Ammesso e non concesso che l’interessamento della Nazionale sia ancora un metro di giudizio autorevole per determinare il coronamento della carriera di un calciatore, dovremmo assumere che il recente tentativo di Ventura di inserire il Papu Gómez nei convocabili per gli Azzurri sia la naturale conseguenza di un assunto incontrovertibile: nel suo ruolo, o nella versatilità con cui ne ricopre più d’uno nella sua zona di competenza, Alejandro Gómez è uno dei calciatori più forti, se non il migliore, in Italia.
D’altra parte l’apertura di Alejandro Gómez alla maglia azzurra, al di là della retorica della gratitudine al Paese che lo ha calcisticamente ospitato, muove i passi da un riconoscimento dei propri limiti: non è una circostanza inedita, è già successo ad altri crack argentini del nostro campionato di essersi detti pronti a una scelta di comodo dettata dalla manifesta (o riconosciuta, o autoimposta) impossibilità di raggiungere l’Albiceleste. Nel caso specifico del Papu, però, vestire l’Azzurro avrebbe assunto un significato ancora più particolare: sarebbe stato un tentativo, forse il più grande - e non il più facile, da parte sua - di dimostrare (o dimostrarsi) che il suo calcio può funzionare anche fuori quella zona d’agio nella quale buona parte della sua carriera si è trovata a galleggiare.
La FIFA si è pronunciata negativamente, perché quando ha indossato la maglia albiceleste della Sub20 Alejandro non aveva ancora la cittadinanza italiana, ma non è neppure detto che il Papu non possa ambire, un giorno, a risvegliare l’interesse di Bauza.
Perché il diez dell’Atalanta è davvero un calciatore che ha avuto un’evoluzione notevole.
A determinare la crescita esponenziale del peso specifico del Papu non è stato il rendimento di per sé, quanto l’inclusione in un meccanismo di gioco oggettivamente esaltante come quello dell’Atalanta di Gasperini. Il Papu, prendendo le mosse dal contesto immaginifico in cui tendevamo a considerarlo una mina vagante, un solista ispirato, è riuscito a portare a maturazione un apprendistato tattico che dura almeno da un lustro, a svincolarsi dai pregiudizi che si erano cristallizzati intorno alla sua figura.
In che termini, allora, possiamo parlare di esplosione?
La crescita di Alejandro Gómez, in realtà, sta all’esplosione come un allungo a uno scatto: pur giocando in una posizione meno offensiva di quella in cui è sbocciato a Catania, il Papu da cinque anni - da quando cioè è sbarcato a Catania - inanella con costanza una media di quasi tre dribbling riusciti o di tre tiri in porta a partita di media. Però negli anni ha imparato a diversificare l’interpretazione del suo ruolo, è cresciuto, ha appreso la difficile tecnica di imbrigliare l’esplosività finalizzandola a un utilizzo quasi karmico.
Eppure abbiamo iniziato a considerarlo imprescindibile per l’economia dello spettacolo della nostra Serie A da poco più di un anno, cioè da poco dopo il suo rientro in Italia, a Bergamo. In mezzo, tra le due esperienze, c’è stata la parentesi ucraina, che segna per il Papu una specie di Anno Zero: come con i reduci di ritorno da una guerra snervante, abbiamo rimosso il suo passato, sforzandoci di convincerci che fosse un uomo - un giocatore - diverso, nuovo, senza per questo farglielo pesare.
Le mappe che ci fissiamo in testa per facilitarci il riassunto delle carriere dei calciatori spesso somigliano a quelle che il cartografo persiano al Istakhri disegnava nel X secolo. Rifuggendo la complessità del mondo, al Istakhri riassumeva nella sua cartografia rappresentazioni inesatte, però intuitive, facili da metabolizzare, in cui le distanze tra un luogo e l’altro, o le loro dimensioni, dipendevano sostanzialmente dall’importanza che il lettore gli conferiva, e non dalla realtà topografica. Fissare in mente qualcosa di inesatto, ma impattante, è un esercizio mnemonico più facile in confronto alle esatte misurazioni, alla contemplazione delle sfumature.
