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Guida ufficiosa all'All-Star Game
13 feb 2015
La gara da tre più importante di sempre; il Dunk Contest più snobbato; le polemiche sulle scelte, i dubbi sull'impegno, l'entusiasmo, lo scetticismo e altro ancora.
(articolo)
14 min
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“Una partita per i tifosi”. Sì, ma quali?

di Dario Vismara (@Canigggia)

Qualche giorno fa ho avuto modo di partecipare ad una conference call dei fratelli Gasol - che domenica salteranno per la palla a due del 64° All-Star Game, l’uno contro l’altro come fossero nel cortile di casa, cosa mai successa nella storia della Lega - nella quale, a un certo punto, un temerario giornalista spagnolo ha chiesto ad entrambi: “Pau, Marc: ma vi impegnerete in questo All-Star Game? Voglio dire, giocherete per davvero l’uno contro l’altro?”. Dall’altra parte della cornetta l’imbarazzo era palpabile, ma Pau (che di ASG ne ha già giocati quattro) è andato con la risposta standard di queste occasioni: “Beh, è una partita per i tifosi...”, che nel gergo dell’All-Star NBA significa “Non me ne potrebbe fregare di meno di impegnarmi in questa partita”.

Ma perché un prodotto di questo tipo - in cui non si difende, non ci si impegna ed è una lunga sequenza di schiacciate e alley-oop - dovrebbe interessare a un “tifoso”? Perché, alla fine, di questo parliamo quando si parla di All-Star Game: una non-partita che non appassiona chi la gioca, non diverte chi davvero segue la NBA in maniera continua (chiedete ad uno qualsiasi degli NBA-addicted che conoscete) e, sostanzialmente, tratta il tifoso di basket come se fosse un decerebrato che vuole solo LE SCHIACCIATE!!1!1!! Perché non dovrebbe piacerci vedere i migliori 24 giocatori (al netto degli infortuni) della Lega giocare una partita seria?

Per carità, ci sono anche motivi sensati per cui non si gioca sul serio: sarebbe ingiusto richiedere a questi giocatori un impegno del genere per una partita senza nulla in palio nel bel mezzo di una stagione da 82 partite più playoff che richiede di per sé uno sforzo fisico enorme. Su questo non si discute. Però ci deve essere da qualche parte una via di mezzo tra l’impegno e il totale menefreghismo di queste occasioni.

Se proprio non ti vuoi impegnare, almeno fallo in maniera palese. Esegue: Nostro Signore Rasheed Wallace.

Lasciando da parte la partita in sé e per sé, tutto quello che sta attorno all’All-Star Game è degno di nota e valutazioni: innanzitutto le votazioni sono un sondaggio non ufficiale sulla popolarità dei giocatori in giro per il mondo (exit poll: Kevin Durant 15.esimo? Ok l’infortunio, ma are you serious?), anche se Mark Cuban le vorrebbe eliminare del tutto; inoltre, essere votato o meno in quintetto ha un impatto sui guadagni dei giocatori (i Cavs ringraziano che Irving non sia titolare, dato che hanno risparmiato 7/10 milioni di dollari); e, solitamente, riunire così tante personalità diverse in un unico luogo dà spesso la possibilità di avere momenti oggettivamente meravigliosi o tremendamentedivertenti, e anche (una volta ogni dieci anni) finali di partitaspettacolari, perché quando si arriva negli ultimi 5 minuti con la partita in bilico, a questi esseri umani tremendamente competitivi non piace perdere.

O almeno è l’unica cosa a cui ci aggrappiamo per non pensare di aver buttato via 3 ore di prezioso tempo.

USA vs The World, ciak #1

di Lorenzo Neri (@TheBro84)

Alla NBA piace mettere mano agli eventi dell’All-Star Weekend: ogni anno si cerca una novità per trovare il giusto format e fare in modo che le giornate del venerdì e del sabato siano comunque una valida cornice all’evento principale della domenica. Ma se per il sabato l’attenzione è sempre rimasta alta nonostante alcune scelte decisamente rivedibili - come quella di non disputare gli Slam Dunk Contest nel biennio 1998-1999 oppure le modalità di sviluppo di questa competizione – il primo evento del weekend, il Rising Stars Challenge, non ha mai avuto l’appeal giusto rispetto alle altre competizioni, e non ha mai raggiunto i fasti dei primi anni di vita nonostante numerosi cambiamenti.

