Habakkuk Baldonado, per tutti “Haba”, è il motivo per cui per gli appassionati italiani di NFL il Draft 2023, che si terrà il 28 aprile a Kansas City, non sarà come gli altri. Se Giorgio Tavecchio, l’ultimo italiano ad aver giocato in NFL, non era stato scelto al Draft e Sandro Vitiello, italiano arrivato nella lega americana nel 1980, si era trasferito negli Stati Uniti a 7 anni, Haba è cresciuto sportivamente in Italia. Per questo sarà un giorno storico per il nostro football, perché non è mai successo che un giocatore italiano e di scuola italiana venisse scelto.
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La strada che separa Roma da Kansas City è piuttosto lunga e per farmela raccontare ho parlato direttamente con Habakkuk Baldonado.
Mica male questo football
Haba sarà scelto al prossimo Draft, questo è certo. Il suo nome, probabilmente, verrà chiamato a metà dei 259 che verranno reclutati dalle squadre NFL. Entrare in questa ristretta cerchia è un’impresa notevole persino per un americano, dato che solo l’1.6% dei giocatori collegiali vengono scelti, figuriamoci per chi ha messo piede negli Stati Uniti la prima volta a 17 anni.
Tra loro, forse, Haba è il meno “navigato”, non perché sia il più giovane, anzi - a 23 anni è considerato già un “older prospect” - ma perché al football ne ha dedicati molto meno di un classico giocatore della NFL. Succede, quando arrivi da Colli Portuensi (un quartiere di Roma) e fino all’adolescenza non sapevi nemmeno che ci fosse “un altro” football. Né il padre Edgar, caraibico di origine, né la madre Paola hanno introdotto Haba a questo sport, come magari accade per chi inizia a praticare uno sport molto presto scalandone le gerarchie. Haba il football lo scopre per caso, in tv: «Avevo circa dodici anni quando per caso mi comparve sullo schermo. Non ricordo nemmeno che partite fossero, credo di football collegiale, ma ho subito pensato “mica male!”. Poco dopo mi sono informato per vedere dove potevo giocare a Roma».
Questo colpo di fulmine ricorda molto da vicino quello di Max Pircher, l’altro italiano attualmente in NFL. Così come per Haba, anche per Max - che avevamo intervistato due anni fa - era stato un video a far scoccare la scintilla che lo aveva portato a misurarsi col football. Il suo percorso è ancora più inverosimile, con l’Italia che ha svolto un ruolo importante tanto quanto la sua formazione successiva. Gli chiedo allora di ripercorrere i suoi primi passi: «Ho iniziato nelle giovanili dei Lazio Marines e il football mi è piaciuto tantissimo da subito, giocarlo mi veniva naturale. Purtroppo dopo pochi mesi io e la mia famiglia ci siamo resi conto che non era fattibile. I Marines all’epoca si allenavano all’Eur, piuttosto lontano da casa mia, e questo costringeva mio papà a portarmi agli allenamenti dopo il lavoro. Spesso dormiva in tribuna aspettando che finissi. Così non poteva andare avanti, allora ho dovuto mollare e ripiegare su altri sport, in particolare le MMA, ma la voglia di giocare a football non è mai scomparsa. Anni dopo, grazie ad un mio vecchio compagno ho scoperto che i Marines avevano traslocato in una zona più vicina a casa, e questo mi ha permesso di tornare. È stato come un nuovo colpo di fulmine e questa volta non mi sono più fermato».
Con i Marines Haba sperimenta: gioca sia in attacco che in difesa, e mentre affina la tecnica e la conoscenza del gioco sviluppa un fisico fuori scala per le giovanili. Prima ancora di arrivare in quinta superiore è già in prima squadra e non passa molto prima che arrivi persino la chiamata della nazionale senior.