È con questo mindset facilitatore che siamo portati a leggere la Mappa Papu: interpretiamo la seconda era italiana, segnata dal ritorno all’Atalanta, come un lungo processo di redenzione, o purificazione, dal semestre inutile trascorso in Ucraina. Come se sia stato semplicemente un’immersione nel mare magnum della peccaminosità, e non una parentesi fondamentale per la crescita, umana e calcistica, di Alejandro Gómez.
I punti di riferimento sbagliati e quelli giusti
Alejandro Gómez, che la madre da ragazzino chiamava affettuosamente Papuchi, è nato e cresciuto a 500 metri dall’intersezione esatta della direttrice che collega il Cilindro al Libertadores de América, gli stadi del Racing e dell’Independiente de Avellaneda. Ultimo di tre figli, nipote di uno dei compagni di squadra di Bochini che alzò la Libertadores nell’84, negli anni in cui el Kun Agüero, suo coetaneo, scalpitava per esordire con la maglia dei Diablos Rojos ha optato per una realtà più piccola, quella dell’Arsenal de Sarandí, un sobborgo di Avellaneda.
Il Papu, con la maglia dell’Arsenal sotto la curva Viaducto.
L’Arsenal ha una storia longeva ma poco vittoriosa: fondata da Julio Humberto Grondona in onore dei Gunners inglesi, i suoi giocatori indossano una maglia che è un tributo alla sudditanza ai due grandi club di Avellaneda (celeste come il Racing, con una banda trasversale rossa come l’Independiente). Nel pieno del periodo in cui il Papu gioca nelle sue giovanili, però, l’Arsenal sigla un accordo con il Barcellona che consiste in tracciare una corsia a scorrimento veloce di calciatori semipreparati diretti verso la Masia in cambio di un supporto nell’organizzazione del settore giovanile.
Se questa partnership fosse durata più dell’anno scarso che è durata, forse il Papu sarebbe diventato un compagno di squadra di Leo Messi. Invece la liaison si scioglie proprio nella stagione in cui, sorprendentemente, il piccolo club si toglie due grandi e belle soddisfazioni: contribuire, con un suo giocatore, che è proprio Alejandro, alla vittoria del Mondiale da parte del Sub20 argentino in Canada e trionfare - in maniera buffa, senza mai vincere in casa - nella Copa Sudamericana.
Con un’accelerazione delle sue il Papu ruba il tempo alla difesa e segna il gol del 2-3 che sarà determinante nell’economia della doppia finale per la vittoria.
Il Papu gioca da seconda punta: è a suo agio, ed è quel tipo di calciatore che sa come rendersi incisivo. In quel ruolo, nella Sub20, subisce la concorrenza di Banega o Maxi Moralez, ma riesce comunque a ritagliarsi un suo spazio.
Osservare oggi le sue prestazioni con l’Arsenal significa dover riconoscere che c’è molto più di quel Papu Gómez che abbiamo imparato a conoscere successivamente in Italia di quanto ce ne saremmo aspettati: spesso si defila sulla fascia per accentrarsi, non importa se da destra o da sinistra, per poi affondare in area, o tirare dal limite.
Che fosse una seconda punta, o dovremmo dire un diez, molto atipico lo si capisce già dai punti di riferimento. Non si ispira a Diego Armando Maradona, dice, ma a giocatori come Aimar, Riquelme e Verón. Vale a dire non dittatori del gioco, ma accentratori di manovra, playmakers nel senso stretto del termine.
L’influenza degli allenatori
Gustavo Alfaro, il tecnico più vincente della storia dell’Arsenal, è anche quello che si è più affidato al Papu nella sua incarnazione più spuria e selvaggia, quella dell’enganche plenipotenziario, libero di svariare per tutto il fronte d’attacco. Sarebbe stato anche l’ultimo a farlo. Nel 2009 il Papu si trasferisce al San Lorenzo, e trova sulla panchina del Cuervo Alberto Fanesi. Fanesi è in realtà il responsabile del settore giovanile del Boedo, finito sulla panchina del Ciclón dopo l’esonero di Russo: i rapporti tra i due non sono idilliaci, non lo sono con nessuno dei calciatori, ma il Papu diventa indolente, si allena poco e anche in campo gioca in modo troppo individualista.
