Una delle caratteristiche peculiari del lessico inglese è la flessibilità. Sono possibili diverse combinazioni per descrivere lo stesso concetto e la ricchezza del glossario è in continua evoluzione grazie a una inimitabile capacità di adattarsi ai cambiamenti del costume.
Pensate al termine “footwork”. Questa parola racchiude un vasto universo di fondamentali che coprono una notevole quantità di specifiche improntate sulla velocità, il posizionamento e i tempi di esecuzione che sono in costante progresso. Secondo il sito della federazione USA sono ben dieci i pilastri della categoria. Una vera e propria forma d’arte sportiva che ha celebrato grandi interpreti, ma che da sempre si inchina al solo e unico fuoriclasse della materia: Hakeem Olajuwon.
Da Kobe Bryant a LeBron James, l’élite assoluta della pallacanestro ha studiato l’efficacia delle sue movenze sul parquet, chiedendo e ottenendo sessioni di allenamento individuali con la bandiera degli Houston Rockets per diventare sempre più efficaci. Se le caratteristiche di tiratore del coevo Patrick Ewing hanno incoraggiato diversi imitatori e la versatilità di Arvydas Sabonis ha conosciuto delle applicazioni nel basket contemporaneo (il pensiero corre a Nikola Jokic), il retaggio di Hakeem si è diluito in una pallacanestro sempre più dinamica, scevra di posizioni definite e traboccante di variabili. A seguire le sue orme c’è un piccolo esercito di aficionados con approcci al gioco differenti, ma legati a doppio filo dalla sua universalità: i suoi celebri avvitamenti sul piede perno sono un pezzo pregiato della cultura popolare del gioco.
L’armonia della bellezza di una serie di movimenti offensivi sviluppati con ingegno, un uso dello spaziature magistrali, la spietata efficacia abbinata a un’insolita teatralità. Titolare di un trattamento del pallone degno di un esterno di grande livello, il centro di origine nigeriana ha felicemente sintetizzato forma e sostanza sciorinando un enciclopedico magistero in post basso e una difesa degna dei più grandi di sempre.
Alle origini del mito
Akeem Olajuwon nasce nel gennaio del 1963 a Lagos, Nigeria, una delle città più grandi del continente africano, terzo di sei figli di una famiglia borghese appartenente alla tribù Yoruba e con una “h” in meno rispetto a quella che normalmente gli viene attribuita (l’avrebbe aggiunta solo nel 1991). Cresce con una smodata passione per il calcio e la sua altezza unita alle notevoli abilità atletiche gli fanno guadagnare velocemente uno status liceale come portiere di livello e successivamente attirano la corte di allenatori scolastici di tutti i generi. In particolare è il suo approccio vincente con la pallamano che lo trasforma in un prospetto con una intrigante propensione multidisciplinare.
Secondo una delle teorie più accreditate, quando viene fortunosamente notato dal CT della nazionale nigeriana di basket Richard Mills, Olajuwon è impegnato in una partita di calcio e i suoi due metri abbondanti spiccano sul resto dei giocatori. Scocca un colpo di fulmine: l’entusiasmo e la capacità di persuasione di Mills è fondamentale e lo trascina verso la palla a spicchi. Un californiano che ricopre l’incarico di allenatore della nazionale giovanile ed è il figlioccio di Archie Moore - uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, nonché storico detentore dei pesi mediomassimi - cambierà il corso della storia sportiva di Akeem e di tutta la città di Houston.
Il primo approccio del dinoccolato 15enne non è esattamente scintillante e per la prima schiacciata ricorre al supporto di una sedia, ma il pigmalione Mills non si scoraggia e gli insegna di buon grado fondamentali e i classici esercizi di base. Il basket è un oggetto misterioso alla fine degli anni Settanta per buona parte della città: la televisione non trasmette partite, i praticanti sono rari e i punti di riferimento sfuggenti per un neofita privo del minimo background. Archiviate le prime informazioni applica per quanto possibile i principi dinamici appresi nel calcio e nella pallamano. Nel giro di un battito di ciglia (siamo già nel 1979 come linea temporale) la sua militanza nelle varie rappresentative nazionali comincia ad attirare una certa attenzione mediatica, culminata con un bronzo ai Giochi juniores All-African che portano alle prime relazioni degli scout.
