Come ogni anno il Super Bowl produce un incrocio di storie fitto e singolare, che costringe i media a voler raccontare tutte le angolature e i contorni della partita. A intervistare le famiglie dei giocatori, i loro allenatori di High School e College, l'obiettivo è dipingere l'intero quadro dei retroterra di tutti i possibili protagonisti della partita. Letture che, in fondo, servono solo a smorzare la tensione per l'unica cosa che conta per gli appassionati: il calcio d’inizio della partita. E questa sfida ha davvero tanto da offrire.
Cam vs Peyton
Il duello tra i due quarterback rappresenta sempre una pellicola a sé stante. Il Super Bowl ha visto scontrarsi numerose leggende del ruolo, e spesso le vittorie nella partita più importante del campionato tendono a fare la differenza quando si giudica la carriera di un grande campione. Quest’anno non fa eccezione, e la storyline della cinquantesima edizione è probabilmente tra le più accattivanti di sempre. Denver e Carolina propongono un incrocio tra registi che faticosamente possiamo andare a paragonare con qualche partita del passato, proprio perché il destino ha scelto due protagonisti che vivono un momento di carriera esattamente contrapposto, e che possiedono caratteristiche tecniche troppo differenti per poter essere giudicati sotto un’unica lente d’ingrandimento.
Il momento più alto della vita sportiva di Cam Newton corrisponde esattamente al tramonto dello splendido viaggio di Peyton Manning, inserendo in questo irripetibile palcoscenico un giocatore dotato di uno strapotere fisico che al momento sembra impossibile da fermare, e uno che si è virtualmente trascinato a fatica in questo ennesimo anno giocato con il massimo dell’impegno, il massimo della professionalità, ma con dei limiti fisici ben delineati, tanto da indurre coach Gary Kubiak e il suo staff a studiare piani di gioco improntati sulle corse, così da non affaticare un braccio che francamente non regge un'ora di football.
Potrebbe essere il Super Bowl del definitivo passaggio del testimone, ma è nel contempo una partita unica nel suo genere, che riesce a far confluire nel medesimo scenario le due correnti di pensiero in voga nella NFL, stretta nel perenne confronto fra tradizione ed innovazione. Peyton Manning rappresenta alla perfezione la figura del pocket passer classico, 196 centimetri di altezza, ideali per poter vedere il campo al di là della propria linea offensiva, 104 chilogrammi, peso idoneo all’assorbire la miriade di colpi cui un quarterback viene esposto durante ogni secondo della sua permanenza in campo, una mobilità scarsa compensata da un cervello programmato per analizzare nel minor tempo possibile ogni informazione data dallo schieramento difensivo, una qualità che gli ha sempre permesso di apparire come un allenatore travestito da giocatore.
Cam Newton potrebbe invece rappresentare, in questo particolare momento, ciò che LeBron James significa per la NBA. Un giocatore enormemente attrezzato di carisma e talento, un predestinato che dà la costante impressione di poter fare qualunque cosa desideri dentro il rettangolo di gioco. Fisicamente baciato dalla natura ma conscio del costante sacrificio che necessita giocare continuamente a un livello superiore rispetto a quello di qualunque altro. Due giocatori sicuri dei propri mezzi, leader dei loro compagni, non sempre simpatici perché di tanto in tanto spocchiosi, ma dotati di un desiderio di eccellere quasi sovrannaturale.
Newton è l’evoluzione del prototipo di quarterback di nuova generazione. Quando Michael Vick, a inizio carriera, correva come un gatto sfuggendo ad ogni difensore, ha dettato l’inizio di un trend che ha avuto successo solo a fasi alterne. Molti allenatori si sono messi a cercare la prossima promessa senza mai davvero trovare la risposta giusta alle loro proiezioni future, cercando di trasportare con poco successo il concetto di dual-threat quarterback, un tipo di regista capace di lanciare e correre altrettanto bene a seconda delle esigenze. Cam Newton ha abbattuto ogni possibile pregiudizio in merito, soprattutto razziale/lombrosiano, dimostrando che il colore della pelle non c'entra niente con il modo di interpretare il ruolo.
