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Daniele Manusia

MVP: Hakan Calhanoglu

Il centrocampista dell'Inter è stato votato miglior giocatore del campionato.

Il momento in cui Hakan Calhanoglu ha vinto il premio come miglior giocatore del campionato è arrivato lo scorso 4 febbraio. Durante la partita con la Juventus, vinta 1-0 dall’Inter grazie a un autogol di Gatti su una specie di rovesciata buffa di Pavard. Ma nessuno, o quasi, ricorda l’autogol di Gatti, mentre quasi tutti ricordano il momento in cui Calhanoglu ha tagliato il campo in diagonale per Dimarco, aprendoci uno squarcio come Lucio Fontana armato di taglierino. 

 

Quella palla di esterno destro, preparata con un controllo di suola, scagliata sopra la testa di Lautaro venuto incontro a metà campo, che taglia tra McKennie e Gatti (e che non diventa parte importante di un gol solo perché Bremer interviene in scivolata sul successivo assist in orizzontale di Dimarco per Thuram a centro area) è il manifesto della stagione di Calhanoglu. Premiato oggi come miglior giocatore, della migliore squadra del campionato. Quello più imprescindibile, seppur in una squadra in cui tutti hanno dato il loro contributo.

 

 

Anche la sua storia, forse, è stata premiata. La possibilità di arrivare al proprio picco a 30 anni, in un ruolo che si fa relativamente da poco tempo. Calhanoglu è arrivato all’Inter tre stagioni fa, dopo che con il Milan non aveva trovato un accordo per rinnovare il proprio contratto e dopo che Christian Eriksen, con un pacemaker dall’estate del 2021, non poteva più giocare in Italia. Ha visto esultare i suoi ex-compagni rossoneri l’anno successivo al suo arrivo in nerazzurro, li ha visti dedicargli cori di scherno. Poi si è ritrovato, già dalla scorsa stagione, a sostituire Brozovic nel ruolo di play, quando il croato era infortunato. Ha fatto bene al punto che lo scorso marzo aveva detto di essere, secondo la sua modesta opinione, tra i migliori in Europa nel ruolo, nominando giocatori del calibro di De Bruyne e Modric. 

 

Qualcuno gli aveva riso in faccia e, nonostante due grandi semifinali di Champions League proprio contro il Milan (con un palo quasi rotto con un tiro a fuori) in finale è tornato a giocarci Brozovic, nel ruolo di regista. Poi Brozovic se ne è andato e Calhanoglu è stato chiamato a sostituirlo in pianta stabile. Delle novità di una stagione in cui l’Inter di Simone Inzaghi doveva per forza di cose proposi per la vittoria dello Scudetto, Calhanoglu è stata la più sorprendente, forse proprio perché rispetto a Thuram, Sommer e Pavard, tutti sapevano cosa aspettarsi. Ma lui è andato oltre quello che si pensava sarebbe stato in grado di fare. 

 

Tutto questo magari ha contribuito al fatto che i tifosi interisti (e non) che hanno votato il premio non gli abbiano preferito Lautaro Martinez nella sua stagione più prolifica; così come è successo con Joshua Zirkzee, forse il più vicino all’ideale di “giocatore più di valore” (giovane, tecnico e dominante, con un potenziale ancora inesplorato), e con Koopmeiners, un centrocampista incredibilmente solido e, al tempo stesso, quello ad aver segnato più gol (12, con 2 rigori) proprio dopo Calhanoglu (13, con 10 rigori).

 

Calha quest’anno contro Brozovic lo scorso. Le qualità difensive del croato sono difficili da pareggiare (Calha ci prova con i tackle a non far sentire la sua mancanza) ma guardate le progressioni palla al piede e la qualità nei passaggi. Calhanoglu è nel 10% dei migliori centrocampisti in Europa in tutte le statistiche più “qualitative” (radar StatsBomb).

 

Già a ottobre la Gazzetta diceva che “nessuno più rimpiange Brozovic” e qualche mese dopo, a febbraio, scriveva che Calhanoglu era “oro puro”. Il 22 febbraio scorso, in un’altra intervista a DAZN, Calhanoglu ha ribadito la sua opinione di un anno prima: «Mesi fa ho detto di essere tra i migliori registi e nessuno mi ha creduto. Però io credo sempre in me stesso, conosco le mie qualità e non ho paura di nessuno». 

