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Guida alla March Madness 2019
21 mar 2019
21 mar 2019
A poche ore dalla prima palla a due del Torneo più folle e imprevedibile dell'anno, ecco una piccola guida per non perdervi nella Madness.
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Tra poco inizierà lo spettacolo più atteso della stagione. Una serie di colpi di scena, battaglie all’ultimo sangue, morti spettacolari e protagonisti inattesi. Nobili casate definite ognuna da un animale mitologico pronte a sfidarsi in uno scenografico corpo a corpo fino a che ne resterà in piedi solo una. No, non stiamo parlando dell’ottava e ultima stagione di Game Of Thrones ma del Torneo NCAA, la versione non edulcorata del mondo creato da G.R.R. Martin. “It’s not HBO, it’s basketball”. Che il folle ballo, finalmente, cominci!

Teste di Serie

Duke (#1 East)

Quello non è Mike Krzyzewski; quello è John Calipari vestito da Mike Krzyzewski! Vista da fuori, la Duke di questa stagione sembra l’incarnazione sublime della filosofia portata al successo dal coach di Kentucky: rastrellare i diciottenni più forti del continente, motivarli per qualche mese, e poi spedirli alla lotteria del Draft. Ripartendo poi da zero, alla ricerca di nuovi gioiellini. Qualche critico la vede come una scorciatoia — roba da venditori di sogni, più che da allenatori. Ma noi continuiamo a considerarlo un modo di interpretare lo sport di college. Legittimo, e neppure così scontato. Perché se avere la triade Williamson-Barrett-Reddish aiuta — trovate ulteriori dettagli più sotto — la Duke di questa stagione è molto di più di una somma di singoli. È una squadra compatta, unita, elastica; con un buon equilibrio tra stelle e specialisti — tra cui il figlio di Antonio Vrankovic, figlio dell’ex Fortitudo Bologna Stojko — e una voglia di sporcarsi le mani che non si vede proprio in tutti i diciottenni con un futuro da star NBA.

Lo si è notato in varie occasioni: dalle due autorevoli vittorie stagionali su Virginia all’incredibile rimonta da -23 sul campo di Louisville; fino al sospirato successo nel terzo derby stagionale contro North Carolina, arrivato dopo aver superato una difficile crisi nel primo tempo. E allora, qualche merito tecnico Coach K lo deve pure avere. Tra cui quello di riuscire a far rendere al meglio giocatori con tanto talento in uno contro uno quanto poca continuità nel tiro da fuori; e quello di cavalcare le doti mostruose di Zion Williamson senza rendere l’attacco eccessivamente prevedibile. Se beccano una buona serata al tiro da fuori, sono sostanzialmente imbattibili. E anche in una serata normale, restano difficilissimi da contenere. Ovviamente con il presupposto — mai scontato — che siano tutti in salute.

North Carolina (#1 Midwest)

Se Coach K e i Dukies da qualche anno hanno intrapreso con convinzione la via dell’One & Done, dalla parte della Tobacco Road dove il blu delle divise prende tinte decisamente più chiare l’idea è quella di rimanere sulla continuità. Certo, non è che Roy Williams si estranei dalla lotta nella corsa ai liceali più forti della nazione, ma è chiaro che la sua visione progettuale di squadra ha sempre nelle intenzioni quella di guardare a lungo termine - almeno in termini collegiali. È il motivo che l’ha portato negli ultimi anni a giocarsi due Final Four, vincendone una nel 2017 e perdendone una allo scadere in quello che rimane il tiro più famoso della storia del Torneo NCAA. Un percorso che negli anni ha cambiato molto anche lo stesso coach Williams, passato dall’essere un grande ammiratore del gioco nei pressi del canestro a spaziare su più fronti a livello tattico, mostrando quest’anno una grande malleabilità nel plasmare il suo gioco a seconda degli interpreti a disposizione. A cominciare da Coby White, point-guard eclettica che in campo si distingue per due cose: la vistosa e oscillante capigliatura afro e la capacità naturale di creare separazione dal suo difensore.