Nato nel 1994 come Rookie Challenge, la prima versione metteva di fronte i migliori rookie in una sfida inizialmente mista e in seguito suddivisa tra le due Conference, attirando gli appassionati che così avevano modo di ammirare i giocatori che da lì a poco sarebbero diventati protagonisti della Lega. Ma con il 1998 e l’inserimento dei sophomore, la sfida si è trasformata in una lotta tra i migliori prospetti delle due annate. La qualità del gioco e il valore della contesa hanno iniziato a prendere una parabola discendente da cui non si è più riusciti a risalire, finora. Hanno provato e tentato di mescolare le carte ancora una volta facendo una selezione mista tra le due classi, aggiungendo in panchina o dei giocatori dell’ASG o Charles Barkley e Shaquille O’Neal, ma il risultato rimaneva lo stesso: non era più una partita ma una vetrina delle skills offensive dei giocatori, e quindi la partita si trasformava in una “esibizione di schiacciate a tutto campo”.

Quest’anno la Lega ha rimesso mano all’evento, e stavolta sembra abbia toccato finalmente i tasti giusti. La sfida sarà sempre tra giocatori al primo e secondo anno, ma stavolta le due squadre saranno assegnate a seconda della nazionalità, con un intrigantissimo Team USA vs Team World. Un format già usato dalla Nike per l’Hoop Summit - la manifestazione che mette di fronte i migliori giocatori liceali americani contro i pari età provenienti da tutto il mondo - che per la NBA è una conferma del chiaro approccio global che si vuole impostare. Non male, soprattutto perché implementato nella stagione in cui si registra il record di giocatori stranieri (101, eppure nessuno si lamenta dei #TroppiStranieri...), dove i campioni uscenti, gli Spurs, hanno a roster giocatori provenienti da ben 7 nazioni differenti e le prime scelte degli ultimi due Draft sono di nazionalità canadese.

Per quanto riguarda il campo, i roster delle due squadre promettono molto bene, opponendo l’impressionante qualità di Team World sotto canestro con i centimetri di Antetokounmpo, Mirotic, Gobert e Nurkic, opposto al talento delle guardie statunitensi capitanato dal duo Oladipo-Carter Williams. C’è molta curiosità però anche sulla sfida tra due compagni di squadra, Andrew Wiggins e Shabazz Muhammad, che con le divise di Team World e USA si sono già sfidati nell’Hoop Summit del 2012.

Non è certo che venga fuori una partita diversa dalle precedenti, considerando l’approccio poco competitivo di tutta la manifestazione, ma in cuor nostro si spera che questo ennesimo format stavolta riesca ad aumentare davvero la rivalità in campo e che ciò possa portare ad una pallacanestro più godibile rispetto a quella vista negli anni passati. E l’impresa non è così ardua.

L’apoteosi del tiro da tre

di Alessio Marchionna (@AlessioMarchio)

Tutti si chiedono se sarà la gara di tiro da tre più bella della storia. Ci sono due modi per rispondere.

Il primo guardando i numeri, che effettivamente fanno impressione. Steph Curry al momento è al 43.5% da tre in carriera, una percentuale incredibile considerando la difficoltà della maggior parte dei tiri che prende; Klay Thompson ha già stabilito il record di canestri da tre nei primi quattro anni di carriera; Kyle Korver detiene il record della migliore percentuale al tiro da tre in una singola stagione (53.6 per cento nel 2009/10) e potrebbe ritoccarlo quest’anno; James Harden è diventato il sedicesimo giocatore a provare 6.5 o più tiri a partita senza mai scendere sotto il 38.5% di realizzazione (se avesse tempo e spazio per tirare con lo step back vincerebbe a mani basse); Kyrie Irving (38.7%), Wesley Matthews (39.7%), J.J. Redick (43.2%) e Marco Belinelli (38%) sono tra i migliori tiratori della Lega. La percentuale di realizzazione aggregata dei tiratori del 2015 è del 42.5%, seconda solo a quella del gruppo del 2008, quando però erano solo in sei (Dirk Nowitzki, Peja Stojakovic, Steve Nash, Richard Hamilton, Daniel Gibson e Jason Kapono).

Questo ci porta al secondo modo (il più utile) per rispondere alla domanda iniziale, cioè analizzare la qualità e le caratteristiche tecniche dei partecipanti. La prima cosa che salta all’occhio è che non ci sono specialisti. Non c’è un Kapono né uno Steve Kerr né un Tim Legler, il tipo di giocatore che durante la stagione scalda la panchina ed entra quando serve per fare la cosa (l’unica) che sa fare. È la diretta conseguenza del modo in cui si gioca oggi in NBA: con il tiro da tre si vincono le serie di playoff, i campionati e probabilmente i titoli di MVP. Tirare da dietro l’arco è diventato un mestiere troppo importante per lasciarlo a giocatori monodimensionali. Significa anche che oggi nessuno può diventare una star senza avere il tiro da tre tra le sue armi.

