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Guida alle finali NBA
04 giu 2015
Storie, personaggi, scontri e racconti dalle finali NBA, che partono stanotte.
(articolo)
16 min
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Così vicini, così lontani: Steph vs. LBJ

di Nicolò Ciuppani (@NickRamone)

La sfida nella sfida, l’immagine da copertina, i due attori protagonisti di queste Finali sono LeBron James e Stephen Curry. Salvo clamorose sorprese, l’MVP delle Finali uscirà da questi due nomi. LeBron è al 12esimo anno in NBA, alle sue seste Finali assolute, le quinte consecutive—roba che non si vedeva dai tempi di Bob Cousy, più di cinquant’anni fa, quando però le squadre erano otto, non trenta. Curry invece è all’esordio sul palcoscenico più importante nel suo sesto anno da professionista, ha appena vinto il primo titolo di MVP della regular season ed è alla ricerca del primo nelle Finali, un’accoppiata che è riuscita a soli 10 giocatori nella storia—l’ultimo dei quali, neanche a dirlo, è il suo diretto avversario.

I due condividono alcune cose: il luogo di nascita, Akron, Ohio, e la riconosciuta capacità di “far succedere cose” in attacco, grazie alla loro capacità di segnare e contemporaneamente di coinvolgere i loro compagni sfruttando le attenzioni che le difese devono concedere loro. Tra di loro però esistono anche forti contrasti: è una sfida a tratti dicotomica e a tratti armoniosa, dal gusto agrodolce dei rivali che si rispettano, ma che non si temono più di tanto.

LeBron ha un fisico da carro armato, ha affinato un gioco in post tra i migliori al mondo nei suoi anni a Miami ed è opinione comune che, una volta battuto l’avversario sul primo passo o passando accanto al blocco, non ci sia praticamente più nulla da fare. Curry è un funambolo con il pallone, ha quella fastidiosa tendenza a far sembrare facilissimo tenere un palleggio vivo in mezzo ai raddoppi avversari e nel fare un movimento unico tra palleggio, arresto e tiro. LeBron ha sviluppato una comprensione mentale del gioco senza pari, è in grado di ricordare tutte le azioni della partita in maniera fotografica e riesce a farsi trovare sempre presente quando la palla scotta davvero, in maniera sovrannaturale. Curry sfrutta il suo fisico con un rivoluzionario uso del sottomano e degli appoggi al vetro, sfruttando angoli e altezze che prima di lui si potevano solo immaginare ed è, senza mezzi termini, il miglior tiratore della storia del gioco, perché la sua capacità di segnare con quelle percentuali su quel volume di tiri dal palleggio e con quel coefficiente di difficoltà non si è mai vista prima. La cosa bella è che potrebbe non essere nemmeno la sua qualità migliore.

Se dovessi spiegare il tutto con una sola frase sarebbe questa: Steph è il miglior giocatore della sua generazione nel miglior momento della carriera, LeBron è il miglior giocatore di molte generazioni che sta iniziando la fase calante della sua carriera. Nei playoff il tiro di LeBron è semplicemente scomparso (17,6% da 3 punti), ma nonostante ciò il termine “resilienza” ha conosciuto nuove sfumature di significato grazie a lui. Le parabole opposte delle loro carriere si estendono anche alle loro squadre: gli Warriors di Curry sono una squadra in missione, probabilmente la miglior squadra che LeBron abbia mai affrontato in una serie di playoff, mentre i Cavaliers sono una delle peggiori squadre che ha accompagnato il Re alle Finali.

Sarà piacevole, per la prima volta in tanti anni, provare empatia col giocatore più forte di tutti che parte da sfavorito (e non di poco) e allo stesso tempo credo sia impossibile non divertirsi a vedere Curry con un pallone arancione tra le mani. Ma in ogni caso non sarà un successo: come puntualmente accade, gli Spettri della Sconfitta faranno dimenticare alla svelta tutto ciò che è stato fino ad ora, e decine di carrozze si trasformeranno in zucche al suono dell’ultima sirena. Per godersi La Sfida sarebbe semplicemente cosa buona ricordarsi che la grandiosità dei due resta immutata, anche in caso di sconfitta al termine di queste Finali.