Al primo anno si è preso il posto in quintetto fin dalla prima partita e grazie alla continua imprevedibilità ha portato il coach a rivedere molte delle sue posizioni. UNC non è mai stata così godibile a livello di gioco: tutti i giocatori amano passarsi il pallone e nei momenti di difficoltà trovano nei due senior Cameron Johnson e Luke Maye i giocatori giusti per finalizzare l’azione, mentre il secondo anno Garrison Brooks è sempre pronto ad ancorare la difesa in area. A questi va aggiunta una scheggia impazzita da non sottovalutare, quel Nassir Little che ha avuto grosse difficoltà a mantenere un minutaggio consistente a causa dell’affollamento del ruolo (occupato appunto da Johnson e Maye) ma che può essere impiegato come aggiustatore di lineup nel momento in cui c’è bisogno di quintetti tattici più rapidi, impiegandolo da 3, o di maggior fisicità, scalandolo da 2. Ricapitolando: talento, versatilità e profondità - non ci vuole molto per capire perché i Tar Heels siano una delle maggiori pretendenti al titolo.

Virginia (#1 South)

«Io sono come la gramigna: quella, anche se bruci il campo, rinasce». Dichiarazione autobiografica di Mario Boni, peraltro sottovalutatissima. È pure una descrizione perfetta dello spirito resiliente dei Cavaliers. Che nel giro di tre anni hanno prima buttato via una Final Four ormai conquistata, sperperando 15 punti di vantaggio negli ultimi 10 minuti; e poi hanno deciso di entrare nella Storia dalla parte sbagliata, come la prima testa di serie a perdere da un seed n.16, l’oscura University of Maryland Baltimore-County. Ceffoni capaci di smontare un carrarmato, che però non hanno fatto nemmeno il solletico alla banda di Tony Bennett. Che non solo continua a sfoderare una delle migliori difese a uomo viste nell’ultimo decennio, ma ha pure trovato il modo di attaccare in maniera presentabile, almeno a tratti.

Merito dell’ottimo sincronismo delle uscite dai blocchi, con Ty Jerome ad armare il braccio del fromboliere Kyle Guy, e della versatilità offensiva di DeAndre Hunter, un’ala che in un sistema con più possessi e meno equilibrio potrebbe tranquillamente segnare oltre 20 punti a partita (in questi Cavs si ferma a 15.1 con il 47% da 3). E così cambiano i giocatori, ma la storia si ripete. Meritato seed n.1, complimenti da tutto il mondo dello sport collegiale, e un’altra chance di arrivare alla Final Four. Che manca giusto dal 1984. La ricetta è sempre quella degli ultimi sei anni: sistema equilibrato, ego al servizio della squadra, e tanta, tanta difesa. È bastato a vincere quattro degli ultimi sei titoli di regular season della ACC, roba che neanche Duke ai tempi di Christian Laettner e Grant Hill. Basterà, finalmente, ad avanzare al terzo fine settimana del torneo?

Good Guy, Bad Guy, Kyle Guy!

Gonzaga (#1 West)

È un vecchio adagio che con incredibile puntualità torna, anno dopo anno, in tutti i nostri feed social, in tutte le nostre chiacchiere da bar sulla March Madness. Sapevamo che quest’anno non avrebbe fatto eccezione, ma stavolta l’occasione era troppo ghiotta. Nel momento in cui la sirena ha decretato la fine della Finale della WCC in cui Saint Mary’s ha ribaltato i pronostici contro Gonzaga, da lontano il vecchio adagio ha iniziato a risuonare, sempre più forte: Gonzaga is overrated. È una cosa che si porta dietro dai tempi di Adam Morrison, quando riusciva sempre a timbrare il cartellino di accesso al Torneo (sono 21 consecutivi quest’anno) superando sporadicamente il primo weekend di partite.

Negli ultimi anni però gli Zags sono diventati una realtà solida e importante del panorama NCAA, e anche in questa stagione sono stati una delle due squadre a battere Duke con Zion in campo. Il loro punto di forza è sicuramente la frontline, dove a dar man forte a Hachimura e Tillie, protagonisti già lo scorso anno, è arrivato come un uragano Brandon Clarke, transfer da San Jose State che in pochi mesi è diventato uno dei migliori difensori di tutto il College Basketball e macchina da highlights su cui fare sempre affidamento grazie alla sua incredibile esplosività. Coach Few inoltre può affidarsi al navigato Josh Perkins come sua trasposizione in campo e su Zach Norvell quando servono punti d’impatto sul perimetro. La Region non è delle più facili, a cominciare da un secondo turno dove si troverà una tra Syracuse e Baylor sulla strada, ma quest’anno ha dimostrato più e più volte di essere una delle squadre più forti della nazione, sia a livello di organico che di organizzazione offensiva e difensiva. Insomma, difficile parlarne come una overrated.