 

Calhanoglu ha sottolineato le sue capacità balistiche, sia nei passaggi – «cerco sempre di fare passaggi finali», ha detto – che nei tiri: «Nessuno fa i gol che faccio io». Un esempio: Napoli-Inter dello scorso dicembre, passaggio di consegne tra campioni d’Italia in carica e futuri campioni d’Italia. Dumfries dal lato destro dell’area appoggia una palla all’indietro verso Barella, che prima pensa a cosa fare e poi con un atteggiamento del corpo eccessivamente rilassato, evidenziando quanto poco dovesse fare per far fare gol al suo compagno, la appoggia di esterno a Calhanoglu, dal cui piede parte un frisbee che vola tesissimo sul palo più lontano, imparabile per Meret. Un gol che non è vero che fa solo lui, ma che in effetti sono in pochi, oltre a lui, sa fare con quella facilità di calcio, e con quella sicurezza interiore – al punto che la sua, di sicurezza, si trasmette al compagno che gli fa l’assist.

 

Certo è merito anche dei compagni. Di tutta la squadra, di Inzaghi, ma soprattutto della sua sintonia con Mkhitaryan e Barella, che lo hanno affiancato o sostituito quando era marcato a uomo. La fluidità dell’Inter lo ha aiutato ed esaltato, ma è anche lui, con la sua capacità di interpretare più ruoli all’interno della stessa azione, ad aver permesso all’Inter di essere così fluida. 

 

Calha contro se stesso di un anno fa.

 

Fermo restando che anche l’anno scorso ha giocato spesso da regista, confrontando le sue statistiche da un anno all’altro si nota come siano diminuiti gli assist, perché gioca più lontano dalla porta, e gli intercetti, ma perde meno palloni, sbaglia meno passaggi, e porta di più il pallone. La flessibilità del suo talento sta in questa piccola trasformazione. 

 

Nella sua personale classifica Calha si è messo davanti a Rodri – che in realtà ha segnato il gol decisivo per la vittoria della Premier e della Champions League, e in generale ha segnato più di lui, 8 gol, di cui 4 da fuori area – a Toni Kroos, a Kimmich e ad Enzo Fernandez. E stavolta nessuno ci ha trovato niente da ridere. Nel giro di un anno Calhanoglu ci ha convinto se non proprio del suo sistema classificatorio, quanto meno del fatto che faccia parte di quel giro lì. 

 

Ogni anno si ripropone lo stesso dibattito sul declino del calcio italiano. Siamo davvero messi così male? A volte ci riconosciamo in grandi imprese di squadra, come l’Inter finalista di Champions League lo scorso anno, o l’Atalanta che ha vinto l’Europa League poche settimane fa, battendo quella che consideravamo la squadra più forte d’Europa fino a poche ore prima, il Bayer Leverkusen imbattuto da 51 partite. Ma sono molto più spesso i campioni a rassicurarci. Le loro facce conosciute hanno lo stesso effetto dei loghi dei brand famosi sui nostri vestiti. L’idea di potersi permettere un determinato giocatore coincide con l’idea che quel giocatore ci abbia scelto, che il nostro campionato (come il nostro corpo, la nostra personalità, con i vestiti lussuosi) ne sia all’altezza.

 

Ma è il calcio ad essere cambiato. Salvo una manciata di nomi anche le grandi squadre sono fatte di campioni multiforma, il cui talento sfaccettato è meno facile da definire di un tempo – sto parlando dei Valverde, dei Rodri, dei Declan Rice, dei Gundogan – campioni che fanno così tante cose, così a fondo dentro le partite, dentro le stagioni, dentro le storie delle loro squadre, che si fa quasi fatica a distinguerne i contorni, a separarli dallo sfondo.

 

Calhanoglu è sempre stato questo tipo di giocatore qui. Si esalta, oggi, in un gruppo che funziona benissimo, ma era pronto da tempo per giocare a questi livelli, anche se a quanto pare solo lui ne era davvero consapevole. Quest’anno, questo premio nel suo piccolo, testimonia la crescita della sua reputazione. Oggi non è solo il miglior giocatore del campionato nel giudizio di molti, ma non è neanche più uno scherzo considerarlo tra i migliori registi in Europa. 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).