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Ha ancora senso il financial fair play?
29 nov 2023
Le possibili penalizzazioni di Chelsea e City potrebbero ravvivare il dibattito.
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IMAGO / News Images
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Il 17 novembre l’Everton è stato penalizzato di 10 punti per aver violato la Profitability and Sustainability Rule (PSR), cioè la normativa con cui la federazione inglese di calcio, cioè la Football Association (FA), ha recepito le regole europee sul fair play finanziario (FFP), introdotte dalla UEFA nel 2011. L’obiettivo del FFP, come sappiamo, è quello di assicurare che i club di calcio professionistico non operino al di sopra delle proprie capacità finanziarie e il concetto su cui si basa è quello del break-even, che impone a tutti i club di calcio l’obiettivo di limitare le perdite di bilancio e, nel giro di qualche anno, raggiungere un sostanziale pareggio tra ricavi (botteghino, diritti tv, attività commerciali, sponsorizzazioni, pubblicità e compravendita di calciatori) e costi (che, nelle società di calcio, sono principalmente costituiti da ammortamenti sui cartellini e stipendi dei calciatori).

Nel caso della PSR, il deficit massimo per una squadra di Premier League su tre anni è fissato a 105 milioni di sterline (il FFP, nella sua ultima versione post-pandemica, stabilisce invece che il deficit su tre anni non debba superare i 60 milioni di euro). La regola chiarisce che, sul fronte delle entrate, si debbano considerare i soli introiti che il club incassa attraverso le “normali” attività calcistiche, cioè quelle elencate in precedenza, senza quindi ricorrere, in caso di insolvenza, a trucchi contabili oppure all’intervento di presidenti generosi (i cosiddetti sugar daddies) che immettono denaro in maniera nascosta, attraverso per esempio sponsorizzazioni fittizie (ci torneremo più avanti).

La penalizzazione è stata decisa da una commissione ad hocpresieduta da Murray Rosen, un giudice esperto in diritto sportivo, che ha stabilito come l’Everton nel triennio 2019/22 abbia sforato il limite per una valore pari a 19,5 milioni di sterline. Il club di Liverpool ha contestato la decisione, affermando che alcuni prestiti per il nuovo stadio in costruzione sarebbero dovuti essere contabilizzati a parte. La penalizzazione ha sorpreso molti osservatori per la sua severità, soprattutto alla luce dei gravi danni economici che hanno dovuto affrontare i club negli ultimi anni per via della pandemia.

Al di là delle ragioni dell’Everton, comunque, la sentenza (che è ancora appellabile) ha accresciuto l’apprensione degli altri club della Premier, alcuni dei quali potrebbero incorrere in sanzioni ancora più grandi e clamorose.

I casi contro Chelsea e City

Il pensiero corre, per esempio, al Chelsea. Nel 2022 l’americano Todd Boehly scopre, dopo essere subentrato alla guida del club, che la vecchia proprietà che faceva capo a Roman Abramovich (costretto a cedere il club all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina per via dei suoi noti legami con Putin) aveva presentato alle autorità calcistiche informazioni finanziarie “incomplete” in riferimento al periodo 2012–19. Boehly si autodenuncia alla UEFA, responsabile per il controllo del FFP, e alle autorità inglesi deputate al controllo della PSR. La nuova proprietà accetta una multa della UEFA pari a 8,7 milioni di sterline per violazione del FFP, i cui reati cadono in prescrizione dopo 5 anni. Mentre le verifiche dell’UEFA sono limitate al periodo successivo alla stagione 2018-19, però, la Premier League può investigare anche su eventuali irregolarità precedenti, perché la PSR non contempla prescrizione. Il procedimento è ancora in corso e si attende una decisione nei prossimi mesi.

È possibile che sul nuovo procedimento a carico del Chelsea pesi anche l’inchiesta Cyprus confidential, pubblicata pochi giorni prima della sentenza sull’Everton. Condotta da un pool di quotidiani (tra cui il britannico Guardian) su 3,6 milioni di operazioni bancarie offshore, Cyprus confidential ha messo in luce nuove potenziali irregolarità della gestione Abramovich in merito al rispetto del fair play finanziario. In particolare, in questi documenti ci sarebbero le prove di pagamenti in nero che il Chelsea avrebbe veicolato, tra gli altri, agli agenti di alcuni importanti calciatori, come Samuel Eto’o e Eden Hazard, oltre all’allenatore Antonio Conte.