Runners (#2-#4)

In fase di preview stagionale vi avevamo segnalato Tennessee (#2 South) come una delle squadre più interessanti della stagione potessero essere i Volunteers - e, col senno di poi, possiamo bullarci di aver avuto ragione. Trascinati partita dopo partita dal talento e le mani di Grant Williams, giocatore dell’anno della SEC per il secondo anno consecutivo, e dalla grinta e la fisicità di Admiral Schofield (what a name), gli uomini di Rick Barnes sono stati protagonisti di una delle migliori stagioni dell’ateneo - tanto che il seed n.2 può sembrare stretto per quanto fatto vedere in questi mesi, se non fosse per gli ultimi due brutti scivoloni contro Auburn (allenati dall’ex Bruce Pearl) gli sono costati stagione regolare e torneo della Conference. Squadra coesa che gioca una pallacanestro a prima vista rude e fisica, in cui però si nascondono uomini con molto sale in zucca che sanno elevare quanto richiesto da Barnes. Un cliente scomodo per chiunque.

Forse il lavoro meglio riuscito di John Calipari da quando è a Kentucky (#2 Midwest). Peraltro con la squadra meno da Calipari nei suoi dieci anni alla guida dei Wildcats. Sembrava ieri quando Cal si presentò ai propri tifosi portandosi sotto braccio John Wall, Eric Bledsoe e DeMarcus Cousins — sì, tutti nella stessa squadrache pure mancò incredibilmente le Final Four. A questo giro, il coach più ingellato d’America ha pensato bene di sparigliare il tavolo presentandosi al via con un inedito mix altamente nostalgico: mestieranti esperti, uomini in cerca di riscatto e gioventù più volenterosa che talentuosa.

Il realizzatore principale è PJ Washington: secondo anno, ala forte versatile e senza fronzoli. Perfetta per fare la differenza a questo livello, ma che dovrà guadagnarsi il posto al piano di sopra. I due freshmen di riferimento sono Tyler Herro e Ashton Hagans: coriacea guardia del Wisconsin strappata all’ultimo alle grinfie dei Badgers il primo; play puro che piacerebbe agli esteti degli anni ‘80 il secondo. Che passa benissimo la palla e non guarda il canestro nemmeno per sbaglio. O forse è, più semplicemente, la reincarnazione dello spirito di Rajon Rondo, che ancora si aggira tra gli edifici di Lexington. Comunque la si voglia mettere, questa è una squadra senza troppi punti nelle mani, ma che difende, non muore mai, ed è cresciuta esponenzialmente dalla prima, dolorosa batosta subita da Duke alla prima partita in stagione.

La stagione di Michigan (#2 West) si può dividere in due facce come Harvey Dent. Quella buona contro praticamente tutte le squadre fuori dallo stato del Michigan, con vittorie a valanga contro Villanova, North Carolina e Purdue; e quella livida, scornata delle tre sconfitte contro i rivali di Michigan State, che hanno alzato loro in faccia sia il titolo della stagione regolare che quello del Torneo di Conference dopo una rocambolesca rimonta. Tre sconfitte su tre che hanno in qualche modo ridimensionato l’ottima stagione dei ragazzi di John Beilein, a un punto della stagione la seconda miglior squadra della nazione grazie a una efficacia difensiva sorprendente per chi da tempo frequenta il sistema di gioco dei Wolverines.

La pressione sulla palla di Xavier Simpson, la versatilità di Charles Matthews e l’abilità nel difendere il pitturato ne fanno rebus difficile da risolvere per gli avversari specie, quando come durante il torneo, si ha poco tempo per prepararsi. Mai come quest’anno però le chances di Michigan di arrivare nuovamente ad aprile passano dal suo attacco, capace di passare da possessi di eccezionale efficienza alla totale stagnazione nel giro di pochi minuti. Una condizione tutto sommato prevedibile per una squadra che ha in Jordan Poole il suo barometro emozionale.