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In quel periodo si materializza la possibilità di fare un anno di scuola negli Stati Uniti, il che significa giocare per una squadra di high school. Per Haba il football diventa qualcosa di più di una passione, un modo per fare nuove esperienze: «A Roma sono sempre stato da dio ma allo stesso tempo sono stato cresciuto da mia mamma con la voglia di esplorare e conoscere. Lei lavora alla FAO, parla diverse lingue e ha uno sguardo internazionale sul mondo, per questo mi ha consigliato di provare un’esperienza all’estero. Quando si è concretizzata la possibilità di fare un anno di liceo negli USA l’ho presa al volo».
Quello all’accademia di Clearwater non è un passaggio banale. Haba si trova in Florida, a migliaia di chilometri da casa e in un contesto molto diverso da quello romano, una piccolissima accademia scolastica a metà strada tra le città di Saint Petersburg e Tampa Bay. Forse troppo isolata per un ragazzo abituato a girare per Roma?
«Mi sono trovato subito bene a dire il vero. L’accademia era piccola ma aveva un respiro internazionale, c’erano diversi ragazzi italiani con me e questo mi ha aiutato molto perché all’inizio non è che parlassi benissimo l’inglese. E poi ok la distanza da Roma, però ero in Florida: sole, mare e football. A 17 anni che vuoi di più?».
Questo trittico da sogno rischia però di trasformarsi presto in un incubo: «Prima partita del campionato, sono carico, sto giocando bene, penso “sto a spaccà tutto”, e invece me stò a spacca’ io. Un mio compagno mi prende con il casco sul braccio, il gomito si gira completamente». Dolore, sostituzione e infine la tegola: «Il primo dottore che mi ha visitato dice che non è niente di che e andrà a posto in due settimane, ma quando il gomito non si è sgonfiato ho iniziato a preoccuparmi. Faccio una risonanza magnetica e scopro che ho quasi tutti i legamenti del gomito lacerati, addirittura si è staccato un pezzo di cartilagine. C’era il rischio di perdere l’anno e persino di non giocare più a football».
«Ero distrutto per la notizia, ma per fortuna Kannon Feschback, la madre della famiglia che mi ospitava, ha deciso di non arrendersi e ha chiesto un altro consulto. Mi ha portato da uno specialista dei Rays (la squadra di baseball di Tampa Bay, nda) uno che di gomiti di sportivi ne ha visti a centinaia. Questo dottore mi dice “guarda, peggio di così il gomito non te lo puoi conciare, quindi gioca con un tutore per tutto l’anno e poi penseremo ad operarlo”. E così ho fatto, ho giocato con un tutore e ho portato a termine una bella stagione».
Bella stagione è un gigantesco eufemismo, visto che Haba chiude a 30 sack (atterramenti del quarterback avversario) stagionali, più o meno l’equivalente di 50 goal in una stagione di calcio. Grazie alle sue prestazioni alla Clearwater Academy, che fino a poco tempo prima non aveva nemmeno una squadra ufficiale, finisce sulla mappa del football liceale in Florida. La super stagione gli apre le porte alla parte “americana” della sua storia. Haba viene osservato, contattato e gli vengono offerte borse di studio da parte di alcuni dei college più importanti del paese a livello di football. Prima Coastal Carolina, poi Oregon, Nebraska e poi tante altre. La corsa è serrata al punto che uno dei college più interessati, Michigan State, si spinge ad invitare la madre Paola per la visita al Campus, pagandole il volo da Roma.
Pittsburgh
Alla fine a spuntarla non sono gli Spartans di Michigan State, ma i Panthers dell’Università di Pittsburgh. «Ho scelto Pitt per tanti motivi. Sicuramente ha inciso la presenza di un aeroporto internazionale, un ambiente urbano, perché anche se la città non è enorme non è uno di quei Campus in mezzo al nulla. Poi l’impatto che ho avuto con le persone all’Università, quello mi ha davvero colpito e mi ha convinto a scegliere Pitt».