Ancora più complicata è la situazione del Manchester City. Lo scorso 10 giugno l’Abu Dhabi Investment Authority, il fondo sovrano degli Emirati Arabi che ha comprato il City nel 2007, ha raggiunto l’obiettivo ultimo dei suoi investimenti, mettendo le mani sulla Champions League, dopo aver vinto anche 7 delle ultime 12 edizioni della Premier League. Tutti questi successi, però, potrebbero essere sporcati se le accuse di doping finanziario mosse nei suoi confronti a febbraio dovessero essere confermate.

Sono 115 i capi di imputazione contestati al City dal 2009 al 2018. L’accusa principale è quella di aver usato alcuni generosi contratti di sponsorizzazione provenienti da società legate allo sceicco Mansour bin Zayed – in particolare la compagnia aerea Etihad – per consentire al proprietario del City di immettere fondi nelle casse del club. L’inchiesta sul City parte dalle accuse di violazione del FFP mosse dalla UEFA nel 2020, e che portarono all’esclusione del City per due anni dalle competizioni europee.La decisione era stata in seguito annullata dal Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna (TAS) perché le fattispecie di reato contestate erano in parte difficili da accertare e in parte cadute in prescrizione. Siccome, come detto in precedenza, la PSR non contempla prescrizione, adesso toccherà alla commissione presieduta da Murray di esprimersi sulla fondatezza delle accuse contro i neo-campioni d’Europa e il precedente dell’Everton non promette bene. Se la squadra di Liverpool è stata penalizzata di 10 punti per un’infrazione (relativamente) lieve, infatti, non è del tutto inverosimile che la penalizzazione del City, accusato di molteplici violazioni nell’arco di un decennio, possa persino spingersi a una retrocessione, o alla revoca di titoli.

Pep Guardiola, pochi giorni fa, ha dichiarato che il City è innocente fino a prova contraria e che comunque lui rimarrebbe sulla panchina dei citizens anche in caso di retrocessione in League One, cioè la terza serie inglese – una dichiarazione che ci dice quanto una penalizzazione molto pesante sia ormai uno scenario seriamente preso in considerazione.

L’importanza e la debolezza del financial fair play

La notizia dell’inchiesta sul City da parte delle autorità della Premier League era arrivata mentre il processo alla Juventus, ben noto ai lettori italiani, si avviava a conclusione. Juventus e Manchester City, pur collocandosi agli antipodi per storia e struttura proprietaria, avrebbero commesso infrazioni simili, violando i principi che reggono il FFP. La Juventus ha “aggiustato” i conti rendendoli meno drammatici grazie ad un uso sistematico delle plusvalenze (quindi si potrebbe dire attraverso “denaro finto”). Il City avrebbe usato sponsorizzazioni fittizie (cioè con valori oltre una normale valutazione di mercato) per immettere altro denaro (vero stavolta) nella società e poter così coprire gli investimenti faraonici fatti per dominare in Inghilterra e in Europa.

In entrambi i casi, comunque, mi sembra significativo che la UEFA, da sola, non sarebbe riuscita ad applicare le sue stesse regole. Nel caso della Juventus c’è voluta la mano della Consob e della procura di Torino a stimolare le indagini sulle acrobazie contabili di Agnelli e Paratici, poi concluse con una penalizzazione per la squadra nello scorso campionato e la squalifica dei suoi ex dirigenti (la UEFA e il FFP sono intervenuti solo a posteriori, escludendo la Juventus dalle competizioni europee per questa stagione). Nel caso del City saranno invece la Premier League e la commissione presieduta da Murray a penalizzare eventualmente i campioni d’Inghilterra – sempre che dei provvedimenti venissero davvero presi alla fine. Entrambi i casi sembrano dimostrare la forza e insieme la debolezza di un organismo come la UEFA, che anche quando è mossa dalle migliori intenzioni sembra essere forte con i deboli e debole con i forti.

Il FFP infatti ha funzionato piuttosto bene con le squadre medio-piccole, ma ha inciso poco sulle grandi squadre che, come dimostrano le vicende di Juventus, Manchester City o Chelsea, hanno continuano a muoversi in un orizzonte in cui ci si salva – attraverso l’intervento pubblico, l’indulgenza dei creditori o i trucchi contabili – anche se i conti sono “in rosso” e le società insolventi. Questo dipende in parte anche dalla natura della UEFA, che non le permette di ergersi davvero al di sopra dei club, sia da un punto di vista giuridico che politico. I club, infatti, sono parte integrante della UEFA e le forniscono la necessaria legittimità politica per funzionare normalmente.