La strada di Michigan dipenderà anche dal gancio cielo della sua point-guard.

Tom Izzo quest’anno ha dimostrato di essere ancora uno dei migliori allenatori in circolazione quando si tratta di ricucire insieme un gruppo attraverso le parole d’ordine di Michigan State (#2 East), sacrificio ed esecuzione. Dopo l’infortunio che è costata la stagione a Joshua Langford, gli Spartans si sono riuniti intorno a Cassius Winston, il giocatore dell’anno nella Big Ten, ricoprendo ognuno un ruolo ben definito interpretato con la massima abnegazione: McQuaid il tiratore che gioca sempre con la rabbia di chi ha perso la chiave dell’armadietto; Tillman il lungo perfetto per Izzo, sempre con i gomiti larghi sotto canestro e imprevedibilmente efficace con la palla in mano; Goins il redshirt senior equilibratore e che negli anni si è trasformato in un cecchino infallibile. Una compattezza di squadra che riflette quella delle berline che uscivano una volta dalla fabbrica della Chrysler poco distante: funzionali, resistenti e non bellissime da vedere. Izzo non guida una squadra al titolo dall’inizio del terzo millennio. La strada che passa per l’Est non è affatto semplice ma neanche la più tortuosa che ha affrontato in carriera.

Le notizie per Kansas (#4 Midwest) sono due. La testa di serie numero 4, bassissima per gli standard dell’ateneo. E la mancata vittoria del titolo di regular season della Big 12, che interrompe una serie di 14 successi consecutivi. Che i problemi siano questi rende l’idea della mostruosa continuità di rendimento delle squadre di Bill Self, bravo a mantenere la rotta in una stagione complicata da vari infortuni, tra cui quello del centrone dominante Udoka Azubuike. Sono forse i Jayhawks con meno talento dell’ultimo decennio, ma sono anche una squadra con un buon mix di esperienza e sfrontatezza. Dedric Lawson, minaccia sia in post basso che fronte a canestro, è una macchina da doppie doppie, costante come pochi. Il freshman Devon Dotson con il tempo si è conquistato spazio, attaccando il canestro con aggressività. Manca però molta pericolosità perimetrale, peccato capitale per una squadra che per esigenze di organico sarà giocoforza costretta a schierare quintetti piccoli.

A strappare il titolo della Big12, in collaborazione con Kansas State, è stata la Texas Tech (#3 West) di Davide Moretti, unico italiano al Grande Ballo (oltre a Badocchi a Virginia, che però fatica a trovare spazio). Il sophomore bolognese si è imposto a Lubbock come uno dei pezzi chiave della squadra di Chris Beard, portando fosforo e tiro ad una squadra altrimenti molto fisica. La stella e possibile scelta in lottery è Jarrett Culver, il due metri più lungo d'America, attaccante efficiente e versatile in un sistema che privilegia la fase difensiva. Lo scorso anno i Raiders si scontrarono contro Villanova ad un passo dalle Final Four, questa volta hanno tutte le carte in regola per riprovarci.


Party Crashers & Cindarellas

Tra le tante discussioni che si possono trovare al termine della Selection Sunday c’è sicuramente l’assegnazione dei seed del tabellone - non tanto per quanto riguarda le prime della classe, quanto invece quando si parla di quelle mine vaganti messe in un punto strategico del bracket possono realmente creare dei problemi a quelle con miglior piazzamento. È il caso del seed #6 che quest’anno vede due squadre che potrebbero avere ambizioni maggiori rispetto quanto dica il numero che precede il loro nome.

E chi potrebbe essere più pericoloso dei campioni uscenti? Villanova (#6 South) è una squadra che non si può mai sottovalutare, anche nell’anno successivo a uno smantellamento che ha visto quattro titolari prendere la via della NBA. Jay Wright ha sviluppato una squadra passo dopo passo, sfruttando l’esperienza di Phil Booth (unico superstite degli ultimi due titoli degli Wildcats) e della crescita di Eric Paschall. Intorno a loro, la solita disposizione tattica creata ad hoc da uno degli uomini più eleganti del pianeta.

