con 7 vinte su 9 da allora e il terzo attacco della Lega mantenuto nonostante tutto (così come il terzo posto ad Ovest dello scorso anno).
Con il bosniaco ko infatti Portland ha cercato di resistere al fascino di una struttura giocoforza iper-dipendente dagli esterni scovando all’interno del proprio roster i giusti cavalli di battaglia, liberati dalle gabbie dello scarso minutaggio durante l’assenza di McCollum (tornato nel finale di stagione dopo un infortunio al ginocchio sinistro) e dello stesso Nurkic. Enes Kanter sta regalando a coach Terry Stotts quella qualità offensiva fondamentale per togliere pressione all’All-Star Damian Lillard, seguito nel salto di livello dal sorprendente Jake Layman e soprattutto dalle due guardie Seth Curry e la prima scelta dei Blazers di quest’anno, Anfernee Simons, che nell’ultima (assurda) partita di regular è sembrato sinistramente simile al fenomeno dei Magic degli anni Novanta da cui i genitori hanno preso il nome.
Tutte buone notizie per la City of Roses, ma che potrebbero non compensare uno degli accoppiamenti più temuti della vigilia: contro i Thunder Portland non ha mai vinto quest’anno, e nonostante abbiano fatto di tutto per perdere all’ultima contro i Kings per evitarli, non ci sono riusciti, “condannandosi” a una serie durissima che profuma molto di upset (Steven Adams-alert senza il corpaccione di Nurkic da opporre). Un solo vero appiglio: ad aprile, ancora di più, c’è bisogno che sia Lillard-Time (+6,2 di plus/minus quando è in campo, miglior dato di squadra).
Houston Rockets
di Nicolò Ciuppani
Paul riuscirà a rimanere intero e Harden avrà ancora energie?
I Rockets sono ossessionati dal battere Golden State: è ciò per cui sono stati costruiti ed è ciò per cui giocano, e una delle poche certezze di questi playoff è che i Rockets faranno di tutto per riuscirci. Forse, però, sono i meglio attrezzati per farlo.
Houston è evoluta diverse volte nel corso della stagione, trovando via via le fortune con vari carneadi (Danuel House, Austin Rivers e Iman Shumpert per citarne alcuni) e, dal ritorno di Chris Paul, sono via via tornati allo rango che competeva loro l’anno scorso, quando hanno chiuso con il miglior record della lega. Houston è l’unica squadra della lega che non sembra partire sconfitta con gli Warriors prima ancora di scendere in campo: hanno vinto la loro serie in regular season per 3-1, dopo aver vinto 2-1 l’anno scorso ed essere andati sul 3-2 prima dell’infortunio di Paul sul finale di gara-5 nelle ultime finali di conference. Ai Rockets è mancato il colpo del ko che sperano di sferrare da tempo - e le loro speranze si basano, come sempre, su James Harden.
Il Barba è ormai universalmente riconosciuto come uno degli attaccanti più devastanti di sempre, portando il suo gioco a livelli di impatto e di rivoluzione del gioco vicini a quelli di Curry nel secondo anno da MVP. Per rendere conto della misura del suo gioco, Harden tenta quasi 14 triple a partita, la maggior parte delle quali sono step back dal palleggio senza aver nemmeno passato la palla a qualcuno prima. Anche Curry nella sua stagione monstre, per dare un’idea,si era fermato a 11 tentativi.
I livelli offensivi di Harden sono quello che risalta agli occhi più di qualunque cosa, ma è passata in secondo piano la sua fase difensiva, che si è evoluta da “materiale da meme” ad “arma tattica” nel corso dell’anno. Il sistema di cambi difensivi di Houston porta l’MVP in carica a marcare in post i 4 o i 5 avversari, ed Harden ha la struttura fisica per resistere ai loro urti oltre che un paio di mani tra le più veloci della lega. Il risultato è un giocatore che è secondo in assoluto per palle deviate e che costringe gli avversari in post ad un misero 37% dal campo quando viene portato in post.
La questione quindi non è tanto se i Rockets hanno le armi necessarie per battere Golden State al secondo turno, ma se saranno sani e in forma abbastanza a lungo per farlo. I Jazz al primo turno non sono certamente un avversario facile, con Snyder e i suoi faranno di tutto per portare avanti la serie il più a lungo possibile. I Rockets l’anno scorso si sono fermati fondamentalmente perché Chris Paul era andato oltre al suo limite fisico e Harden aveva finito la benzina. Considerati gli acciacchi di Paul con un anno in più sulle spalle e il carico di lavoro che Harden ha sostenuto, non è detto che la situazione sia migliorata.
Ma, come si suol dire, esiste un solo modo per liberarsi di un’ossessione.
