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Guida alla Copa America 2019
14 giu 2019
Favorite, dark horse e giocatori da seguire.
(articolo)
18 min
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Venerdì prossimo, in un Morumbì blindato, sorvolato da droni e con una squadra di cecchini appostata, sotto gli occhi di Jair Bolsonaro, prenderà il via la quarantaseiesima edizione della Copa América. Incastrata in un calendario estivo decisamente congestionato, a cavallo tra il Mondiale U20, il Mondiale femminile, la Coppa d’Africa e gli Europei U21, la Copa América mantiene tuttavia un fascino inossidabile, tutto suo, solo leggermente attenuato in tempi recenti dalle performance deludenti delle Nazionali sudamericane.

Dopotutto stiamo sempre parlando del continente d’elezione di una certa idea di talento, di una visione del calcio in bilico tra realismo magico, aggressività e creatività umana.Quest’anno ci sarà il cortocircuito tra squadre di un lustro calcistico più Ancien Régime che nostalgico, Brasile e Argentina, e quelle turbocapitalistiche moderne, tipo il Qatar.

La Copa América è quel torneo che l’Argentina, ridendo e scherzando, non vince da 26 anni; che vedrà la finale giocarsi nello stadio in cui a ogni Seleçao brasiliana viene il braccino; la cui Nazionale campione in carica, il Cile, che è pure bicampeón a esser sinceri, non si è neppure qualificata per i Mondiali dell’anno scorso.

Ci sono le contraddizioni di un continente con le vene più che mai aperte e il fascino di dodici nuove regole che la IFAB sperimenterà durante il torneo, tra cui la possibilità di ammonire membri del corpo tecnico: cosa potrà andare mai storto? C’è tutto quello che serve per rendere questa Copa América esattamente la nostra idea di Copa América.

Il Brasile è ancora il grande favorito, anche senza Neymar

La notizia più recente, e anche più dolorosa per il Brasile, è che Neymar non parteciperà alla competizione: una defezione che somiglia a quella di una delle band principali della line up del Primavera Sound, non macroscopica da farti pentire d’aver comprato il biglietto, ma sufficiente a farti covare un piccolo rimpianto.

A tenerlo fuori è stato l’infortunio alla caviglia patito nell’amichevole di perfezionamento con il Qatar, che ha rappresentato in primo luogo l’ideale prosecuzione di un feeling con la Nazionale quantomeno altalenante (trionfatore nella Confederations Cup del 2013, vittima psicodrammatica di un infortunio che si sarebbe rivelato presagio nefasto nel Mondiale 2014, deus ex-machina nelle Olimpiadi di Rio 2016).

Eppure, anche senza il suo calciatore più glorificato, il Brasile continua a rimanere una delle favorite alla vittoria finale, anzi decisamente la principale favorita. Tite, da quando ne ha assunto il comando, non ha perso che due delle trentacinque partite giocate: un’amichevole insulsa con l’Argentina giocata in Australia, quella dell’esordio di Sampaoli, e la sfida secca con il Belgio ai quarti di finale del Mondiale russo. Una gestione che sembra legittimata dai risultati, di cui però non si può ancora parlare con rapito entusiasmo, viste le circostanze in cui la “Amarelha” non si è dimostrata all’altezza del suo nome.

Il Brasile di Tite - che nel corso della sua gestione, è gradualmente passato da un gioco pragmatico, quasi cinico, a uno più spettacolare - può contare sul più forte portiere attualmente in circolazione, Alisson, una difesa rodata (con la coppia titolare formata da Thiago Silva e Marquinhos) potenziata da innesti recenti, come quello di Militão, e una serie di calciatori entrati nel giro della Seleçao da poco ma già proiettati verso il Mondiale qatariota, come Arthur e Paquetà.

Uno dei pochi momenti brillanti di Casemiro in stagione è stata quest’apertura a memoria per l’accorrente Paquetà. È il gol del vantaggio nell’amichevole (poi pareggiata) con Panama di qualche mese fa, e sì, quella sulle spalle di Paquetà è la numero dieci.