Team vs. Man

di Lorenzo Neri (@TheBro84)

È la prima volta nella storia della NBA che all'atto conclusivo della stagione arrivano due coach esordienti, ma Steve Kerr e David Blatt sono tutt'altro che dei novellini. Se per Kerr parla la scuola, l'insegnamento e soprattutto gli insegnanti avuti—ovverosia Phil Jackson e Gregg Popovich—, Blatt può far testimoniare il suo palmarès, composto da un titolo di Eurolega con il Maccabi, un Europeo e un bronzo olimpico con la Russia e vari titoli nazionali conquistati nel vecchio continente, di cui uno da noi, a Treviso nel 2006.

Non a caso i due allenatori sono stati forse i migliori a gestire il gruppo nel momento in cui si son dovute fare scelte critiche a causa degli infortuni occorsi a inizio stagione (David Lee sostituito da Draymond Green) o ancora peggio durante i playoff (Tristan Thompson per Kevin Love) traendone dei vantaggi incredibili grazie ad aggiustamenti intelligenti e perfetti, considerando dove li hanno portati.

Ora, nella sfida più importante, dovranno far fronte ai due migliori giocatori visti finora tra regular season e playoff.

Domanda su come poter limitare Curry. Risposta eloquente.

Golden State è la favorita scritta: dovessimo fare una scelta razionale e ponderata, non riusciremmo a trovare aspetti così determinanti da ritenere i Cavaliers superiori ai campioni della Western Conference. Sono la squadra con il miglior record della stagione, i primi nell'efficienza difensiva (98.2 di DefRtg) e secondi in quella offensiva (109.7 OffRtg) e non sembrano avere punti deboli—o quantomeno sono bravissimi a mascherarli, grazie all'aiuto di tutta la squadra. È il gruppo a fare la differenza: armoniosi e altruisti in attacco, coesi e orgogliosi in difesa.

In attacco sfruttano la grande pericolosità dal palleggio di Curry per permettere agli altri giocatori di spaziarsi nel miglior modo possibile e punire le troppe attenzioni rivolte verso uno di componenti della squadra. Inoltre, hanno in Green il playmaker occulto (83.2 tocchi e 65.3 passaggi a partita—a dirla tutta, neanche tanto occulto) per mettere in moto l'MVP anche senza palla, potendo sfruttare in questa serie la scarsa predisposizione alla difesa in movimento di alcuni giocatori Cavs come Kyrie Irving e J.R. Smith. In difesa hanno un'arma importante per poter limitare LeBron James: una rotazione di tre uomini composta da Harrison Barnes, Andre Iguodala e Green da mettere sulle tracce del Prescelto, con un jolly importante come Klay Thompson da inserire nella rotazione, qualora Kerr decidesse di presidiare il centro dell’area con la coppia Green-Bogut, bravi a mantenere angoli ed equilibri per non permettere facili conclusioni o circolazioni di palla nel momento in cui LeBron cercherà di mettere in ritmo i propri compagni.

Un piano difensivo efficace sarà importante anche per permettere all'attacco di agire in maniera veloce dall'altra parte del campo, dato che la early offense degli Warriors è letale per soluzioni e tempismi. Dall’altra parte, se c'è un aspetto su cui Cleveland può puntare è l'ottima difesa a metà campo: sono infatti molto bravi a portare subito grande fisicità e pressione già prima della ricezione, riuscendo così a interrompere molte volte il flusso dell'attacco—come successo contro gli Hawks. Durante questi playoff inoltre si è scoperto come la predisposizione di Tristan Thompson a rimbalzo offensivo riesca ad attirare le attenzioni della difesa su di lui, costringendo talvolta anche a raddoppiarlo pur di tagliarlo fuori, riuscendo così ad avere aiuti e linee di passaggio più pulite in attacco, come dimostra il 108.6 di OffRtg della squadra in post-season. Proprio la presenza di Thompson a rimbalzo potrebbe limitare l'uso del letale “quintetto basso” di Kerr con Green da 5 che tanto si è rilevato utile finora. Ma è l’unico appiglio tattico al quale Blatt—che pure ha doti tattiche da non sottovalutare—può aggrapparsi, oltre ad avere il miglior giocatore del mondo. Per il resto, vantaggio Golden State.