Inizialmente l’italianità di Haba è stata un ostacolo, una fonte di scetticismo per chi non credeva che un italiano così inesperto potesse contribuire alla causa di un'università così importante sul campo. «Durante tutto il processo ci sono state persone che non credevano in me, dicevano “ma tu sei l’italiano, hai giocato si e no due anni, non sei capace” e mi guardavano dall’alto in basso. All’inizio ho sentito il peso di questo scetticismo, in molti si chiedevano cosa ci facessi con una full ride scholarship a Pitt. Persino il mio coach di difesa, Charlie Partridge, ha ammesso che non sapevano quanto conoscessi del football quando mi hanno preso. Però lo ha detto scherzando, quando già avevo dimostrato quanto valgo in campo».
L’impegno che ci è voluto è stato davvero tanto, perché la vita di un atleta collegiale di alto livello non è esattamente quel baccanale tutto feste e divertimento che mostrano film e serie TV come American Pie o Blue Mountain State. «Qualcosina di vero c’è in quelle serie - dice sorridendo - soprattutto il fatto che tutti ti conoscono e ti apprezzano se giochi bene a football, ma noi atleti non abbiamo mica il tempo di fare baldoria tutte le sere! Lavoriamo sei giorni su sette, ci svegliamo all’alba e non finiamo con gli allenamenti prima del pomeriggio, e poi dritti in classe per le lezioni fino anche alle 22. La nostra routine è questa per quasi tutto l’anno, tolto qualche periodo di vacanza qua e là».
Che Haba non sia il classico “Jock”, l’atleta spaccone e un po’ superficiale, lo si capisce parlandoci anche solo 30 secondi e lo confermano i suoi interessi, perché insieme a motociclette e MMA nella lista delle passioni di Haba c’è una disciplina che difficilmente associamo ad un atleta: «Sono molto interessato alla filosofia, spesso prima di dormire leggo qualche passo, sia filosofi antichi che moderni. Mi piacciono in particolare Seneca e Marco Aurelio». Gli chiedo se questo interesse per lo stoicismo sia nato prima o dopo la sua carriera da giocatore e se nelle parole di Seneca e Marco Aurelio abbia trovato una sorta di conforto alle ansie che può comportare giocare davanti a migliaia di persone. «È una passione che coltivo da prima di arrivare a Pitt e riguarda una sfera più personale, ma sicuramente ho applicato alcuni spunti anche alla mia carriera. Pensa che i miei compagni mi prendevano in giro per le frasi in latino che posto sui social, ho dovuto spiegargli il significato».
Se Haba era davanti ai suoi compagni in quanto a cultura classica, non si può dire che fosse lo stesso per quanto riguarda quella sportiva: «Non direi che avevo paura di confrontarmi con un livello così alto, ma sapevo che dal punto di vista teorico ero indietro rispetto agli altri, e infatti già dal primo allenamento a Pitt i coach ci hanno messo tanto sul piatto, tra terminologia e schemi super complicati. Io sapevo di avere tanto terreno da recuperare e l’ho fatto da subito, lavorando più degli altri per raggiungerli e superarli. Devi sempre avere l’attitudine di voler dominare in questo sport, altrimenti non vai da nessuna parte».