Correre le 40 yard più velocemente di un running back e saper lanciare missili terra-aria da una parte all’altra del campo serve davvero a poco se al talento fisico non corrisponde un adeguato studio del gioco. Johnny Manziel corre bene, ha talento, ma la sua attitudine è dannosa per lui e per i compagni. Newton fino a due anni fa era un giocatore di ottime statistiche, di qualità fisiche ampiamente al di sopra della norma, ma che ancora doveva maturare la mentalità giusta per eseguire il grande passo. Dominava sulle corse e raccoglieva notevoli cifre sui passaggi, ma spesso prendeva decisioni errate forzando lanci, provocando intercetti, lanciando palloni fuori misura anche per il più atletico dei ricevitori. E non arrivavano quelle vittorie in grado di rispettare le aspettative che di rito vengono caricate sulle spalle di una prima scelta assoluta.
Oggi Newton è il quarterback più temuto dell’intera Lega. La sua capacità di correre in maniera atletica tiene perennemente all’erta la difesa, quando decide di cercare il guadagno di terreno con le sue gambe non c’è modo di stenderlo al primo tentativo di placcaggio (spesso pesa più lui di un linebacker), il suo braccio è potente come lo era in precedenza, ma è drasticamente aumentata la precisione delle sue conclusioni. Un aspetto che ha costruito la fortuna di una batteria di ricevitori semi-sconosciuta, oltre al fatto che ha provovato la crescita d'intersa con l’unico destinatario credibile dei suoi passaggi, il tight end Greg Olsen. Ciò che spaventa è che, a tutti questi imponenti tratti fisici, Newton ha abbinato una crescita tattica più che concreta. Anche lui, un po' come Manning, sa quando deve cambiare il gioco che gli è stato comunicato dalla linea laterale, conosce le attitudini e le abitudini dei difensori di una particolare squadra, sa come mettere i propri compagni nella miglior posizione per segnare o trovare quella conversione di terzo down. E soprattutto, migliora chiunque giochi con lui.
La difesa numero uno della NFL
Se i due quarterback presentano caratteristiche diametralmente opposte, le due difese possono invece essere assimilabili sotto molti punti di vista. I Broncos presentano la prima difesa della NFL per yard totali concesse, mentre i Panthers sono la quarta assoluta. Denver ha terminato il campionato al terzo posto contro le corse, Carolina al quarto. La difesa di coach Ron Rivera è stata la migliore per turnover provocati, mentre il reparto della squadra del Mile High è risultato ottavo. Entrambe portano una quantità insopportabile di pressione nei riguardi delle linee offensive e del quarterback.
L’attuale difesa di Denver nasce forse da tutta la frustrazione accumulata a seguito della pesantissima sconfitta patita al termine del Super Bowl XLVIII contro i Seattle Seahawks, un 43-8 frutto di una pessima prestazione da parte di quello che in regular season era stato il miglior attacco della Lega, momento nel quale statistiche come le 5.477 yard e 55 (!) touchdown registrati da Peyton Manning andavano a colmare qualsiasi tipo di lacuna difensiva. Una situazione praticamente contraria a quella dei Denver Broncos odierni. In quella offseason il General Manager John Elway, che è stato anche l’ultimo (e l’unico tra 1997 e 1998) quarterback in grado di vincere il Super Bowl con l’uniforme dei Broncos, investì notevoli risorse economiche per ovviare ai problemi di pass rush firmando DeMarcus Ware (avrebbe recuperato poi Von Miller, che quel Super Bowl non lo giocò in quanto in convalescenza post-rottura del crociato anteriore), e sistemando due quarti delle secondarie aggiungendo al roster l’enorme talento istintivo di Aqib Talib, sempre una sicurezza contro il miglior ricevitore avversario, e T.J. Ward, un feroce colpitore che avrebbe fatto pagare a tutti il fatto di essersi avventurati dalle sue parti.
Tuttavia, l’aggiunta più significativa, è arrivata prima dell’inizio della presente stagione quando Elway ha scombussolato il coaching staff licenziando John Fox (che curiosamente ha portato al Super Bowl sia Denver che Carolina da capo allenatore) facendo posto a Gary Kubiak (che di Elway era la riserva quando entrambi giocavano ai Broncos) e soprattutto assumendo Wade Phillips quale defensive coordinator.