Sogna di giocare per un’università americana, magari attraverso una borsa di studio, ma ancora non immagina scenari futuri strettamente legati allo sport. A realizzare il suo desiderio è Chris Pond, che nel 1980 è impegnato nella guida della rappresentativa della Repubblica Centrafricana: durante un allenamento in una palestra di Lagos in vista di un torneo, Akeem - che ha ormai raggiunto una quota vicina ai 210 centimetri - si presenta al campo e viene immediatamente invitato a partecipare ai lavori. Stoppa tutto quello che si muove tanto da far strabuzzare gli occhi ai fortunati testimoni. Pond è un allenatore giramondo che lavora anche come osservatore: folgorato dai suoi mezzi fisici e piacevolmente colpito dal suo inglese e dalla sua indole gentile, si mette subito all’opera per aiutarlo.
Nel giro di poche ore attiva i suoi contatti all’interno dell’ambasciata americana, chiede e ottiene garanzie burocratiche e in tempi rapidissimi è pronto per investire una serie di traveler's cheque per delle telefonate ai vari atenei di riferimento. In una scena degna di una commedia raggiunge un apparecchio pubblico mentre Olajuwon corre affannosamente avanti e indietro verso gli uffici adiacenti per cambiare di volta in volta le monete necessarie per sostenere il costo delle lunghe chiamate intercontinentali.
Si decide tutto con il lancio di una di queste monetine: Pond è solito indirizzare i prospetti verso North Carolina State (per cui simpatizza) grazie al suo rapporto amicale con Norm Sloan, che però ha da poco ceduto la panchina a Jim Valvano. La persona più indicata per sbloccare la situazione potrebbe essere Guy Lewis, il timoniere di Houston University con cui ha già felicemente trattato un giocatore venezuelano. Vista la sua indecisione, finisce per tirare a sorte: a uscire vincitrice è la scuola texana che riceve la prima segnalazione. Lewis si dimostra scettico sulla reale altezza di Akeem, chiede conferma anche a qualche funzionario dell’ambasciata, ma alla fine acconsente a un provino per la borsa di studio assicurando la massima collaborazione. Pond allerta anche altre scuole per maggiore cautela, ma punta praticamente tutto sul gradimento dei Cougars. Il giorno successivo il suo protetto si presenta a un ufficio diplomatico accompagnato dal padre, conferma il suo volo e ottiene immediatamente un visto studentesco valido per l’espatrio. Si prepara a viaggiare da solo e non comunica alla scuola la data del suo arrivo.
Una progressione travolgente
Quello che avviene nel continente americano è altrettanto semplice e immediato a dispetto delle numerose leggende metropolitane che sono fiorite a riguardo. Quando atterra a Houston si lascia sfuggire un banale errore (si confonde con l’università di Austin) ma fortunatamente un paziente tassista è pronto a indirizzarlo al campus giusto senza alcun equivoco spiacevole. Arrivato finalmente a destinazione, come vuole la leggenda, non c’è nessuno ad aspettarlo semplicemente perché lo staff tecnico non aveva previsto la sua visita in tempi così brevi.