L’assenza di Neymar potrà spalancare un’opportunità altrimenti difficilmente sfruttabile più che per Willian, che è stato convocato al suo posto, per David Neres dell’Ajax o Richarlison dell’Everton, che nelle ultime uscite è sembrato in grande forma, e responsabilizzerà Coutinho, chiamato a riscattare una stagione in chiaroscuro al Barcellona.

Al centro dell’attacco, ammesso e non concesso che la vittoria in Champions League possa aver appagato Firmino (non proprio lucido nella finale di Madrid), Tite può fare affidamente al contrario su un Gabriel Jesus smanioso di affermarsi definitivamente. Ci sono, insomma, tutti i presupposti affinché il Brasile possa alzare questa Copa: c’è talmente tanta sicurezza nei propri mezzi che la Federazione, per omaggiare il centenario della prima Copa América vinta, appunto, nel 1919 ha deciso di tornare a giocare in maglia bianca, quella che è stata di fatto la divisa ufficiale fino alla finale del Mondiale del 1950. Il girone non proprio di ferro (con Bolivia, Venezuela e giusto l’insidia Perù) sembra giocare a suo favore.


L'Argentina è ancora Messi-dipendente?

L’ennesima lunga, facile, spensierata, priva di aspettative e pressioni estate australe dell’Argentina è iniziata così, con il volo su un jet privato con le pareti piene di radica che ha portato Leo Messi, una pregevole calabaza da mate al fianco e una t-shirt con la corona che gli spetta, al ritiro di Ezeiza.

Che una Copa América senza Messi fosse inimmaginabile è altrettanto vero di un Albiceleste senza Leo (in realtà tutto il calcio senza Leo): il semestre sabbatico che si è preso dalla Nazionale dopo l’eliminazione dal Mondiale di Russia, terminato poi con una celebrazione in pompa magna per il ritorno a casa, casomai è servito a Lionel Scaloni, che nel frattempo da analista di Sampaoli ne ha ereditato lo scettro da direttore tecnico, a capire cosa potesse congegnare per mettere il suo numero dieci nelle condizioni migliori per essere [tormentone] decisivo [/tormentone].

L’Argentina non vince una Copa da 26 anni e nell’ultimo decennio ha subito l’onta dell’eliminazione casalinga (ai rigori contro l’Uruguay) e di due sconfitte consecutive in finale (sempre ai rigori, e sempre contro il Cile). A pensarci bene, l’ultimo punto di contatto tra l’Albiceleste e la Copa América sono sei parole pronunciate da Leo Messi nel post-partita della finale della Coppa del Centenario: «Se terminó para mi la selección», ovvero: Tra me e la Nazionale è finita.

https://twitter.com/Palh29/status/1137164513726402565

Messi compirà 32 anni durante la Copa, la quinta in cui sarà protagonista, e fortunatamente sembra ancora in meravigliosa forma. Qua è in scena nell’ultima amichevole giocata contro Nicaragua, in un sontuoso solipsismo incoraggiato dal bel filtrante di Lo Celso.

Scaloni ha assunto l’incarico di DT come Atlante si è caricato il mondo sulle spalle, con la consapevolezza di potersi giocare carte non solo da traghettatore. Con onestà e coerenza ha imbastito fin da subito una squadra più competitiva e bilanciata di quella di Sampaoli in Russia e, soprattutto, ha provato tantissimi giocatori che militano in patria o in Europa, cullando l’ucronia di una Albiceleste demessizzata. E la squadra che si giocherà le sue chances in Brasile è figlia del compromesso tra la sperimentazione e le certezze: anzi, ne è una commistione.

Scaloni è stato sufficientemente lungimirante da far ambientare nel gruppo calciatori che stanno diventando, o diventeranno, l’ossatura della squadra in vista di Qatar 2022: ha investito su Saravia e Foyth con insistenza; ha coltivato il progetto di una coppia di interni davanti al pivote de cinco, e con Palacios che non vedremo in Brasile solo per un infortunio ha recuperato Paredes o Lo Celso (bocciati frettolosamente da Sampaoli); soprattutto Sacaloni ha effettuato un importante repulisti, anche emotivo.

