Noi che scriviamo di sport preferiamo il registro dell’eccezionale, abusiamo dei superlativi e sguazziamo nel celebrativo. A volte, però, ci sono semplicemente delle brutte partite. Quella di ieri tra Djokovic e Sinner è stata semplicemente una brutta partita. Una partita mai in discussione sul piano del risultato, e dagli scarsi spunti tecnici e tattici. Priva anche di quella cappa psicologica che sovrasta i duellanti e rende il tennis violento. Il più forte ha sconfitto il più debole, il vecchio ha represso le ambizioni del giovane. Djokovic giocherà la sua ennesima finale Slam provando a vincere il 24 esimo della sua carriera. Sinner ha fallito l’ennesima prova per dimostrarsi a un livello a cui, evidentemente, ancora non appartiene. Il tennis ha di nuovo imposto la sua pesantezza da ancien regime, in cui niente cambia per - in effetti - non cambiare.
Eppure anche in brutte partite, come questa, è possibile trovare dell’eccezionale. Novak Djokovic è sempre eccezionale. Il modo in cui ha fatto sembrare Sinner inferiore, strozzando sul nascere qualsiasi sua possibilità competitiva, ma non il suo tennis, è la cosa eccezionale che dovremmo guardare in questa partita, più che concentrarci sulle mancanze di Sinner. Di certo è che chi si sta avvicinando al tennis in questo periodo, perché l’Italia ha la fortuna di proporre diversi tennisti buoni o eccezionali, farà fatica a orientarsi in questa sconfitta, e non farsi l’idea che Sinner sia un tennista addirittura modesto - di certo frustrante, nemmeno vicino al livello di un vincitore Slam. Se il confine tra meriti del vincitore e demeriti dello sconfitto è sottile in tutti gli sport, lo è ancora di più nel tennis.
Il modo in cui Djokovic ha ridotto Sinner all’impotenza ha un fascino perverso. Come quelle piante grasse che riempiono di colla i malcapitati insetti, prima di divorarli. Senza nemmeno rendersene conto, Sinner si è ritrovato imbevuto della speciale colla di Djokovic, impotente. Incapace di esprimere la potenza leggera dei suoi colpi, quella che lo rende uno dei migliori attaccanti da fondo campo in circolazione. Non ha giocato male, sia chiaro, ma non ha mai trovato un ritmo superiore. In campo pareva frustrato, soprattutto quando provava qualcosa di più difficile senza riuscirci: la frustrazione di chi non riesce a esprimersi del tutto.
Il lavoro di decostruzione è iniziato nel primo set. Djokovic ha pensato di fare le cose semplici, lasciando nella borsa la maggior parte del repertorio di variazioni. Ha scambiato da fondo, ha tenuto la velocità alta e ha insistito sulla diagonale di dritto, quella che sapeva che gli avrebbe regalato più punti. Puntuale, al primo turno di servizio, Sinner gli ha regalato tre punti col dritto: tre errori non forzati che hanno fruttato un set. Con Djokovic piani e realizzazione combaciano sempre. Quando doveva servire per il set, in quella situazione di teorica tensione, Djokovic ha servito quattro primi servizi vincenti e ha vinto il set. Nello sport e nella vita non è mai solo una questione di volere, nonostante la comunicazione dei brand e quella motivazionale vogliano farcelo credere. Per Djokovic invece tutto sembra ridursi a una questione di volere. Non voglio far toccare la pallina al mio avversario quando servo per il match? Allora servo quattro prime vincenti.
Verso la fine del primo set, però, Sinner comincia a prendere più confidenza nello scambio da fondo. Djokovic non serve sempre alla grande, e in ogni game di risposta Sinner riesce a vincere tanti punti, pur senza spingersi troppo in là (a fine partita avrà vinto lui più punti in risposta rispetto a Nole). Allora Djokovic varia un pochino, giusto per non dare a Sinner sempre la stessa minestra. Un back di rovescio, un drop, un serve&volley. Se Sinner entra in ritmo è pericoloso, soprattutto se comincia a entrare in quella zona in cui la sua racchetta è grande e il campo è piccolo. Djokovic gli ha impedito di spingersi fino a quel punto, domandone sempre i bollori. Un break precoce lo ha messo in una situazione di comfort mentale da cui era di fatto impossibile schiodarlo.
