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Gunnar Nordahl e Kakà, due ritratti
30 set 2020
Un estratto dal libro di Giuseppe Pastore e Paolo Condò.
(articolo)
4 min
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Pubblichiamo un estratto del libro di Paolo Condò e Giuseppe Pastore La storia del Milan in 50 ritratti uscito da poco per Centauria. Il libro fa parte di una collezione dal nome "Il grande calcio" composta da altri due volumi dedicati a Inter e Juventus.

Gunnar Nordahl

19 ottobre 1921 (Hörnefors, Svezia)

15 settembre 1995 (Alghero, Italia)

«Nils, io vado.»

«Certo, vai. È giusto.»

L’ultimo saluto «svedese» tra Gunnar Nordahl e Nils Liedholm andò più o meno così, frasi secche e lapidarie da film di Bergman: si dissero arrivederci a Norrköping per ritrovarsi a Milano. Per generazioni di milanisti che lo hanno fissato col naso in su, essendo tuttora il miglior marcatore della storia rossonera, Nordahl rappresenta il lato più fiabesco e incantato del Gre-No-Li. Perché il Barone Liedholm è stato anche un grande allenatore, uomo pratico e concreto, e ancora oggi il ricordo si mantiene vivo nella sua prole e nei suoi tanti discepoli. Gren era comunque uomo coi piedi per terra, maestro di posizione, incarnava la sagacia tattica. Nordahl invece è pura entità spirituale, tramandato oralmente tanto che spesso si sbaglia a scrivere il cognome, storpiandolo in Nordhal. Un orco buono o terribile a seconda dei punti di vista, tremendo sia nei freddi numeri (214 gol in 262 partite!) sia nelle descrizioni fantastiche delle sue dimostrazioni di forza bruta, che sembravano prese di peso dai miti nordici, di reti sfondate, di difensori trascinati per metri nonostante gli fossero aggrappati ai calzoncini: la leggenda riguarda un certo Gramaglia del Napoli, mentre è provato che Carlo Parola rimediò per colpa sua la prima espulsione in diretta tv della storia del calcio italiano, in uno Juve-Milan 1-7 del 1950. Come ammantate di mito erano le circostanze del suo arrivo alla Stazione Centrale, come risarcimento dell’Avvocato Agnelli, perché la Juve aveva soffiato al Milan tale Pløger, intercettandolo sul treno per Milano all’altezza di Domodossola, come in un balletto di spie. Quando smise, lasciò il rimpianto di non averlo avuto a disposizione qualche anno ancora, così da provare a contendere almeno un paio di coppe dei Campioni ad Alfredo Di Stéfano, un altro che come lui non aveva mai avuto la fortuna di giocare un Mondiale. E come un personaggio delle fiabe morì il 15 settembre 1995, ad Alghero, mentre nuotava in piscina: nel momento in cui il suo cuore si fermò, aveva addosso un costume da bagno rossonero.

Kakà

22 aprile 1982 (Gama, Brasile)

I milanisti non erano abituati a quel cambio di passo. Si ricordavano della progressione di Gullit a Napoli nel giorno del sorpasso scudetto, delle cavalcate a sciabola sguainata di Shevchenko o delle manovre in fase di rullaggio predecollo del Concorde Serginho. Ma un campione dalle sembianze così umane tolse il sonno a tutti loro, perché per gli innamorati la realtà è migliore dei sogni. Kaká era sbarcato alla Malpensa il giorno dopo il Ferragosto del 2003 con degli occhialini da studente di ingegneria, praticamente la divisa in borghese di qualunque supereroe che si rispetti. Il suo nome di battaglia era stato salutato dal crasso umorismo di alcuni dirigenti concorrenti. Tempo un mese aveva regolarmente preso a buggerare Gattuso, Nesta e Maldini in allenamento, fino a suggerire a quel monumento all’eleganza che risponde al nome di Manuel Rui Costa di alzare bandiera bianca: «Mister, è più forte di me». Ha attraversato gli anni Duemila rossoneri come un vento fresco e allegro, propizio per il suo equipaggio e devastante per i nemici: in un derby del 2004 fece ammonire quattro interisti, tutti costretti a placcaggi goffi e improvvisati, come le massaie che si affrettano a chiudere le finestre quando s’alza la bufera. Quando gli arrivava la palla aveva questo potere di rendere le cose facili ed elementari fino a scivolare nel fumetto: crash!, fecero Evra e Heinze, i due difensori del Manchester United che Kaká aveva mandato a schiantarsi l’uno con l’altro in una scena alla Bud Spencer. Ma era anche un minimalista, lontanissimo dall’arzigogolo fine a se stesso di un Ronaldinho, persino severo nel modo spiccio con cui puntava la porta dritto per dritto: un film di Clint Eastwood, non di Tarantino. Severo, ma col sorriso. Un maestro delle linee: quella orizzontale che con lui raggiungeva distanze visionarie, come il tracciante che mandò in porta Crespo nella disgraziata finale di Istanbul, e quella verticale delle braccia e degli indici alzati verso il cielo dopo ogni gol, nonché del Pallone d’oro sollevato verso San Siro. Pratico e cartesiano: in definitiva, il brasiliano meno brasiliano che possiate immaginare. Per questo, nonostante un addio controverso direzione Madrid che non fece bene né a lui né al suo ex club, rimase per sempre nell’anima di quello che per definizione è il popolo razionale ma col cœur in man: i milanesi, i milanisti.

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