Gary Kubiak backup di John Elway ai Broncos dal '83 al '91.
Phillips è infatti conosciuto nell’ambiente per essere un coordinatore difensivo di primissimo livello, che in carriera ha sempre portato le difese allenate verso l’eccellenza. Un maestro nel costruire schemi in grado di portare forte pressione al quarterback, e nell’individuare le qualità dei suoi giocatori, adattando la propria filosofia a seconda del miglior utilizzo del singolo. Peyton Manning ha dichiarato più volte davanti ai giornalisti che Denver è giunta al Super Bowl per evidenti meriti della difesa, la cui prestazione complessiva ha portato a tutti i posizionamenti sopra citati, ma soprattutto ad una doppia vittoria stagionale contro i New England Patriots, lo scoglio più grosso che separava i Broncos dall’affermazione assoluta nella American Football Conference.
Phillips è un professore dell’allineamento 3-4, attraverso il quale ha reso la vita impossibile ad un signore chiamato Tom Brady e a tantissimi altri suoi colleghi, basandosi su un sistema che incarica i tre uomini di linea di colpire aggressivamente il varco che si forma davanti a loro mentre i due linebacker esterni mettono in difficoltà i due offensive tackle. Con l’accoppiata di pass rusher esterni formata da Von Miller e DeMarcus Ware, ogni attacco ha dovuto soffrire le pene dell’inferno, dato che mettere in campo due giocatori così possenti e rapidi in ambedue gli estremi della difesa non è una possibilità frequente per tutti. E l’azione di disturbo del passaggio, unita ad una secondaria che presenta giocatori eccellenti nel marcare come il già citato Aqib Talib e come i più giovani ma ugualmente efficaci Chris Harris Jr. e Bradley Roby, è un lusso che tante altre compagini non si possono permettere. Ed ecco spiegate le altisonanti statistiche compilate da questa impressionante difesa.
Mettere forte pressione su Newton, impedendogli di godere dei preziosi secondi extra per scansionare il campo, sarà una delle principali chiavi del Super Bowl.
La fast start offense
Il principio dei numerosi successi dei Panthers è dettato da un attacco letale nei primi tempi delle partite, che consegue nel perfetto mascheramento del difetto principale di una difesa che recupera palloni a volontà, ma che concede qualche big play aereo di troppo, una condizione che ha generato indesiderate rimonte. Normalmente il problema non si pone in quei molteplici casi in cui i Panthers annientano l’avversario nei primi due quarti di gioco. Partire pronti e concentrati significa spesso aver eseguito metà del lavoro, e nei playoff Carolina si è limitata a contiuare quello che aveva intrapreso come una piacevole abitudine durante tutta la regular season. È una squadra che fa pagare a caro prezzo il fatto di possedere un quarterback difficilissimo da fermare e un gioco di corse molto produttivo, gestito attraverso le gambe di un Jonathan Stewart rinato, finalmente lontano dai numerosi infortuni che l’hanno infastidito in passato, ma soprattutto di un reparto offensivo cinico, il quale più spesso che no trasforma un fumble o un intercetto recuperato dalla propria difesa in sette punti. Non tre. Non zero. Sette.
Ecco spiegato il sensibile cumulo di vantaggio che ha permesso ai Panthers di disporre a piacimento della possente e distruttiva difesa dei Seattle Seahawks durante il turno di Divisional Playoffs, e che ha annientato degli altrimenti ottimi Arizona Cardinals, che proprio dell’allineamento difensivo consistente avevano fatto vanto per tutta la stagione. Durante il campionato regolare sono state sei le partite in cui Newton e compagni hanno concluso il primo tempo con un vantaggio variabile tra i 7 e i 17 punti, ripetendo lo stesso identico concetto nei playoff, un tratto che può essere delineato solo dalle grandi squadre. Attaccare così voracemente significa modificare il piano di gioco dell’avversario, costringendolo ad abbandonare le corse per recuperare in fretta il punteggio. Ma significa anche potersi permettere di gestire i secondi tempi con un minimo di freno a mano tirato, diminuendo i rischi di turnover, esponendo meno le proprie superstar a colpi inutili, gestendo con intelligenza lo scorrimento del cronometro fino a togliere il tempo necessario per tentare improbabili rimonte. Il maggior segno di maturità che Carolina ha dato, e bene che ciò sia giunto a playoff in corso, è stato proprio questo. La vittoria risicata contro i Giants, strapazzati nel primo tempo, è servita da lezione.