Utah Jazz
di Dario Vismara
Come lo scorso anno, più dello scorso anno?
L’andamento della regular season dei Jazz è stato pressoché identico a quello della scorsa stagione: un inizio balbettante (dovuto soprattutto al calendario) a cui ha fatto seguito una rinascita entusiasmante (dovuta soprattutto al calendario). Se non altro, i Jazz arrivano alla post-season nel momento di forma migliore, potendo contare sulle certezze acquisite dalla scorsa stagione - a partire dall’affidabilità dei due migliori giocatori, Donovan Mitchell e Rudy Gobert - e sull’eccellente lavoro di coach Quin Snyder.
Quello che sembra mancare è però quel cambio di passo, quella scintilla, quel giocatore di talento in grado di cambiare il battito cardiaco della squadra. Nelle migliori intenzioni avrebbe dovuto essere Dante Exum, ma gli infortuni hanno bloccato qualsiasi speranza di poterne tirare fuori il giocatore che prometteva di essere arrivando al Draft. Rimane allora da sperare che Ricky Rubio becchi quel raro allineamento dei pianeti che gli permette di segnare qualche tiro in sospensione quando viene battezzato per poter avere una chance contro il mostro a due teste formato da James Harden e Chris Paul, che è scivolato al quarto posto per una Serie di Eventi ancora più Sfortunati di quelli dei fratelli Baudelaire.
https://twitter.com/jeongadam/status/1116289457139793920
Bastava solamente una di queste tre cose estremamente improbabili e i Jazz non avrebbero preso Houston al primo turno.
Se i pregi dei Jazz sono ben noti, altrettanto lo sono i difetti: abbiamo già visto questa squadra andarsi a schiantare contro i Rockets ai playoff dello scorso anno per le palesi mancanze di alternative offensive allo schema “Donovan, per favore pensaci tu che nessuno riesce a creare un vantaggio”. E allo stesso modo Harden sembra essere diventato ancora più inarrestabile rispetto alla versione da MVP dell’anno scorso, aggiungendo in faretra un floater in avvicinamento che lo rende di fatto immarcabile. Però i Jazz ci proveranno fino all’ultimo: già solo questo dovrebbe rendere la serie godibile da seguire.
Oklahoma City Thunder
di Lorenzo Bottini
Che tipo di Paul George si presenterà e quali giocatori di ruolo saranno decisivi?
Lo scorso 31 marzo i Thunder perdevano in casa un matinée contro i Dallas Mavericks privi di Luka Doncic e sembravano condannati all’ottava piazza, ovvero a schiantarsi sugli Warriors al primo turno. Invece, invertendo per la millionesima volta la tendenza della loro stagione, Russell Westbrook e soci hanno vinto le successive cinque partite e sono riusciti ad issarsi fino alla sesta posizione, finendo dalla parte opposta del tabellone rispetto a Warriors e Rockets. Molto lo devono alla tripla dall’angolo con la quale Paul George ha sorpassato in volata Houston, regalando ad Oklahoma City la parte più morbida di tabellone in maniera rocambolesca.
PG13, dopo una lunga parte di stagione giocata a livelli supersonici, è stato rallentato da un infortunio alla spalla che ancora ne limita l’efficacia al tiro (49% di percentuale effettiva e il 34% da tre nelle 18 partite dopo l’infortunio). In sua assenza Westbrook ha aumentato la sua influenza (17.4 di PIE dopo l’All Star Game contro il 16 stagionale), migliorando sensibilmente le sue percentuali al tiro e diminuendo il numero di palloni gettati al vento. Il tutto ovviamente mentre accatastava triple doppie, raggiungendo Magic Johnson e scrivendo una delle più iconiche prestazioni individuali di sempre con il 20-20-20 contro i Lakers.
La doppia tripla doppia di Russ dedicata a Nipsey Hussle
Dalle prestazioni delle due superstar passeranno le fortune dei Thunder ai playoff, che hanno desiderio di rivincita dopo la brutta figura fatta lo scorso anno contro gli Utah Jazz. Ma se Russell e George sono rimasti, la morfologia della squadra intorno a loro è decisamente cambiata. Rispetto alla stagione passata sia Jerami Grant che Terrance Ferguson sono diventati punti inamovibili del quintetto di Billy Donovan e dovranno dimostrare di meritare i minuti guadagnati finora, garantendo spaziature e intensità fisica insieme a Steven Adams. Inoltre sono due pezzi fondamentali per la difesa di Oklahoma, che, dopo un inizio di stagione ad alta efficacia ha perso via via di incisività. Con il tempo gli avversari hanno preso le misure alle tecniche difensive di Billy Donovan e hanno imparato a giocare contro l’iper-aggressività sulla palla sfruttando i buchi lasciati al centro e negli angoli. Ritrovare la propria identità difensiva e un Paul George versione MVP sono due imperativi per la squadra dell’Oklahoma per far rumore in questa post-season ora che la strada verso le finali di conference si è resa improvvisamente più agevole.