Nel terzo set Sinner prova a salire ulteriormente di velocità, a prendersi più rischi. Ottiene persino due set point. Il pubblico comincia a scaldarsi: ha pagato caro per stare seduto in quel posto, il posto in cui chiunque al mondo vorrebbe sedere, e gli piacerebbe vedere un po’ di agonismo. Un po’ di sana tensione competitiva. Una partita più viva, più incerta. Djokovic però la prende sul personale. È difficile in questi casi capire cosa gli passi per la testa. Se pensa davvero che ce l’abbiano con lui, pure se si tifa per lo sfavorito da quando lo sport esiste; oppure se intercetta quei detriti di tensione che circolano nell’aria per accendere un fuoco, per affinarsi, diventare duro, cinico, affilato. Non sbagliare più nulla, far sentire il proprio avversario in una simulazione. Annulla i due set point e poi - da attore consumato su un ring di WWE - fa finta di piangere. Prende in giro il pubblico, gli vuole dire: “piangete che non ha vinto questo set eh, piangete come bambini”. Un momento davvero strano e affascinante.
In quel momento però lo abbiamo già capito: la partita è finita. Quando Djokovic decide di arrabbiarsi vuol dire che sta chiedendo qualcosa in più a sé stesso: il livello si alzerà. Non perde un tie break da quando eravamo giovani, e non sarà certo Sinner a farglielo perdere. Sinner che poi inizia questo tie break persino bene: forte al servizio, volitivo. Poi commette doppio fallo. Djokovic a quel punto si compatta, diventa feroce. C’è un punto successivo in cui il nastro sembra aiutare l’italiano, regalando a Djokovic una pallina ambigua da tirar su, che lo costringe a difendere la rete da una posizione di svantaggio. Si inventa però un paio di guizzi prodigiosi, rimarcando ancora una volta la differenza tra sé e gli altri: tra quelli che tremano e lui, che quando c’è da fare qualcosa in più, fa sempre qualcosa in più.
Sinner ai microfoni ha detto che si è sentito più vicino quest'anno piuttosto che lo scorso, ma sembrava ancora frastornato dicendolo. Capiamolo. Certe partite perse con Djokovic sembrano una di quelle di quelle storie raccontate dai rabbini dei fratelli Coen per insegnarti qualcosa. Sono enigmi, e lo sconfitto rimestando nell'assurdo ci deve trovare qualche morale. Qualcosa che giustifichi tanta insensatezza.
Djokovic dopo la partita, un po' ebreo errante, ha lanciato l’ennesima provocazione a questi giovani che non lo battono mai. Ha detto che Sinner merita di appartenere a questa nuova generazione di tennisti che vinceranno tanto, e che è felice di far parte anche lui di questa generazione. Scherza, ma quanto? Lo scorso anno Sinner lo aveva spinto fino al limite della sconfitta, mentre quest’anno se l’è bevuto come acqua tonica. Un allenamento agonistico di tre set. Lo aveva sorpreso, nel quarto della scorsa stagione, quest’anno ne aveva già decriptato tutti i segreti. Come un megacomputer che elabora i dati, Djokovic ha fatto il suo personale report su punti deboli e forti di Sinner. Una volta capite tutte le sfumature del suo gioco, non ha avuto problemi. Ora toccherà ad Alcaraz provare a dimostrare di essere fatto di un'altra pasta.