Nella Midwest Region, un vero e proprio campo minato per le squadre con i pronostici a favore, Iowa State(#6 Midwest) ha tutte le carte in regola per fare la parte della guastafeste. Squadre con due anime ben contrapposte: quella offensiva, pericolosa in ogni zona del campo con qualsiasi giocatore impiegato; e quella difensiva, ai limiti del disastroso. Sicuramente una delle squadre più divertenti da vedere in questo Torneo, dove Marial Shayok ricoprirà la parte del faro grazie alla sua duttilità e il freshman Talen Horton-Tucker quella del talento capace di girare anche le partite più difficili.

Prima di maledire tutti gli dei per un bracket rovinato da una squadra di basso profilo (lo spirito di UMBC fluttua ancora su quelli dello scorso anno) cerchiamo di dare qualche consiglio su quali sono le squadre su cui porgere qualche speranza.

La prima non può essere che Oregon (#12 South), che a inizio anno era famosa per essere la squadra di Bol Bol e ora ci ritroviamo al Torneo con un inaspettato titolo della Pac-12. Bol Bol non c’è più, ma le trappole difensive di Dana Altman non mancano e in attacco Louis King è un giocatore su cui prestare molta attenzione.

Nella classica storyline della Rivincita dei Nerds, LSU rischia molto contro Yale (#15 East), che ha in Miye Oni il prospetto NBA di cui non siete a conoscenza. I Tigers inoltre dovranno fare a meno del coach Will Wade sospeso a causa di pagamenti illegali a un membro della sua squadra, Ja’vonte Smart.

E state pronti a scommettere su Belmont (#11 East) e sulla loro organizzazione tattica, pronti ad innamorarvi delle loro qualità di passatori e della coppia senior-freshman formata da Dylan Windler e Nick Muszynski.


Draft Watch

Zion Williamson

L’essere umano per cui, da solo, vale la pena vedere il torneo. Pure se le partite fossero improvvisamente sostituite da allenamenti in 5 vs 0 di Duke a getto continuo. Rappresenta un caso irripetibile, pure tra i tanti fenomeni transitati dal college. Un alieno che sembra montato a tavolino per incarnare le virtù più terrificanti di questo gioco, come se fosse stato assemblato in laboratorio con i pezzi pregiati da alcuni dei migliori degli ultimi anni. E la voglia di sporcarsi le mani di un decimo uomo NBA qualunque, che lo rendono una mina vagante pronta a far esplodere qualsiasi cosa si trovi sulla sua strada.

Uno di quei rari casi in cui vedere un video di highlights (eccolo!) non solo non è ingannevole, ma è pure necessario per farsi un’idea di quello di cui stiamo parlando. Arrivato con aspettative mostruose, Williamson le ha ripagate pienamente. Portando in dote, oltre alle giocate da mixtape, anche un dominio fisico e atletico che, a livello collegiale, abbiamo visto per l’ultima volta con Anthony Davis.

In campo aperto è totalmente inarrestabile; a difesa schierata ha banchettato grazie a un cambio di direzione fulmineo, tipicamente da destra verso sinistra (la mano forte), e all’uso del corpo nella virata, con cui taglia fuori qualsiasi difensore provi a mettersi di mezzo. Ha anche un discreto tiro da fuori, seppur meccanicamente rivedibile; e passa molto bene la palla, riuscendo spesso a resistere alla tentazione di forzare. Con quelle doti lì, un miracolo di cui si parla ancora troppo poco. In 29 minuti viaggia a 22 punti con il 69% (!) dal campo. Difetti: è magicamente attratto dalla palla in difesa, e non è un grande tiratore di liberi (65%). Auguri a chi deve provare a fermarlo.

Il ritorno in campo di Zion senza sbagliare un tiro.

R.J. Barrett

L’unica cosa che gli impedisce di essere favorito alla corsa al premio giocatore dell’anno è la presenza in squadra di Zion. Che ha inevitabilmente distolto l’attenzione da un giocatore che si è rivelato altrettanto dominante, e forse ancora più completo. Micidiale in entrata e in campo aperto, pericoloso in avvicinamento, efficace a rimbalzo, promettente come passatore - anche se non sempre lucidissimo nelle scelte. E perennemente in modalità di attacco al canestro, in qualunque zona del campo si trovi.