San Antonio Spurs
di Dario Ronzulli
Cosa ha preparato Pop per i playoff?
“Io sono ancora qua, eh già”. Probabilmente Vasco ha scritto questo testo pensando a Gregg Popovich. O forse no, ma ci piace pensarlo ugualmente. 22 anni consecutivi ai playoff, con giocatori diversi, con idee di basket diverse, con applicazioni diverse. Quest'anno, probabilmente, la qualificazione meno prevedibile di tutte non perché mancassero le qualità – DeRozan e Aldridge sono pur sempre due giocatori calibro All-Star – ma perché la squadra non pareva costruita al meglio.
E invece gli Spurs sono ancora qua, e sono molto più di una semplice mina vagante. Hanno impiegato più tempo del solito per trovare un equilibrio e ci sono stati almeno un paio di momenti (su tutti il Rodeo Trip di febbraio con 7 sconfitte in 8 partite) in cui sembrava che strutturalmente non fosse possibile riuscirci. Un dato su tutti: la difesa è stata la 20^ per punti subiti ogni 100 possessi, il dato peggiore dell'era Popovich. La partenza di Kawhi Leonard, certo, ma anche l'addio a Danny Green e Kyle Anderson e l'infortunio di Dejounte Murray: tutta gente abituata a difendere in maniera aggressiva sul perimetro.
Ma nonostante questo, gli Spurs sono ancora qua. Con due armi da utilizzare nella serie contro i Nuggets: la maggiore esperienza playoff – che è il modo positivo per vedere l'età media più alta rispetto a Denver – e l'apporto della panchina. La second unit di San Antonio è probabilmente l'aspetto che meglio ha funzionato, soprattutto nella seconda parte della stagione. Patty Mills cambia ritmo alle partite, Marco Belinelli sa come uscire dallo spartito, Davis Bertans allarga il campo con pericolosità come nessun lungo neroargento riesce a fare. Sono le carte che Popovich può giocarsi con sicurezza in questa post-season. Dando per scontato che tirerà fuori qualche coniglio dal cilindro per limitare Jokic: togliere al serbo linee di passaggio pulite potrebbe essere la chiave per la serie, ad esempio; oppure potrebbe decidere di dare minutaggi più ampi a quintetti più pericolosi dall'arco anche per creare più spazio dentro per Aldridge e DeRozan (tornato a vedere il mid-range come unica ragione di vita). Gli starà pure antipatico il tiro da tre, ma Pop è troppo furbo per non saperne e capirne l'importanza.
L.A. Clippers
di Dario Costa
Come giocheranno ai playoff quando le panchine scendono come impatto?
Nel giochino, a volte un po’ stucchevole, del “trova le differenze” tra la stagione regolare e i playoff, la riduzione delle rotazioni è una delle risposte più gettonate. Le panchine lunghe, ausilio necessario per circumnavigare il mare magnum delle 82 partite di regular season, perdono la loro importanza con l’arrivo della primavera per poi diventare un orpello quasi inutile nelle settimane successive, quando l’assenza di back-to-back e di viaggi lunghi permette recuperi più veloci dalle fatiche dovute ai minutaggi più pesanti.
In questo senso per i Clippers - che hanno costruito la loro sorprendente stagione sulla tenuta del collettivo - l’imminente inizio della post-season non sembra portare buone notizie. Arrivati ai playoff nonostante il continuo mulinare delle porte girevoli applicate allo spogliatoio, i ragazzi di Doc Rivers si troveranno a fare i conti con un roster profondo ma con poca esperienza ad alti livelli. Gallinari e Beverley, insieme al duo di candidati al premio di sesto uomo Williams/Harrell, sono stati gli unici punti di riferimento stabili di un’annata in cui la squadra ha cambiato pelle più di una volta, coadiuvati da esordienti e giocatori arrivati in gran parte a stagione in corso. L’assetto, quindi, non appare quello ideale per affrontare sfide il peggiore degli avversari possibili nei Golden State Warriors.
Per i Clippers, ad ogni modo, il solo fatto d’aver conquistato un posto tra le prime otto della conference più difficile rappresenta un successo non da poco, condizione che gli permetterà di scendere in campo con poco o niente da perdere. Quella con gli Warriors, per il Gallo e compagni, ha più che altro il valore simbolico di un ultimo, azzardato passo di danza in un lungo balletto seduttivo, con la speranza di indurre in tentazione i migliori free agent disponibili sul mercato dal prossimo luglio.