L’impossibile parabola di David Blatt

di Dario Vismara (@Canigggia)

Meno di un anno e mezzo fa, David Blatt era a una sconfitta di distanza dall’essere esonerato dal Maccabi Tel Aviv—anzi, secondo alcune voci l’esonero sarebbe potuto arrivare anche prima, se i costi dell’operazione non fossero stati tanto alti. Sei mesi dopo ha vinto l’Eurolega.

Appena dopo Natale, David Blatt sembrava essere a un passo dall’esonero dalla panchina dei Cleveland Cavaliers—anzi, secondo le immancabili sources, si parlava di «preoccupazioni crescenti all’interno dei Cavs riguardo la capacità del coach esordiente di arrivare alla squadra». Oggi è in Finale NBA.

Quello che è successo nell’ultimo anno e mezzo all’allenatore dei Cavs è abbastanza incredibile. L’anno scorso ero al Forum di Assago per assistere alla Final Four di Eurolega e ancora non ho capito bene come Blatt abbia fatto a vincere contro quel CSKA allenato da Messina e quel Real Madrid, che forse era pure più forte di quello che ha trionfato quest’anno. Nella conferenza stampa post-Finale ho trovato un uomo gioioso, orgoglioso, colto ed estremamente in controllo di tutti i presenti in sala, capace di tirare fuori perle come queste.

Il Blatt-pensiero in 3 minuti, iniziando citando Steve Jobs chiamandolo Steven.

Un mese dopo aver raggiunto il punto più alto della sua ventennale carriera da allenatore in Europa, Blatt è stato assunto da Cleveland per allenare dei Cavaliers diversissimi da quelli attuali. In quel momento l’idea era di far crescere un gruppo giovane capitanato da Kyrie Irving e la futura prima scelta assoluta Andrew Wiggins, insieme ai vari Tristan Thompson, Dion Waiters e quello-che-se-ne-poteva-cavare-fuori da Anthony Bennett. Un progetto intrigante per una squadra che veniva da anni post-atomici del dopo LeBron: una scelta out-of-the-box, come definita dal GM David Griffin, ma improntata sul lungo periodo, per permettere sia a lui che ai giocatori di crescere con calma e arrivare gradualmente ai playoff.

Poi è tornato LeBron James, ed è cambiato tutto.

Quello che doveva essere un periodo di transizione, si è trasformato in un’annata in cui l’unico obiettivo possibile doveva essere quello di arrivare al titolo NBA—d’altronde, se alleni il più grande giocatore del mondo, quale altro può essere l’obiettivo? In più si sono aggiunti l’arrivo di una superstar come Kevin Love, di vari veterani portati da LBJ (Mike Miller, James Jones, Shawn Marion, poi anche Kendrick Perkins), e un roster con chiare mancanze. In più, bisogna aggiungere che di fianco a lui ha trovato un coaching staff formato dal suo principale rivale per la panchina (Tyronn Lue), due ex capoallenatori NBA (Larry Drew e Jim Boylan), un ex campione NBA (James Posey), un ex video coordinator scuola Spurs (Bret Brielmaier) e un reduce dell’era Mike Brown (Phil Handy).

È da notare che Blatt ha dovuto affrontare tutto questo da solo—e non solo perché la sua famiglia è rimasta a Tel Aviv, ma perché nei circoli NBA non lo conosce nessuno. Ha pochissimi amici nelle varie dirigenze, ne ha ancor di meno nella “mafia” degli allenatori, e non avendo mai giocato in the League non ha alcun ascendente presso i giocatori, e tantomeno tra i media. Questo nella NBA conta tantissimo, perché più che le abilità vere e proprie, contano i rapporti personali e il rispetto che uno è capace di guadagnarsi o di comandare. Senza di quello, non si va molto lontano.