È stato il giocatore più utilizzato (quasi 35 minuti a partita), il miglior realizzatore (22.9), il secondo miglior rimbalzista (7.5) e il secondo miglior passatore (4.1 assist). Un mostro di produzione quantitativa, con un tasso di errori sorprendentemente basso per l’età e per il volume di palloni che è stato chiamato a gestire. Il difetto più grande resta il tiro da fuori: discreto quando può tirare con i piedi piazzati, ma molto ondivago quando deve aggiustarli in corso d’opera, come fatto notare da Jay Bilas in una recente telecronaca. Resta saldamente materiale da altissima lotteria, perfettamente in linea con i canoni di versatilità e fusione dei ruoli che dominano la NBA moderna. Una curiosità: i 23 punti, 11 rimbalzi e 10 assist nella vittoria contro NC State lo hanno reso il secondo giocatore di Duke a collezionare una tripla doppia nell’era di coach Krzyzewski. Il primo e fin lì unico? La buonanima di Shelden Williams.

Cam Reddish

Il terzo fratello Blue Devil rischia di essere quello sfigato, ma allo stesso tempo quello con i margini di miglioramento più ampi. La stagione di Cam Reddish ha visto più bassi che alti, sacrificato da una luce che accendeva per evidenziarne i limiti più che i pregi. Stiamo però parlando di un prospetto in fase embrionale che a differenza dei due compagni di squadra è ancora lontano dalla maturità tecnica, fisica e atletica. Per cui bisogna leggere tra le righe, capire quale potrà essere la sua curva di sviluppo e immaginare quale giocatore costruire su quel telaio interessantissimo che fa di lui un esterno di 6’9” con braccia interminabile e una fluidità atletica che non può lasciare indifferenti.

Ja Morant

Ja Morant finora si è dimostrato essere il miglior giocatore di questa stagione di College Basketball tra quelli che non si chiamano Zion. Ha portato la sua Murray State alla conquista del titolo di Conference dando loro un accesso al Torneo che altrimenti non avrebbero avuto e si è affermato come uno dei migliori prospetti NBA - sempre tra quelli che non si chiamano Zion. Passatore geniale dalle doti atletiche esplosive, Morant affronterà la March Madness con il piglio di chi non ha nulla da perdere, e la sfida contro Markus Howard (vede sotto) è il banco di prova più eccitante di questo tabellone. Attenzione, perché punta a essere la seconda chiamata assoluta del prossimo Draft. Sempre dietro a quello che... vabbè avete capito.

Jarrett Culver

In silenzio (per modo di dire) e con una costanza invidiabile, Jarrett Culver ha scalato vertiginosamente tutte le Big Board dei maggiori esperti di Draft, andando a mettere una seria ipoteca tra quelli che provano a essere scelti in top-5, sicuramente in top-10. Il perché è facilmente intuibile: oltre a barrare tutte le caselle dal punto di vista fisico ed atletico, Culver garantisce una duttilità sui due lati del campo che in chiave futura si traduce in prospetto a lungo termine. All’interno di una squadra (Texas Tech, dove gioca anche il nostro Davide Moretti) tanto forte difensivamente quanto scarna a livello offensivo, il suo apporto è tutto per i Raiders.


Fenomeni di culto

Ovvero, i protagonisti assoluti di queste tre settimane. Quelli che — con un futuro da professionisti tra il modesto e l’inesistente — son riusciti a ritagliarsi un presente esplosivo. Per le proprie doti tecniche, per il proprio spirito agonistico, o per uno stile così anacronistico che sembra uscito da una macchina del tempo. Hipster prima degli hipster. Non fateveli sfuggire, soprattutto nei primi due turni di torneo. Se la Madness è così folle, è soprattutto merito loro. Uomini in missione senza nulla da perdere.