Al di là di come andranno a finire, comunque, questi casi potrebbero essere utili per generare discussione e interesse intorno al paradosso finanziario su cui si regge il calcio europeo, che io chiamerei “insostenibilità sostenibile”. Spesso i principali club europei sono troppo grandi per fallire (too big to fail), per via della loro sproporzionata importanza socio-culturale per una fetta enorme della popolazione, nonostante non siano davvero così grandi per rappresentare un problema a livello economico in caso di fallimento. Il valore del Manchester United, uno dei giganti del calcio mondiale messo di recente in vendita, è più o meno equivalente a 6 miliardi di sterline. Si tratta di una cifra molto rilevante (nessun club italiano potrebbe anche minimamente avvicinarsi a tale valutazione) e, tuttavia, nel caso di insolvenza di un grande club calcistico, non sarebbe problematico reperire i fondi necessari per un salvataggio. Soprattutto, tale mobilitazione non comprometterebbe l’economia di un Paese come successe, per esempio, 15 anni fa, quando la bancarotta della banca d’investimento americana Lehman Brothers – che coi suoi investimenti nei famigerati mutui subprime e prodotti finanziari annessi aveva accumulato un passivo di 600 miliardi di dollari – rischiò di far saltare il banco dell’economia americana e mondiale.

Anche nei rari casi di fallimento, poi, la storia insegna che una società calcistica può rinascere dalle sue ceneri ripartendo dalle serie minori. Certo, è un percorso sportivamente difficile ma possibile anche senza una dirigenza miliardaria. Allora, viene da chiedersi, se il calcio può tutto sommato continuare ad operare in una situazione di insostenibilità finanziaria, perché preoccuparsi di regolamentarlo, applicando e potenziando il fair play finanziario per tutti?

Ci sono almeno due buone ragioni per farlo. La prima, eminentemente economica, riguarda l’equilibrio competitivo nel calcio europeo. Se i grandi club fanno incetta di calciatori sempre più costosi e vincono a ripetizione nella certezza di farla franca, i club minori saranno incentivati a fare lo stesso per mantenersi competitivi. Questa pratica ai livelli più alti genera effetti a cascata sulle serie minori che, non a caso, sono quelle che presentano i profili di insostenibilità finanziaria più elevati. Per restare all’esempio inglese, nell’estate del 2019 il Bury, un club con oltre 125 anni di storia nel calcio professionistico, ha dichiarato bancarotta, mentre altre società con una grande tradizione – dal Derby County al Wigan (vincitore dell’FA Cup nel 2013) – si sono salvate per il rotto della cuffia. Il fair play finanziario, insomma, può essere decisivo per la solidità della base della cosiddetta piramide finanziaria, senza la quale anche il calcio di primo livello (cioè la punta di questa piramide) andrebbe in difficoltà. C’è chi, anche per questa ragione, vorrebbe tagliare la testa al toro e passare direttamente a una superlega chiusa, ma siamo sicuri che i proprietari dei top club europei sarebbero in grado di accordarsi su regole finanziarie stringenti come quelle in vigore negli sport americani? Le evoluzioni del progetto di Superlega pensato da Agnelli e Florentino Perez sembrano dimostrare il contrario.

La seconda, più di natura politica, riguarda i sempre più frequenti investimenti che gli Stati, spesso regimi autoritari, compiono nello sport, e nel calcio in particolare, con l’obiettivo di acquisire prestigio, leva diplomatica (o se volete: soft power) e/o una patina di rispettabilità (sport washing). Su questo punto è stato scritto tanto e molti campanelli d’allarme hanno suonato – invano, come dimostrano per esempio gli ultimi successi dell’Arabia Saudita, che ha recentemente comprato il Newcastle e a breve otterrà anche l’assegnazione dei Mondiali del 2034.

Questi investimenti, che sembrano salvifici in un primo momento, spesso però poggiano su premesse fragili. I regimi autoritari vivono in una situazione di conflitto implicito con l’Europa, e sono meno prevedibili di quelli democratici cambiando strategia al cambiare della propria élite al potere. Abbiamo avuto diversi esempi negli ultimi anni. Dalla Cina che abbandona improvvisamente i suoi piani di espansione nel calcio, lasciando molti club acquistati da imprenditori cinesi in difficoltà, al subitaneo crollo del Roman Empire, dal nome del vecchio proprietario del Chelsea, Abramovich, costretto a scappare dal calcio inglese dopo l’aggressione russa all’Ucraina.

Se è vero che pecunia non olet, insomma, è altrettanto vero che certi investimenti possono rivelarsi non solo imbarazzanti da giustificare ma anche destabilizzanti da un punto di vista economico. Un fair play finanziario che funziona, in questo senso, potrebbe diventare un ottimo antidoto per entrambe le cose.

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