Un tempo non era così: alla sua quinta stagione in NBA, Michael Jordan tirava con il 27% dall’arco, e non si è mai interessato ad ampliare il suo tiro da oltre l’arco, concentrandosi sul mid-range per la seconda parte della sua carriera. Il discorso vale in parte anche per i lunghi: pensate a Serge Ibaka, che tre anni fa faceva fatica a segnare da sei metri in maniera continua e oggi è un tiratore affidabile anche oltre l’arco; pensate che Kareem Abdul-Jabbar, forse il centro con le mani più dolci della storia del gioco, ha tirato da tre diciotto volte in vent’anni di carriera; pensate soprattutto al capolavoro con cui il 6 febbraio Anthony Davis ha battuto i Thunder sulla sirena.

Anche qui i numeri possono dare una mano a capire la portata di una trasformazione che tutto sommato è abbastanza recente: nella stagione 2006/07 i tiri totali da tre erano stati 41.672, la scorsa stagione sono stati 52.974. Nel mese di gennaio, per la prima volta nella storia della Lega, si sono tentati più tiri da tre punti che non tiri liberi. L’aumento delle triple è avvenuto a discapito dei tiri dalla media distanza per un semplice calcolo matematico: se non si possono prendere due punti facili sotto canestro, gli allenatori preferiscono investire sull’opzione che garantisce più punti; ma quell’opzione diventa effettivamente vantaggiosa solo se aumenta il numero di tiri tentati. È statistica.

Nel 1967 George Mikan, ex commissioner della ABA - la prima lega a disegnare l’arco sul parquet - paragonò il tiro da tre all’home run del baseball. “È esattamente la stessa cosa: fa saltare i tifosi sulle sedie”. Cinquant’anni dopo la sua profezia si è avverata, con l’aggiunta che oltre a esaltare il pubblico le bombe fanno vincere i campionati. E fanno tornare la voglia di guardare l’All-Star Game.

Se anche non dovesse passare alla storia come l’edizione più bella, la ricorderemo comunque come quella più importante per l’evoluzione del gioco.

The Dunk Contest is Dead?

di Fabrizio “Fazz” Gilardi (@Fazzettino)

Se fosse una partita a Cluedo, finirebbe così: Vince Carter. Ad Oakland. Con queste:

Se come il sottoscritto siete nella fase ascendente degli -enta, all’epoca eravate teenagers. Levarsi quella roba dalla testa è impossibile, dopo averla vista con gli occhi di un ragazzo. Il silenzio surreale che ha accompagnato gli ultimi due voli (perché le precedenti erano schiacciate, le ultime due no, erano un’altra cosa) verso il ferro di Air Canada è una delle colonne sonore sportive più pazzesche che si siano mai sentite.

Negli anni seguenti si è assistito ad altre grandi prestazioni (Desmond Mason, Jason Richardson e Josh Smith) e singole schiacciate (Iguodala e DeRozan su tutti), ma mancava qualcosa. O meglio: sapeva tutto di già visto. Ma non può che essere così: il corpo umano ha dei limiti, e in ogni competizione in cui un gesto atletico è sottoposto ad un giudizio (ginnastica, tuffi, etc.) è pressoché tutto già visto, centinaia e migliaia di volte. Si cerca e premia la perfezione... ma per il Dunk Contest serve la sorpresa.

Poi nel 2005 è nato YouTube e di conseguenza si sono diffusi i mixtapes, tipo questo. Da una parte, in NBA, grandissimi giocatori di basket ed eccellenti schiacciatori. Dall’altrà, là fuori, schiacciatori fenomenali. Che poi sono anche in grado di giocare a basket, ma è irrilevante. La schiacciata da concorso è un gesto atletico e creativo che con il basket in senso stretto ha relativamente poco a che fare, è fisiologico che la seconda categoria sia avvantaggiata. In sostanza: volete vedere le migliori schiacciate possibili? Il Dunk Contest non è posto per voi. Volete vedere schiacciate che abbiano un perché cestistico? Il Dunk Contest non è posto per voi. Volete vedere i grandi nomi alle prese con la gara delle schiacciate?

Premesso che Vince Carter all’epoca non era affatto un Big... breve inciso regolamentare: il Collective Bargaining Agreement, cioè l’accordo collettivo siglato da NBA e Associazione Giocatori (NBPA) che stabilisce tutto, ma veramente TUTTO in termini di diritti e doveri delle due parti, ha una sezione dedicata all’All-Star Saturday. Per Three Point Shootout, Skills Challenge e Shooting Stars Contest deve rispondere alla convocazione qualsiasi giocatore che non sia infortunato o che non abbia già preso parte alla manifestazione nelle due edizioni precedenti. Poi magari capita anche che il probabile MVP della stagione decida che vincere la gara di tiro è uno degli obiettivi della propria carriera, ma questa è un’altra storia.