Prima raccomandazione: Ethan Happ. Lungo legnoso, pachidermico, inchiodato al suolo. Perfettamente in linea con la tradizione di Wisconsin, quella recentemente incarnata da Jon Leuer e Frank Kaminsky. Se non fosse che, a differenza di questi, Happ è una mano quadra certificata, con un raggio di tiro confinato all’area dei tre secondi. Un fallimento cestistico? No, proprio il contrario. Con 17.8 punti e 10.4 rimbalzi di media, rimane uno dei giocatori più dominanti di tutta la Division I, ancora oggi seriamente in lizza per il premio di giocatore dell’anno. Un finalizzatore micidiale, grazie a un repertorio di ganci, passi d’incrocio e finte tanto lente quanto ipnotiche; e un passatore sopraffino, che gli permette di oliare uno dei sistemi offensivi più efficienti della NCAA, oltre che di punire i raddoppi attirati dalla sua pericolosità in post basso. Ha già collezionato due triple doppie in stagione, continuerà a essere un rompicapo complicatissimo per le difese avversarie. Che per fermarlo, spesso, ricorrono al fallo sistematico, cercando di speculare sul suo 46% dalla lunetta. Proprio come facevano gli allenatori NBA con Shaquille O’Neal agli inizi del millennio. Giusto rimarcarlo, in caso tutto il resto non fosse abbastanza nostalgico.

Seconda raccomandazione: Markus Howard. La cosa più vicina a Trae Young vista in questa stagione. E se Trae era un incrocio tra Steph Curry e Steve Nash, Howard… no, ci fermiamo qui. La verità è che, alternando triple fulminee e penetrazioni sguscianti, calamitando falli e aiuti, il play di Marquette si è imposto come uno degli attaccanti più incisivi del panorama nazionale. Calandosi a piene mani nel ruolo di grande realizzatore dal palleggio che sembra essere parte cruciale della sceneggiatura di ogni torneo NCAA che si rispetti. In una vittoria al supplementare contro Creighton ha segnato 53 punti con 10/14 da tre; nella semifinale del torneo della Big East è riuscito comunque a segnarne 21, pur finendo con 1/15 dal campo. Se proprio siamo ossessionati per i paragoni, non ha né la rapidità di Trae né il genio inarrivabile di Steph. È un giocatore completo, sveglio, con personalità. Troppo "normale" per ambire a un posto di primo piano nella NBA, almeno sulla carta. Ma rimane uno dei migliori interpreti del gioco a questo livello, oltre che un personaggio che tende a esaltarsi in contesti di gara secca e pressione alle stelle. Marquette è una squadra solida, le possibilità di vederlo anche al secondo fine settimana non sono campate in aria. Punti extra per le basette avvolgenti e folte, che sembrano quasi arrivare a volersi toccare.

Howard vs Morant al primo turno: perché ci piace la March Madness.

Ultima raccomandazione: Fletcher Magee. Ovvero gran parte del merito per cui Wofford ha un seed così alto (#7 Midwest) nonostante provenga da una Conference di basso livello come la Southern, che negli ultimi anni di ottimi prospetti ci ha dato… Steph Curry (aridaje). Wofford è una squadra di tiratori dove la maggior parte dei compiti di playmaking sono affidati al centro Cameron Jackson mentre Magee sfrutta i blocchi come il miglior Jaycee Carroll: li prende, li rifiuta, cambia direzione, ritorna sui suoi passi poi esce fuori dalla linea dei tre punti e anche senza mettere i piedi a posto, ha la capacità per contorcersi e prendersi il tiro con equilibrio che definire precario può suonare come un eufemismo. Potrebbe essere la disperazione di qualsiasi coach se non fosse che di 10.7 (!) triple a partita tende a segnarne il 43% (!!!!). È a 3 canestri da superare il record di Travis Bader (504) e non crediamo voglia finire la sua carriera collegiale senza quel traguardo.

Senza dimenticarsi di Nate Oats, il coach che ha portato Buffalo a una stagione da record, centrando la terza qualificazione al torneo in quattro stagioni da capo-allenatore. Il che sarebbe già un risultato rimarchevole, se non fosse che, fino a cinque anni prima, Oats lavorava a Romulus High School, in Michigan. Dove oltre ad allenare insegnava matematica; ed era diventato famoso per finanziare la squadra grazia alla vendita in grandi volumi di HotCheetos, patatine piccanti al formaggio paragonabili ai nostri Fonzies, che venivano direttamente smerciate dai giocatori nelle ore libere da allenamenti e lezioni. Con i proventi era arrivato ad acquistare sei shooting guns, le macchine che rispediscono automaticamente la palla al tiratore durante gli allenamenti di tiro. Ora è considerato una stella emergente della panchina, nonostante abbia già 44 anni; possibile, anzi probabile, che finisca per lavorare per qualche ateneo prestigioso.




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