Icardi, Higuaín, Benedetto sono stati scavalcati nelle gerarchie e vaporizzati dal Kun Agüero, che forse lo avrebbe meritato già da qualche tempo. E in ogni ruolo, soprattutto offensivo, Scaloni si è appremurato di avere un ricambio per ogni evenienza: De Paul, Lautaro Martínez, Dybala.

Così, a pochi giorni dall’inizio della Copa, nell’Albiceleste colpisce la serenità che regna in un gruppo abituato a essere tormentato, impaurito, schiacciato dalle aspettative, in una maniera così lampante da rispecchiarsi nelle espressioni e nel fisico dei giocatori. Un gruppo di facce rilassate sembra un gruppo pronto per emozioni nuove. Non esclusa quella di tornare a vincere.


A che punto siamo con il processo di rinnovamento dell’Uruguay?

Dei 23 convocati da Oscar Washington Tabárez per la Copa América, otto erano già presenti cinque anni fa, al Mondiale in Brasile. Se c’è un aspetto sotto il quale la Celeste dell’ultimo decennio si è contraddistinta è la continuità, e la coerenza, che sono poi i capisaldi di ogni progettualità.

E il Maestro Tabárez è il tipo di dirigente, uso il termine non a caso, per il quale ogni conferma avvalora la tesi della bontà del suo lavoro. Di pari passo, però, l’Uruguay si è anche decisamente rinnovato, specie a centrocampo. Il processo di ringiovanimento, già inaugurato in occasione dei Mondiali di Russia, può vantare per questa Copa gli apporti di Federico “El Pajarito” Valverde, mediano del Real Madrid inizialmente incluso nella lista preliminare di Russia 2018 e poi scartato, e Marcelo Saracchi, interessante carrillero del RedBull Lipsia che ha fatto il suo esordio con la Celeste proprio pochi mesi dopo il Mondiale.

Don Santiago Federico Valverde Dipetta, seNoras y senores.

I due si aggiungono a Matías Vecino, Rodrigo Bentancur, Nahitan Nández e Lucas Torreira, dando vita alla nouvelle vague del centrocampo uruguaiano, l’evoluzione elegante di un reparto in cui un concetto come quello di garra charrúa si amalgama con la classe dei primi tocchi, o la pulizia delle linee di passaggio, per dare vita a un’espressione estetica almeno inedita. Se tradizionalmente l’Uruguay ha sempre difettato dell’ingranaggio di raccordo tra difesa e attacco, vedendosi costretta a far sì - come si dice in gergo rioplatense - «que le llegue redonda a los de arriba», cioè che arrivi dritta a chi sta davanti con dei lanci lunghi, oggi Tabárez può contare su ottimi costruttori di gioco.

Suárez, che torna a giocare una Copa América dopo 8 anni, cioè dopo la vittoriosa campagna d’Argentina (nel 2015 stava ancora scontando la squalifica per il morso a Chiellini, e nel 2016 era infortunato) e Cavani cercheranno di capitalizzare al massimo il supporto del nuovissimo centrocampo. Anche perché alzare una coppa al centro del Maracanã, vuoi mettere? Son cose che capitano ogni mezzo secolo (e più).




Chi sarà il Dark Horse di questa Copa?

La Colombia è finita nelle mani di Queiroz poco più di quattro mesi fa. Il tecnico portoghese, per evidenti limiti di tempo, non è ancora riuscito a dare un’identità precisa alla squadra: la sua nomina è stata abbastanza osteggiata dal pubblico colombiano e dalle eminenze grigie della storia calcistica cafetera, come Francisco “Pacho” Maturana che ne ha messo in discussione la cultura futbolistica (anche se il significato sotteso era che le sperimentazioni di Queiroz potrebbero rivelarsi troppo fuori contesto per le aspettative del pubblico, quindi una specie di complimento, ha finito per risultare invece una bocciatura preventiva).