La prima svolta tattica nella sua carriera coincide con l’incontro con Diego Simeone. Il Cholo, da allenatore del San Lorenzo, comincia a disciplinarlo. «È stato lui a decidere di posizionarmi da ala destra nel 4-4-2. Anche se a me non piaceva tanto quella posizione, perché dovevo correre per tutta la fascia e difendere». Spiegare a un ragazzo di vent’anni la teoria dei costi-benefici non deve essere facile, ma il Cholo trova una chiave interpretativa efficace nella sua pragmaticità: «Mi diceva che in Europa avrei giocato solo in quella posizione. Infatti, quando arrivai a Catania e cominciai a giocare sulla fascia, lo chiamai e lo ringraziai molto per i suoi consigli».
Un anno più tardi il Cholo lo avrebbe raggiunto a Catania: per il Papu è linfa vitale, perché gli permette di affinare la fotosintesi clorofilliana che lo renderà pronto a rivestire ognuno dei ruoli che oggi fanno la fortuna dell’Atalanta. Simeone lo impiega da esterno nel 4-3-3, da laterale puro di fascia nel 4-4-2, da mezzala sinistra nel 4-2-3-1 che diventerà il suo marchio di fabbrica alle pendici dell’Etna. Alejandro impara che rincorrere l’avversario, recuperare il pallone, nella Serie A è tanto importante quanto il resto delle mansioni che immagina incluse nel naturale espletamento del suo talento.
«Con il passare degli anni ho cercato di giocare un calcio sempre più semplice. Anche se qualche volta mi capita ancora di voler saltare tutti gli uomini in campo».
Il lavoro di razionalizzazione tattica operato su di lui in un semestre da Gasperini sta somigliando sempre di più alla redifinizione che il tecnico ha saputo imprimere alla carriera di Diego Perotti al Genoa, vincolando la libertà creativa all’obbligo di un lavoro di copertura e pressing massacrante.
Ma c’è di più: la maniera in cui il gioco d’attacco della Dea oggi poggia sulle capacità del Papu di portare palla, di imbeccare il compagno del rombo offensivo - del quale l’argentino sa essere ognuno dei vertici - con un passaggio filtrante, o di finalizzare l’azione tagliando verso l’interno del campo, è la più evidente testimonianza di come il suo studio del ruolo gli abbia permesso di sviluppare un’innegabile dote nella creazione del gioco. Il Papu è riuscito a diventare un puntello tattico che nasconde la sua brillantezza sotto una patina di dedizione e disciplina, più che una semibiscroma che arriva a spezzare il ritmo in uno spartito rigido e canonico.
Zone d’agio
Quando negli anni ‘90 l’Atalanta acquistò il giovane argentino Leo Rodríguez, che veniva da una Copa América vissuta da protagonista, si trovò di fronte a un mezzo dilemma: come gestire un giocatore così tecnico senza slegarlo completamente dal resto della squadra, cercando in qualche modo di far confluire quel talento nella manovra? La risposta che Marcello Lippi, e dopo di lui Mondonico riuscirono a darsi fu quella di spostarlo sulla fascia. Non funzionò granché bene.
Leo Rodríguez è il cognato del Papu, nonché il suo agente: Alejandro a Bergamo è approdato seguendo i suoi consigli, e forse imparando a leggere e capovolgere l’insegnamento che si può trarre dalla sua esperienza orobica (cioè che ci vuole disciplina e studio se non vuoi finire racchiuso nel bozzolo dell’orpello superfluo).