In questa stagione, Blatt di rispetto ne ha ricevuto proprio poco, sia da parte dei giocatori che dei media in generale, sempre attentissimi a sottolineare i suoi errori (che pure ci sono stati, e nemmeno di poco conto) e molto di meno a riconoscergli i meriti per un compito quasi impossibile. Il coach “rookie”—definizione contro la quale ha combattuto per tutto l’anno rispondendo «Ehi, io ho allenato per 20 anni e ho vinto tutto in giro per il mondo, rookie a chi?»—nei playoff ha chiuso con un record di 12 vittorie e 2 sconfitte contro Brad Stevens (il nuovo allenatore media darling, per quanto meritatamente), Tom Thibodeau (settimo allenatore all-time per percentuale di vittorie in NBA) e Mike Budenholzer (allenatore dell’anno in carica). Il tutto affrontando 10 partite senza Kevin Love e con un Kyrie Irving su mezza gamba.

Certo, Blatt aveva LeBron James e gli altri no, ma avere in squadra uno come lui è tanto straordinario quanto difficile da gestire perché, essendo LeBron James, bisogna concedergli cose che agli altri comuni umani non si possono concedere—anche quando va contro il proprio credo di circolazione di uomini e palla su cui si basa la sua Princeton Offense, o quando in conferenza stampa ti “getta sotto il bus” facendoti apparire ridicolo. Eppure partita dopo partita, timeout dopo timeout, allenamento dopo allenamento, Blatt è arrivato a guadagnarsi una mezza investitura da parte di LeBron: «Alla gente piace leggere di cose negative piuttosto che di cose positive, e penso che abbia gestito la situazione in maniera incredibile. Per essere al primo anno, penso che abbia fatto un lavoro straordinario nel portare questa squadra alle Finals».

Per David Blatt, questa piccola investitura potrebbe valere tanto quanto il titolo NBA. Sempre che gli venga data l’opportunità di dimostrare di essere un grande allenatore anche negli anni a venire.

Gli Indispensabili: Draymond Green vs. Tristan Thompson

di Lorenzo Bottini (@BottDontLie)

Le regole non scritte delle Finali NBA recitano che i campioni alzano il Larry O’Brien Trophy, ma chi lo vince sono sempre i giocatori che nella foto sono in seconda fila. I LeBron e i Curry, oltre a mettere il trentello a serata, dovranno sperare che i propri compagni di merende facciano quel saltello in avanti che li avvicini al titolo. Specificatamente, uno dei duelli che potrebbe spostare l’ago della bilancia sarà quello tra Draymond Green e Tristan Thompson, due storie così diverse da avere molte similitudini. Il primo, dopo quattro grandi anni a Michigan State, è arrivato nella Baia a metà del secondo giro, di soppiatto. L’altro, da quarta assoluta del 2011, ha inizialmente deluso le aspettative della squadra, avendo sulla spalla il fantasma di Jonas Valanciunas, scelto alla 5 appena dopo di lui. Entrambi hanno sofferto nei primi anni nella Lega, ma si sono fatti trovare pronti e, approfittando degli infortuni di chi li precedeva nelle rotazioni, sono arrivati al rango a cui ogni giocatore vorrebbe infine approdare: essere Indispensabili per le loro squadre. «‘Cause everybody can get it. The hardest part is keeping it».

E in queste Finali dovranno dimostrare di essere davvero il cuore pulsante dei rispettivi team, come i loro allenatori amano chiamarli. A loro toccherà mettere sul parquet quell’intensità, quell’orgoglio in grado di trascinare i compagni di squadra. Non vi aspettate di poter dare un giudizio sulle loro partite solamente leggendo le loro statistiche a fine partita, perché le loro gare vanno osservate, vissute, sentite. Bisogna apprezzare ogni tagliafuori, ogni rimbalzo, ogni tuffo sul parquet per recuperare la sfera vagante. Tutte cose che sulla carta contano uno ma che dentro il flow della partita valgono mille.

Al netto delle superstar riconosciute, nessuno in queste Finali può cambiare l’inerzia della sfida come Green e Thompson, nessuno come loro può accendere o spegnere il pubblico, aizzarlo come in un’arena romana o zittirlo con una giocata semplice quanto fondamentale. D’altronde è da loro che ci si aspetta che arrivino le situazioni in grado di spostare quell’ago di cui dicevamo in apertura. Cleveland deve sperare di dominare a rimbalzo offensivo per avere una consistente possibilità di portare a casa il titolo e per questo si affiderà al canadese che voleva essere Rodman. Golden State invece ha bisogno del lungo che apre l’area con il tiro da fuori e corra in transizione, magari punendo i Cavs con il quintetto piccolo. Il fatto che i due probabilmente si marcheranno rispettivamente per gran parte dei 48 minuti non fa che aumentare l’intensità del confronto. Aspettiamoci linguacce e scintille.