Però nell’ultimo venticinquennio la Colombia si è gradualmente affermata come terza potenza del continente, anche se non vince il trofeo dal 2001, che è un sacco di tempo. La Seconda Generazione Dorata, quella che per buona parte è ancora in rosa, è stata altrettanto deludente in termini di risultato della Prima. È un’esperienza estetica appagante, vederli giocare? Lo è. Stiamo parlando, però, di una squadra che si affloscia quando il contesto comincia a farsi più competitivo? Lo stiamo facendo.

Sono il perfetto dark horse, insomma.

Buoni motivi per convincersi di quanto sia forte la Colombia in a nutshell: a) un’azione travolgente e solitaria di James e b) la fantasia di Edwin Cardona al servizio del mood da Juggernaut di Duván Zapata.

I proclami ambiziosi di Queiroz (quando in conferenza stampa, duranta la sua presentazione, gli hanno chiesto quale fosse il suo stile di gioco ha risposto «Ganar», cioè vincere) sono in linea con il personaggio, e a conti fatti non sono del tutto campati in aria, perché la Colombia ha in organico fuoriclasse assoluti, come James Rodríguez, giocatori in stato di grazia come l’ultimo Duván Zapata e sempre temibili come Radamel Falcao, ma anche giovani prospetti più o meno valorizzati (Devinson Sánchez, Yerri Mina, e poi i giovani e misconosciuti centrocampisti Uribe dell’América e Campuazano del Boca), oltre a cavalli ben rodati come Cardona e Cuadrado.

Se allora vi state chiedendo come mai la Colombia non sia da considerare una candidata al titolo ma più una possibile outsider è perché i cafeteros sono capitati in un girone pieno di insidie, con l’Argentina, l’indecifrabile Paraguay del “Toto” Berizzo e l’imprevedibile Qatar. E non c’è niente di più insopportabile di un exploit-in-potenza quando indossa il cappotto tenebroso della disfatta, così come non c’è niente di più dark horse di una squadra che cammina in bilico sulla fune del fallimento, per poi sbalordire il pubblico con un avvitamento su se stessa, in equilibrio.


Cosa dobbiamo aspettarci dalle guest star asiatiche?

La presenza di squadre invitate è sempre stata una delle caratteristiche più surreali della Copa América. Non tanto per l’invito in sé, che ha una ragione logica, dal momento che è funzionale a comporre tre gironi da quattro squadre ciascuna, quanto per la scelta delle wild cards.

Se ha senso invitare squadre della CONCACAF, per quanto scelta più Dottrina Monroe™ che Bolivarismo™, perché non sono mai state coinvolte le Guyana e il Suriname? Un mistero che non mi riesco a spiegare. La quasi contemporaneità di Copa América e Gold Cup, il torneo continentale dell’America Centro-Settentrionale, ha reso quest’anno impossibile trascinare in Brasile Stati Uniti e Messico, per dire, e perciò indispensabile implicare due squadre random. La scelta è caduta su due asiatiche, il Giappone e il Qatar.

La squadra qatariota ha una media d’età inferiore ai 25 anni, il che significa che probabilmente i calciatori che impareremo a conoscere in queste settimane saranno nel prime delle loro carriere quando il Mondiale del 2022 si svolgerà. Hanno un tecnico, lo spagnolo Félix Sánchez Bás, cresciuto con i dettami del juego de posición nella Masia, e alcuni dei migliori giocatori della loro storia, come il triangolo offensivo Al-Haydos, Afif e Ali Almoez.

Almoez che segna di chilena, giusto per entrare nel clima.

I qatarioti, che ospiteranno il prossimo Mondiale, sono all’apice del loro rendimento, e non sembrano aver niente da invidiare, per dire, a una squadra come la Bolivia. Hanno vinto l’ultima Coppa d’Asia e sconfitto in amichevole squadre più quotate come l’Ecuador e l’Islanda: in Brasile arrivano soprattutto per mettere in mostra i frutti della bontà del progetto Aspire, con il rischio di sembrare fuori luogo. Oppure, di smontare tutto l’hype distopico.