Quando ho detto che vestire l’Azzurro sarebbe stata per il Papu un’esperienza fortemente straniante, decontestualizzante e quindi plausibilmente formativa, lo facevo pensando al fatto che ogni scelta di carriera fatta da Alejandro Gómez, in un certo senso, ha inseguito una logica fatta di massimizzazione delle zone d’agio.
Quando è arrivato a Catania in rosa c’erano dieci argentini: la città gli ricordava Mar del Plata, nello spogliatoio si parlava praticamente spagnolo, viveva con il suo migliore amico (che un giorno gli regalò un coniglio bianco, con gli occhi rossi, “sembrava posseduto, mi faceva paura”). E anche la scelta di trasferirsi a Karkhiv, in un certo senso, ha seguito la stessa dinamica.
Al Metalist, nel 2013, c’erano già altri cinque argentini. Il Papu decide di approdare a un calcio minore, in teoria, inseguendo un proposito maggiore: non intuisce margini di crescita in Sicilia, mentre gli ucraini sono a un passo dalla qualificazione alla Champions League e il Papu vuole calcare palcoscenici prestigiosi. Riusciremo mai a perdonare al Papu Gómez una scelta così apparentemente rinunciataria?
Il posto perfetto per provare a saltare tutta la squadra avversaria?
Io è (anche) un altro
Anche se non ha i connotati dell’esilio emiratino (non potremo mai avere una concezione di Vucinic o del Mago Valdivia scevra dalle sovrastrutture che una migrazione verso lidi meno competitivi porta congenite in sé, soprattutto se avviene nel pieno della carriera), l’Erasmus oscuro di Alejandro Gómez ha finito per pesare in maniera oggettiva sulla nostra percezione della sua parabola di crescita. Forse ha influito il non poterlo poi davvero vedere in Champions (il Metalist fu squalificato per una serie di combine risalenti ad alcune stagioni prima), una situazione di fatto che ha creato uno spleen nel quale lo stesso Alejandro ha covato il sentimento di rivalsa che si è poi palesato a Bergamo.
In Ucraina a predicare movimenti senza palla e idee propositive nient’affatto banali.
La rinascita del Papu è tale - dal suo ritorno in Italia nel 2014 e in maniera sempre più eclatante - perché fiorisce dalle macerie di una carriera, ma anche intimamente di una vita, parzialmente crollata: a un certo punto l’Ucraina viene travolta dal conflitto civile tra europeisti e separatisti filorussi, «per la strada la gente gira con le mitragliette», i soldi pian piano terminano. Il sogno di sfondare in Europa, Papu deve scenderci a patti, non passa per un paese nel quale non riesce proprio a sentirsi a suo agio, nonostante sia circondato da connazionali.
E se tutta l’esaltazione che sta accompagnando questa sua stagione non fosse che il più misericordioso tentativo di chiedergli scusa per come ci siamo comportati con lui?
Nella seconda parte di Rayuela, il romanzo componibile più famoso di Julio Cortázar, Horacio Oliveira, dopo un lungo esilio autoimposto a Parigi, torna a Buenos Aires e incontra un suo amico d’infanzia, Traveler. Horacio e Traveler, in realtà, sono le due facce dello stesso io, con la differenza che a marcarne le rughe, a determinarne i tratti, a colpire l’immaginario del lettore, di chi li interpreta, è l’esperienza che divide l’uno dall’altro.
Il Papu Gómez dell’Atalanta non è più quello di Catania. E non dipende soltanto dalla maturazione umana e calcistica, ma anche e soprattutto da quello che è successo nel mezzo. Qualcosa di più di un semplice passaggio a vuoto: l’altro, che in questa storia ha la maglia gialla del Metalist (e i capelli biondi del Papu), ha finito inevitabilmente per ridefinirlo.
In un’ideale mappa di Istakhri che volesse rappresentare la carriera di Alejandro Gómez, non dovremmo fare troppa fatica nel capire cosa rappresenti quel buco nero poco prima di giungere alla scintillante Atalanta di Gasperini: il luogo in cui il Papu nasconde alcuni dei suoi più grandi rimorsi, e noi buona parte dei nostri sensi di colpa.