From Down Under: Bogut vs. Dellavedova

di Daniele V. Morrone (@DanVMor)

Ok, non si prenderanno le copertine ed è giusto così, ma il duello tra i due australiani Andrew Bogut e Matthew Dellavedova non è da sottovalutare. Visti i ruoli opposti ci saranno sicuramente occasioni per vederli uno davanti all’altro, magari su un cambio difensivo dove li vedremo battagliare a rimbalzo—uno 2.13 per 118 kg, l’altro 1.93 per 91 kg bagnato—in una riproposizione in salsa aussie di Davide contro Golia. Ma la cosa da rimarcare non è tanto il loro scontro fratricida, ma la loro rispettiva importanza per la squadra.

Anche solo prima dell’inizio dei playoff sarebbe stato impensabile parlare alla pari dei due giocatori sotto questo punto di vista. Di certo non si può parlare di Bogut come sorpresa, perché è pacifico che sia fondamentale per le sorti degli Warriors: tutto il sistema difensivo di Kerr esiste grazie alla capacità di Bogut di cancellare gli errori dei compagni e di proteggere il ferro. Semplice semplice: «Quando è in campo cambia difensivamente la partita. Cancella molti dei nostri errori, può influire sul tiro anche quando non lo stoppa». Parole dell’MVP. A trent’anni, Bogut è uno dei leader dello spogliatoio, fa la parte di Quello Burbero Che Ne Ha Viste Tante e che accetta volentieri il clima allegro che si respira attorno senza però scomporsi troppo, e quando parla non ha peli sulla lingua. Lascia i riflettori ad altri fuori dal campo, ma quando si gioca i suoi ordini dalle retrovie, insieme a Radio Draymond, che è sempre accesa, si sentono eccome.

L’importanza in difesa nulla toglie alla capacità di aiutare la fluidità dell’attacco, grazie alle doti di passatore e alla velocità con cui corre il campo, considerata la stazza.

La sorpresa non è quindi Bogut, ma ovviamente il cult hero per eccellenza di questi playoff, quello ringraziato pubblicamente da King James in persona dopo la partita conclusiva della serie con i Bulls per essere “il giocatore più duro in campo”. Matthew Dellavedova praticamente è l’anima della squadra, quello che si getta su ogni pallone e non smette mai di correre. Facciamo il Draymond Green di Cleveland per capirci. Solo che a Green sta per arrivare un max contract a giustificarne l’importanza, mentre il numero 8 dei Cavs dovrebbe in teoria essere l’ottavo della rotazione. A essere buoni.

Invece lui—che non è un tiratore affidabile, non è veloce, non è un passatore d’élite e ha il physique du rôle del blogger di SB Nation—fa da collante mentale tra il Re e il resto della corte, mantenendo freddezza nella gestione del pallone e non arrendendosi mai in fase difensiva. La sua voglia di buttarsi e lottare su ogni possesso gli è costata l’odio degli avversari, che l’hanno definito un giocatore “sporco”—nel corso dei playoff ha collezionato un calcio da Taj Gibson, ha procurato un infortunio involontario a Korver e si è preso un People’s Elbow da Al Horford—ma si è anche guadagnato l’adorazione dei tifosi di Cleveland e le simpatie della critica per un giocatore che non è stato scelto al Draft, e che rappresenta un po’ il sogno di tutti noi normodotati.

Non a caso Bogut aveva consigliato al GM degli Warriors di prenderlo quando era disponibile, perché conosceva bene la voglia di vincere del compagno di Nazionale. Adesso si troveranno di fronte nell’occasione più importante della loro carriera. E se ci saranno da far volare i gomiti, saranno i primi a farlo. Per un fetta di pane tostato e Vegemite c’è sempre tempo, dopo.

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