A prima vista può sembrare curioso che questo “dominare la competizione” si riferisca ai compagni. Può suonare strano, ma in tanti sport e in particolare nel football la competizione è rivolta tanto all’esterno quanto all’interno della squadra, perché si gioca contro gli avversari il sabato alla partita ma da domenica a venerdì si sfidano i compagni per guadagnare o conservare il posto da titolare. Non c’è il rischio che questo porti ad un clima tossico in spogliatoio? «In realtà no, sappiamo tutti le regole del gioco e diamo l’anima per superare i nostri compagni, ma siamo davvero come una famiglia, ci sosteniamo a vicenda e facciamo il tifo l’uno per gli altri». Grazie al duro lavoro e ai consigli di un vero guru difensivo come Coach Partridge, Haba nel giro di un paio d’anni ha davvero superato la competizione interna fino a diventare un giocatore quotato a livello nazionale come defensive end, un ruolo duro e importantissimo. Ma cos’è un defensive end e cosa fa su un campo da football? Sostanzialmente il defensive end è un esterno della linea di quattro giocatori che la difesa schiera in opposizione alla linea d’attacco avversaria. Il compito principale è semplice: buttare a terra il quarterback avversario nel minor tempo possibile, compiendo quello che in gergo si chiama “sack” sul quarterback. Se la teoria è semplice, la pratica è tra le più complicate che ci siano, perché tra un defensive end e il suo obiettivo è frapposto un offensive tackle (l’esterno della linea d’attacco), una montagna d’uomo che raramente scende sotto il metro e 95 e i 130 kg di peso. Il defensive end, insomma, è quasi sempre più piccolo e meno forte dell’uomo che ha di fronte. Per vincere questo scontro impari deve usare i suoi doni atletici, passando esterno al tackle con velocità o passando “sopra” con potenza, ma può anche sfruttare la tecnica di un arsenale di “mosse” complesse per sbilanciare e disorientare l'avversario.
Chiedo ad Haba come ha costruito il proprio arsenale. «Da ragazzino non avevo delle mosse precise, ero solo più veloce e grosso degli altri e quello bastava. Al college invece i coach ti danno una toolbox, una metaforica cassetta degli attrezzi, e ti insegnano tanti “tools” che puoi utilizzare, poi sta a te decidere quali usare per arrivare al quarterback». A volte lo stile di un giocatore può riflettere la sua personalità, e questo mi sembra il caso di Haba, che tra tutte le mosse a disposizione ha scelto di fondare il suo gioco sulla cross-chop, una mossa complicatissima e molto ambiziosa. Credo sia indicativo che un ragazzo poco esperto abbia deciso di far propria la mossa più difficile anziché accontentarsi di qualcosa di meno complicato.
«C’è stato qualche “growing pain” nell’imparare il tempismo e la successione dei movimenti, ma piano piano ho rifinito sempre di più la mia tecnica e quando tutto “clicca” riesco a piazzare delle rush veramente spettacolari». In questo duello 1vs1 contro il tackle l’esperienza con le MMA aiuta di certo: i compiti di Haba in campo hanno tanti punti di contatto con quelli di suo fratello Jonathan (fighter semiprofessionista) e del suo amico Marvin Vettori quando lottano dentro l’ottagono. «Io sono un malato di MMA. Non le pratico più come un tempo perché il football occupa troppo spazio, ma recentemente sono stato a Las Vegas e ho fatto sparring contro Sean Strickland. L’esperienza come fighter mi ha aiutato sotto tantissimi punti di vista: il gioco di piedi, la coordinazione occhio mano sono tutti aspetti che ho sviluppato nelle MMA e che mi hanno aiutato nel mio percorso nel football».
Un altro trait d’union tra le sue grandi passioni sportive è l’aggressività. Il defensive end gioca in difesa ma ha la mentalità di chi deve attaccare piuttosto che proteggersi; perciò è necessaria un’attitudine aggressiva. «Per me lo sport è anche un modo per canalizzare la mia aggressività in qualcosa di positivo. È sempre stato così, non che fossi un pazzo da ragazzino, cioè una o due ne ho combinate» dice ridendo, «sono sempre stato un tipo a posto, anche se con tanta energia in corpo e il football mi ha permesso di scaricarla». Per scalare le gerarchie del football collegiale bisogna saper convertire quell’energia in sack e sono davvero pochissime le squadre che lo sanno fare meglio di Pitt nell’intera nazione. Haba ha contribuito a portare la linea di Pittsburgh nella top 3 nazionale per numero di sack negli ultimi tre anni. «Non siamo i più grossi, non siamo i più alti, siamo semplicemente i migliori».