Il Giappone, invece, ha deciso di portare in Brasile la sua U23. Ovviamente non si tratta di una mossa snob, quanto del tentativo di sfruttare la competizione come allenamento - soprattutto esperienziale - in vista delle Olimpiadi dell’anno prossimo che si terranno proprio nella terra del Sol Levante.

Hajima Moryiasu ha imbottito la sua squadra di calciatori supertecnici e dal grande potenziale offensivo, a partire da Abe - telentuoso esterno dei Kashima Antlers - e passando per Miyoshi - trequartista rifinitore dei Yokohama Marinos - o Nakajima - che gioca in Qatar, e dietro il cui acquisto sembra esserci la longa manus del PSG - fino a giungere a Takefusa Kubo, il vero progetto di gioiello dei Samurai Blue, tornato in J.League - dove sta facendo già faville - dopo esser cresciuto alla Masia.

Spesso accostato e paragonato a Messi, Kubo è il vero anello di congiunzione concettuale che tra l’Asia e questa Copa América: l’ideale applicazione di un set di valori calcistici squisitamente latinoamericani in un contesto altro, che in qualche modo torna a casa alla ricerca della sublimazione.


Quale potrebbe essere la delusione più cocente?

Nonostante non esista nessun girone davvero ingiocabile, in questa Copa solo un raggruppamento presenta da subito con chiarezza il suo fanalino di coda, ed è quello dei padroni di casa. Ovviamente sto parlando della Bolivia.

Intendiamoci, non ho niente contro la Bolivia, anzi. Però dalla storica qualificazione ai Mondiali del ‘94 “La Verde” non ha mai più saputo esprimere non dico individualità all’altezza di Erwin Sánchez o Marco “El Diablo” Etcheverry, ma neppure un’idea di gioco solo vagamente interessante. Eduardo Villegas, nonostante sia il CT più vincente della storia boliviana per club, punta tutto su un piano gara fatto di linee serrate, contropiede e aria rarefatta, quando ce n’è. E a San Paolo, o a Rio de Janeiro, non ce n’è.

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Testa a testa tra capitani. Foto di Eitan Abramovich / Getty Images.

Non mi permetterei mai di sminuire la portata mitopoietica dello Schweinsteiger boliviano, ma una squadra che ha il fulcro del suo gioco in Alejandro Chumacero non può seriamente puntare a qualcosa di più della sopravvivenza, o del soccombere nel tentativo di (che è poi la mission di ogni partita di Chumacero). Nelle ultime sette edizioni della Copa la Bolivia ha vinto una sola partita, è la squadra con la maggiore percentuale di calciatori che militano in patria, e semmai vi capitasse di entusiasmarvi per qualche stellina del Jorge Wilstermann sappiate che duemila metri più a valle, normalmente, si scioglie come gelato al sole. Non sarà una delusione cocente il ruolo da comprimaria in sé, ma lo è la reiterazione di un destino che sembra impossibile da capovolgere.

Piuttosto, una squadra che potrebbe invece uscire da questa Copa molto ridimensionata, peggio ancora con il certificato di bocciatura della Squadra Da Ricostruire Completamente, è il Cile.

Reinaldo Rueda, il ct della “Roja”, è alle prese con un ricambio generazionale che fatica ad appalesarsi, anche per via di una crisi profonda, economica e culturale, in cui versa l’intero sistema calcistico cileno. L’intera classe bicampeón, la Generación Dorada, è in fase di smantellamento.

La spinta dell’ispirazione bielsista con la quale Pizzi ha portato a casa per ultimo la Copa Centenario sembra aver terminato la sua inerzia, principalmente per via degli interpreti. Che - è un problema nient’affatto secondario, anzi - continuano a essere gli stessi. Ma se tre anni fa quel gruppo di calciatori sembrava un branco di lupi, oggi sembra aver perso lo smalto e non avere degni sostituti.