Djokovic è vicino a diventare il tennista con più tornei di Wimbledon vinti nella storia, quindi prendere questa sconfitta come un segno dello scarso talento di Sinner è follia. Tifare Sinner, però, è frustrante e dopo l’ennesimo onorevole piazzamento sono comprensibili i pensieri più depressivi. Forse non è forte come ci raccontiamo, o come i media amano raccontarci. Un giocatore pompato dai giornali italiani, o persino dalle istituzioni tennistiche - visto che la ATP e Wimbledon lo continuano a indicare vicino ad Alcaraz tra i futuri sovrani dello sport. Però lui non vince niente di davvero significativo: ancora nessun Master 1000, il gradino minimo per provare ad ascendere alla gloria. Non si limita però a perdere, ma a perdere arrivando molto spesso vicino a vincere. Tra i più giovani tennisti ad aver centrato i quarti di finale in tutti gli Slam; vicino a battere Djokovic a Wimbledon, Alcaraz agli US Open, uscito sconfitto da entrambi - vanificati due set di vantaggio con Nole e un match point con Carlitos. Sconfitto sempre da avversari molto forti: Tsitsipas, Nadal, Djokovic, Alcaraz. Sconfitto quindi con poche colpe, ricoperto di alibi. Sconfitto ed elegante col suo borsone Gucci. Per fare un paragone calcistico, è come tifare una di quelle squadre che arrivano sempre seconde pur giocando bene e dando l’impressione di poter arrivare prime - con velenosi strascichi di discussioni su cosa sia mancato.
Esiste una parola tedesca, magari alto-atesina, per descrivere il rimpianto delle sliding door mancate da Jannik Sinner? Sono sicuro che qualcuno in questo pianeta sta scrivendo un romanzo di fantascienza su un metaverso in cui Sinner coglieva quel match point con Alcaraz e diventava lui il primo della nuova generazione a vincere uno Slam.
In questa partita i rimpianti si riducono al primo game della partita, quando non è riuscito a sfruttare due palle break.
Sinner offre spesso la sensazione di essere vicino a questi giocatori da cui viene battuto. Nella partita singola può giocarsela alla pari con tutti. Ha qualche difettuccio su cui lavora con una maniacalità persino eccessiva (il gioco di tocco, la sua tenuta fisica, ma soprattutto il servizio), scomposto, però, tecnicamente il suo tennis raggiunge picchi d’elite. Eppure questo gradino, questo iato invisibile che lo separa dalla vera gloria, è ormai chiaro. Il tennis è, più di tutti, lo sport dei dettagli e dell’intangibile: Sinner non padroneggia nessuna di queste due dimensioni. È fenomenale già negli aspetti macro del tennis, ma non in quelli micro, in quelli molecolari.
Lo abbiamo visto anche nella partita di ieri.
Di fronte a un giocatore come Djokovic, che non faticava ad assorbire le sue sgasate da fondo, non aveva piani diversi a cui affidarsi. È l'inganno della contemporaneità del tennis: ti illude che tirare forte agli angoli da fondo campo basti per vincere, e poi ti fronte ti mette Djokovic. In fondo nemmeno avrebbe avuto senso per Sinner variare troppo: con Djokovic si è impotenti su tutti i fronti. Il suo gioco ha raggiunto una complessità mistica negli anni, forgiata pezzo dopo pezzo dalle sfide con Federer e Nadal. Non c’è niente che non sappia fare benissimo. Il tennis di Sinner è troppo elementare, come lo è quello di tutti i giovani che si stanno affacciando nel circuito. L’unica eccezione sembra essere quella di Alcaraz. Lo spagnolo ha tante note con cui suonare la sua musica, Sinner ne ha poche. Con quelle poche può raggiungere grandi vertici, ma non è adatto a tutte le orecchie. Il suo servizio, poi, gli regala pochi punti diretti. Sta migliorando, ma per un giocatore istintivo come lui deve portare di più.
Questa prevedibilità lo rende vulnerabile tatticamente, ed essere vulnerabile tatticamente ti porta agli estremi tecnicamente, ed è quello il territorio in cui ti sgretoli mentalmente.
Stiamo parlando dei massimi livelli sia chiaro, quelli di Djokovic a Wimbledon, dei migliori esseri umani sul pianeta a fare questo sport, di quelli che si esaltano quando possono giocare sul filo, ma che il più delle volte nemmeno ci arrivano. Più si sale, più la differenza scende nelle inezie, nelle particolarità.
Sinner salirà mai quel gradino, coprirà mai quello iato invisibile?
Seguiamo lo sport proprio per questo tipo di parabole, per vedere i nostri prediletti farsi grandi. Maggiore la sofferenza, maggiore sarà la ricompensa. Chissà se però nel frattempo saremo diventati pazzi.