Il football è uno sport di estremi, in cui la gloria che puoi ottenere sul campo è direttamente proporzionale ai rischi che si corrono. Haba lo sa bene, anche perché ha vissuto da vicino una vicenda che ha sconvolto il mondo NFL: lo scorso 2 gennaio il cuore di Damar Hamlin si è fermato dopo un colpo subito nei primi minuti della partita tra Bills e Bengals. Per giorni è rimasto sospeso tra la vita e la morte, salvo poi riprendersi quasi miracolosamente. Hamlin è un ex giocatore di Pittsburgh e ha condiviso lo spogliatoio con Haba, al quale chiedo cos’ha provato in quei momenti di panico, se è stato un momento di ripensamento su cosa voglia dire giocare a football americano a questi livelli. «Onestamente no, mi sono spaventato per Damar perché lo conoscevo e gli voglio bene, ma è stato un incidente fortuito, non una cosa che succede ogni giorno. Io la vedo così: potrei camminare per strada e prendere un vaso in testa, oppure attraversare la strada e finire sotto a un tir, è la vita, questo non vuol dire che devi fermarti o smettere di vivere. So che c’è il rischio, è uno sport violento e io lo so bene avendo subito tre operazioni. Però il football è parte della mia vita e non smetterò di giocare per questo».
Prima del Draft
Poche settimane prima dell’infortunio di Hamlin, Haba aveva chiuso la sua carriera collegiale con una punta di amaro in bocca. Aveva deciso insieme a tanti compagni di restare un anno più del dovuto per puntare ad una grande stagione e aumentare il suo già corposo draft stock, ma il Last Dance non si è materializzato. «È stato un anno sfortunato in cui ho perso alcune partite per infortunio e anche in molte che ho giocato non ero al meglio. Per questo ho prodotto meno rispetto alla stagione 2021». Gli chiedo se si è pentito e qual è stato il suo piano per riprendere il terreno perso. «No, non mi sono pentito, ho semplicemente ancora più voglia di smentire chi non crede in me. Per prima cosa, sapevo di dover andare allo Shrine Bowl (un evento a partecipazione volontaria pensato per mettere in mostra i giocatori draftabili, nda) e far vedere di che cosa sono capace». Lo dice con una nota di orgoglio più che giustificata nella voce, dato che Haba è effettivamente andato allo Shrine Bowl e ha effettivamente dominato la competizione, ottenendo uno dei migliori grade degli ultimi cinque anni. «Ho sicuramente fatto una buona impressione e in più ho avuto la possibilità di lavorare con uno staff professionistico, quello di Bill Belichick dei New England Patriots, e capire cosa chiedono i coach NFL ai loro giocatori. Dopo lo Shrine Bowl ho passato diverse settimane a Pensacola, in Florida, per prepararmi alla Combine».
La NFL Combine è un maxi evento che si tiene ogni anno ad Indianapolis. Quasi tutti i migliori prospetti vengono pesati, misurati e testati in prove atletiche e tecniche. Sorprendere gli scout con un grande tempo sulle 40 yard o con un numero di alzate sulla panca superiore alle attese può cambiare di parecchio la considerazione di un prospetto. «Sono un po’ deluso dai test atletici perché sapevo di poter fare meglio. Le circostanze non erano delle migliori, il mio compagno di stanza Calijah Kancey ha attaccato a russare alle 2.30 del mattino e non sono più riuscito a prendere sonno».
Nonostante questi imprevisti, Haba ha ottenuto comunque dei buoni risultati, che certificano il suo diritto di cittadinanza nel mondo NFL. In ogni caso, la parte di test atletici è la più reclamizzata ma non necessariamente la più importante, perché dietro le quinte della Combine i team hanno la possibilità di intervistare dal vivo i prospetti presenti. «Mi hanno fatto domande per valutare la mia comprensione del gioco e anche la mia personalità. È impressionante quanto sanno su di te, mi hanno fatto osservazioni sull’Italia e sulla mia vita quasi da investigatori privati. Tra qualche domanda strana, come quella di un coach mi ha chiesto se mi sento “un’arancia o una mela” (spoiler, la risposta da dare è mela perché è più dura dell’arancia), un sacco di test attitudinali e tante strette di mano credo di essermela cavata bene».