Per quanto riguarda il Dunk Contest invece, gli unici atleti a non poter rifiutare la chiamata sono i giocatori impegnati al venerdì nel Rising Stars Challenge. E infatti Giannis Antetokounmpo, Zach LaVine, Victor Oladipo, Mason Plumlee. Dicevamo, perché i grandi nomi non si interessano più al Dunk Contest? Perché è faticoso e per certi versi rischioso a livello fisico. Decisamente meglio riposarsi in vista dei Playoff. E perché, in ogni caso, nessuno dei Big potrebbe effettuare schiacciate migliori di quelle già viste. Sarebbe deludente. Perché non invitare i migliori schiacciatori al mondo? Perché è pur sempre l’NBA Dunk Contest. Ma quindi? Beh, due buone notizie ci sono. La prima è che tra i contendenti c’è un meraviglioso esemplare alieno che dei limiti umani non sa che farsene e che di conseguenza è totalmente imprevedibile. E la seconda è che tra i suddetti fenomeni da mixtape ce n’è uno che...

E non ditemi che non sono al livello di quelle di Vinsanity.

The Dunk Contest is dead.

Long live the Dunk Contest.

Quanto ci piace parlare di snobbati

di Daniele V. Morrone (@DanVMor)

Se la partita della domenica può appassionare o meno i tifosi NBA - a seconda del livello di interesse personale per una partita totalmente priva di agonismo e di difesa – di sicuro il dibattito sulle convocazioni per la partita stessa non lascia nessuno immune. Lo è soprattutto perché la convocazione all’ASG rimane un riconoscimento al lavoro svolto durante la stagione e viene spesso citato tra i risultati più importanti di una carriera NBA. Se per i titolari il margine di manovra è molto basso, dato che scelgono i tifosi e la carriera (più la fan base e le celebrities) conta più delle prestazioni sul campo - si può fare l’esempio di Kobe Bryant quest’anno, per citarne uno -, per le riserve scelte dagli allenatori le chiamate vanno a premiare in maniera (si spera) più precisa i giocatori migliori della stagione.

Ovviamente essendo le chiamate a disposizione solo sette per squadra, qualcuno rimane inevitabilmente fuori e il livello (forse mai visto) di eccellenza ad Ovest ha creato non pochi esclusi di rilievo in questa edizione. La cosa è stata corretta in parte dalle entrate successive nel roster di DeMarcus Cousins e Damian Lillard per gli infortunati Bryant e Griffin, facendo dormire sonni tranquilli ai tanti tifosi che avevano twittato allo “SCANDALO!!” per le assenze dei due di Sacramento e Portland, e soprattutto i giocatori stessi, che si riprendono dal colpo iniziale al proprio ego (e al portafogli nel caso di Lillard).

Eppure in tutto questo la squadra con il terzo miglior record della Lega (Memphis) porta un solo giocatore alla partita nel centro Marc Gasol, lasciando a casa due come Zach Randolph e soprattutto Mike Conley, la point guard titolare che rischia di non arrivare mai a giocare un ASG nonostante prestazioni da top-10 del ruolo. La concorrenza ad Ovest è tale che solo una stagione fantascientifica per un trentottenne ha permesso ad una leggenda vivente come Tim Duncan di entrare nel roster, e non è bastato invece un record di squadra del 66% ad un’altra icona del gioco come Dirk Nowitzki per essere riconosciuto come All-Star (solamente la rinuncia per infortunio da parte di Anthony Davis lo ha fatto entrare in roster). Forse proprio la scelta di Duncan poteva essere utilizzata invece per premiare squadre con record migliori, prendendo il citato Zach Randolph o chi come Draymond Green dei Warriors è il miglior difensore e l’anima della squadra più forte della Lega.

Se ad Ovest la concorrenza è enorme non si può dire lo stesso ad Est, dove basta una stagione “normale” di Dwyane Wade a garantirgli la chiamata degli allenatori. La decisone di Wade di non partecipare per recuperare da un infortunio ha aperto le porte a Kyle Korver di Atlanta. Korver è il quarto giocatore di Atlanta dopo Teague, Millsap e Horford ad entrare in roster e visto l’inizio di stagione della squadra non è certo uno scandalo. Soprattutto in una stagione dove le sue prestazioni irreali al tiro (53% da tre tirando quasi sei volte a partita) e suoi perfetti movimenti senza palla lo hanno resto un giocatore fondamentale per la miglior squadra ad Est.

Non è che ci sia stata questa grossa concorrenza con Korver per sostituire la stella di Miami, visto che forse solo Brandon Knight dei Bucks meritava di essere preso in considerazione tra gli esclusi: Knight è il leader di una squadra dal record vincente e porta in dote statistiche comunque paragonabili a quelle di Wade. Particolare è il caso di Kevin Love di Cleveland, passato da essere All-Star ad Ovest lo scorso anno a non essere scelto come riserva ad Est in questo, segno che il suo status di stella ha risentito parecchio dell’inizio di stagione non positivo.

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