Vidal e Aránguiz non hanno più quegli uragani di delizia che erano Valdivia e Alexis Sánchez a imprimere alla manovra la verticalità necessaria, che risulta invece stagnante. L’utopia del Tricampeón è più che mai un’utopia, cioè letteralmente un luogo che non esiste: la narrazione della “Roja” passa ancora per i suoi interpreti, però più nel male che nel bene.


Tre nomi da droppare in spiaggia quest’estate

Erwin Saavedra (Bolivia)

“Carrillero” del Goiás in prestito al Bolívar La Paz, esterno a tutto campo che se proprio deve perdere una parte di definizione preferisce lasciar decadere esterno anziché a tutto campo, Erwin Saavedra ha velocità in progressione, grinta da guerriero Inca, una tecnica di tiro pregevole e una specie di mortaio nascosto nel piede destro. Tre anni fa, appena ventenne, segnò questo gol al Boca che gli valse il trasferimento in Brasile. Senza nulla togliere a Chumacero, non so voi ma io ho già il mio nuovo calciatore boliviano preferito.

Da seguire se: vi piace immaginare un’ideale fusione tra Arturo Vidal e Luis Advíncula.

Yeferson Soteldo (Venezuela)

Un paio di statistiche per rendere l’idea di che tipo di giocatore stiamo parlando: Yeferson Soteldo, in media, si inventa un dribbling più di nove volte a partita, con un tasso di riuscita di tre su quattro. La stagione scorsa, con l’U de Chile, è stato il dribblatore seriale principe della Primera División, dove ha mandato al manicomio diversi difensori con i suoi dribbling stretti, il suo andamento caracollante e i continui strappi in accelerazione.

Compatto, baricentro basso, cresciuto in un quartiere difficile di Acarigua chiamato “El Muertico”, maglia numero 10 del Santos che fu di Pelé, oltre che di Neymar, escluso dalla lista dei preconvocati (gli era stato preferito Peñaranda) e poi invece incluso in extremis (al posto di Peñaranda): c’è tutto per farne la vostra nuova iconcina.

Da seguire se: vi diverte lo stile di gioco di Neymar, siete ammirati dal fisico di Shaqiri e state cercando una sintesi tra le due apparentemente inconciliabili parafilie.

Miguel Almirón (Paraguay)

Quando Miggy Almirón ha deciso, nel 2016, di accasarsi nella neonata franchigia MLS dell’Atalanta United anziché affrontare subito l’esperienza europea per la quale sembrava già maturo, qualcuno può aver pensato che il giovane paraguayano non avesse la mentalità per affermarsi, che preferisse rimanere in una comfort-zone che, un po’ per pavidità e un po’ per egocentrismo, lo salvaguardasse dalla competitività e allo stesso tempo accentrasse le attenzioni su di lui.

Al contrario, si è rivelata la scelta più azzeccata che potesse fare: il “Tata” Martino lo ha portato a compimento, trasformandolo in un uragano di delizia al servizio di Jozef Martínez ma soprattutto in uno dei più completi, tatticamente disciplinati e letali centrocampisti offensivi dell’America Latina.

Quando poi Miggy Almirón ha scelto nella scorsa finestra invernale di trasferirsi in Premier League, al Newcastle, qualcuno può aver pensato che si sarebbe ritrovato fuori contesto. Al contrario, di nuovo, Miggy ha disputato un’ottima stagione e ora sembra pronto per sobbarcarsi tutti i destini dell’Albirroja.

Maglia numero dieci, classe cristallina, una spanna sopra i compagni, alla ricerca della consacrazione definitiva nella Copa América: vi ricorda qualcuno?

Da seguire se: pensate che la narrazione dei numero dieci investiti di una missione soverchiante come quella di iscrivere il loro nome nella leggenda della Copa América sia, in definitiva, l’unica vera narrativa capace di circoscrivere solo in sé il fascino della Copa América stessa.




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