Ora per Haba il più è fatto, si tratta di tenersi in allenamento, rispondere ad eventuali chiamate e reggere questi giorni interminabili che lo separano dal suo ingresso in NFL. Da quale delle 32 porte avverrà, questo è impossibile dirlo. Gli chiedo se preferirebbe finire in una squadra già pronta per il titolo, ma in cui dovrebbe fare un po’ di gavetta dietro i veterani, o se preferirebbe una squadra giovane e meno forte, ma in cui potrebbe diventare presto un giocatore importante in campo e in spogliatoio. «Direi la seconda. Mi piacerebbe entrare subito in rotazione e contribuire da subito, perché quello è l’obbiettivo. Sarebbe divertente vincere da subito però è più divertente vincere la metà delle partite e giocare, piuttosto che vincere tanto ma sedere in panchina!».
La destinazione è fondamentale per lo sviluppo di un giocatore NFL, soprattutto per chi non viene scelto al primo giro e quindi è meno protetto dal rischio di un taglio dal roster. Per Haba ci sarà da lottare per ottenere un posto in squadra, passare indenne quel tritacarne che è il training camp NFL e riuscire ad esordire tra i professionisti. Ma ci sarà tempo per pensare al futuro, ora il Draft si avvicina ed è tempo di pensare ai preparativi. «Non ho ancora pensato al vestito perché non sono una fashion victim, preferisco avere una Ducati in più in garage piuttosto che dieci completi firmati nell’armadio! In compenso so già dove lo vedrò: a Clearwater, insieme alla mia famiglia americana e a quella italiana». Inevitabile un pensiero a papà Edgar, scomparso tragicamente in un incidente in moto quando Haba aveva 13 anni. «Mi ha insegnato tantissimo su chi sono. Era muscoloso, gigantesco, ricordo che io e mio fratello facevamo la lotta con lui ma non vincevamo mai. Mi ha insegnato a dare il 100% in quello che faccio, a non mollare mai e mi ha lasciato questi grandi valori e queste idee che mi hanno fatto diventare chi sono oggi, questa idea che ho del mondo, dell’amicizia, di chi sono, dei valori e dello sport».
Edgar gli ha lasciato anche un nome che racchiude tanti significati. «Habakkuk è un nome biblico, era il profeta che non si limitava a glorificare Dio, ma metteva in discussione il suo operato, chiedeva perché i giusti soffrono. Credo che dandomi quel nome volesse insegnarmi a mettere tutto in discussione e a diventare grande». Di sicuro Haba sta facendo qualcosa di grande e c’è un che di profetico nel suo percorso sportivo.
Movimenti di nicchia come quello del football italiano hanno bisogno di apripista che diano visibilità, che aumentino l’attenzione nazionale attirando investimenti e nuovi giocatori. Haba sta per diventare il volto italiano di questo sport, una bella responsabilità che il ragazzo è pronto ad assumersi: «Sono ancora legatissimo al football italiano, ogni volta che torno a Roma passo a trovare gli amici dei Lazio Ducks, do consigli ai ragazzi e cerco di dare una mano. Io ci metto sempre la faccia per quello in cui credo». Intanto il football italiano e quello americano sono sempre più vicini: nell’anno in cui Haba verrà draftato, il primo luglio l’Italian Bowl si disputerà a Toledo, in Ohio. Tanti ragazzi che hanno iniziato dall’Italia come Haba avranno un assaggio di quello che il football può offrire, ma è a quelli ancora più piccoli o che ancora non conoscono il football che il suo percorso può essere di ispirazione. Quanti in più avrebbero una possibilità di inciampare per caso su una partita in TV se Haba dovesse affermarsi come un grande giocatore? La speranza è che ci riesca. L’auspicio, anche se dopo averlo conosciuto sarebbe meglio parlare di certezza, è che la crescita del football italiano non poteva passare in mani migliori di quelle di Haba Baldonado.