Lo scontro tra l’attacco più produttivo della Lega e la difesa numero uno in assoluto possiede ogni presupposto per dare luogo ad un bellissimo gioco di mosse e contromosse.
Date le condizioni fisiche non eccelse di Manning, il gioco di corse di Kubiak rivestirà come sempre un ruolo di prim’ordine per i successi offensivi. Peyton non è più il quarterback in grado di lanciare per 400 yard e lo ha più volte dimostrato, la precisione non sempre è quella desiderata e non sono isolati i casi in cui ha mancato un ricevitore libero. La buona distribuzione di portate tra i running back C.J. Anderson e Ronnie Hillman, rispettivamente firmatari di 4.7 e 4.2 yard per tentativo, è risultata fondamentale per coprire le falle del gioco aereo, visto che Manning ha concluso l’anno con statistiche impensabili quali i 9 passaggi da touchdown complessivi ed i 17 intercetti commessi, con in mezzo la parentesi di Brock Osweiler, il quale ha tenuto in piedi la situazione offensiva meglio che ha potuto. Né Hillman né Anderson sono stati costanti a livello statistico, ma il loro utilizzo misto ha comunque ottenuto i risultati desiderati: il primo è stato più consistente e per questo maggiormente gettonato, il secondo si è sbloccato nella seconda parte della stagione centrando due sole partite da oltre 100 yard, ma registrandole contro Green Bay e New England, ambedue prove di qualità giunte al momento del bisogno.
Si preannuncia un duello entusiasmante tra i running back e quel demonio di Luke Kuechly, il linebacker che tutti vorrebbero poter schierare: gentile e posato fuori dal campo, feroce come un leone quando indossa casco e paraspalle, pronto a gettarsi con rapidità addosso a qualunque giocatore abbia il pallone nelle mani. Possiede un raggio d’azione che ingloba tutta l’orizzontalità del campo, un ottimo istinto per capire lo sviluppo del gioco, forza da vendere per combattere i blocchi e arrivare a stendere il portatore di palla, ed ha mostrato un sensibile miglioramento nella fase di difesa del gioco aereo (ha segnato due mete su intercetto nei playoff, una per partita disputata), un bagaglio tecnico di primo livello per colui che un giorno potrebbe ritirarsi come il miglior linebacker che Carolina abbia mai schierato. A combattere al suo fianco ci sarà Thomas Davis, un uomo davanti al quale è opportuno togliersi il cappello: tre rotture del crociato anteriore, un filotto di infortuni che avrebbe scoraggiato chiunque, seguiti da altrettanti ritorni in campo ad altissimi livelli, segno di un’inequivocabile fede nelle proprie possibilità e di un carattere di ferro.
I Panthers, dall’alto del loro 15-1 di regular season (17-1 compresi i playoff) partono favoriti per la vittoria finale. Difficile fare previsioni specifiche per una partita di football, uno sport impronosticabile. La nostra sensazione è che Carolina, pur dovendo inizialmente prendere le misure a una difesa fortissima, possa prevalere. Le caratteristiche positive che la squadra di Ron Rivera può mettere in campo sulla carta - per quanto abbiamo imparato a non fidarci mai a dare per scontato nulla quando in campo c’è il numero 18 - paiono più complete rispetto alle pur numerose qualità in dote ai Broncos. Questa è la teoria, ma per una questione affettiva saremmo felici di vedere Manning salutare con il trofeo in mano.
Sarà lo scontro tra la freschezza fisica e la parabola discendente della leggenda, tra il divertimento e la compostezza più assoluta. Per attutire l'attesa ci rimangono le ultime frittelle di carnevale, un frigo pieno di birre e cedrate e gli hamburger da cucinare prima del kick off.