Il provino evidenzia le lacune offensive e fisiche di un profilo acerbo che non ha mai indossato le scarpe giuste, non si è mai allenato adeguatamente (ignora lo stretching e ha poca resistenza) per sfruttare il suo potenziale e che necessita di un corso accelerato di fondamentali. Lewis non si lascia scoraggiare, intravede un diamante grezzo e gli concede la sospirata borsa di studio. Akeem affronta il suo anno da matricola come “red shirt”, costretto a restare fuori dalla rotazione della squadra per mettere a punto il suo gioco. Grazie ai buoni uffici del suo ateneo ha la possibilità di allenarsi con uno dei migliori giocatori NBA, la stella dei Rockets Moses Malone. L’eroe del “Fo, fo, fo” lo prende sotto la sua ala protettrice: gli infuocati uno contro uno tra il maturo campione e il giovane centro generano rapidamente scintille. I fortunati testimoni delle loro sfide raccontano di un festival del testosterone puro e di un allievo che in poco tempo arriva a contrastare con efficacia il suo illustre mentore anche a livello di carisma. Il basket gli scorre nelle vene.
Il suo straordinario appetito travolge l’intero gruppo di Lewis e se l’approdo in America lo ha privato del piatto preferito (il fufu, una specie di porridge a base di cassava e banana), ogni compagno di squadra si ingegna per fargli scoprire parte della variegata offerta culinaria a stelle e strisce. Grazie a un curioso e abbondante mix di frutti di mare, cucina messicana e gelati, la sua nostalgia alimentare è presto un ricordo.
La grinta e l’intensità del guerriero Yoruba lo rendono da subito un intimidatore terrificante in difesa e contribuisce a bilanciare un attacco spumeggiante guidato dal grande talento dei suoi compagni di squadra Clyde Drexler, Michael Young e Larry Micheaux. Lo stile veloce e sfacciato che il gruppo sfoggia ad ogni partita richiama chiaramente i dettami in voga nella ABA e entusiasma gli appassionati. Vengono ribattezzati con il nomignolo di "Phi Slama Jama", come una confraternita universitaria che ama salire spesso sopra il ferro.
La marcia dei Cougars verso il titolo coincide con la prima recita da protagonista di Akeem e si interrompe ad un passo dalla gloria, infrangendosi a causa di una rocambolesca schiacciata sulla sirena di Lorenzo Charles, alfiere di quella North Carolina State di Jim Valvano in cui avrebbe potuto giocare grazie alla monetina di Pond. Olajuwon nonostante la sconfitta conquista il titolo di “Most Outstanding Player”, un riconoscimento molto raro per un giocatore perdente nell’ultimo atto.
L’anno successivo la squadra non risente eccessivamente della partenza di Drexler verso la NBA e si appoggia interamente sulle solide spalle di Olajuwon, che per l’occasione guadagna il nickname “The Dream” che lo accompagnerà per tutta la sua carriera. Houston approda nuovamente in finale, ma questa volta è la talentuosa Georgetown guidata da Patrick Ewing a vincere di misura lo scontro diretto che vale il titolo.
Potrebbe esercitare il diritto di rimanere al college ma ormai ha visto partire i compagni più quotati e la possibilità di essere scelto dai Rockets che si giocano la prima chiamata con il rusticano metodo del testa o croce con i Portland Trail Blazers (dove comunque gioca Drexler) lo convince a rischiare. L’opportunità di rimanere nella città di Houston è molto invitante e ancora una volta si fa guidare dal destino. La buona sorte premia il suo azzardo e con la vittoria della “Bayou City”, si chiude idealmente il cerchio del singolare rapporto con i lanci di moneta che hanno scandito la prima parte della sua carriera. I Rockets ovviamente non si fanno scappare il talento locale, preferendolo perfino a Michael Jordan. La sua storia rinverdisce il mito del sogno americano: da perfetto sconosciuto si è trasformato in uno dei migliori giocatori in circolazione nel giro di pochi anni. “Only in America”, come spesso ripete orgoglioso ai giornalisti.
Le torri gemelle e lo scontro con Larry Bird
La NBA dei primi anni Ottanta prospera sul duopolio Bird-Magic e sulla feroce esplosione di Michael Jordan, un terzetto destinato a far uscire la NBA dalla dimensione di uno sport di nicchia. Un elemento che sembra segnare questa epoca è il rinascimento dei giocatori interni; contrariamente alle tendenze attuali, la lega ricerca disperatamente dei lunghi con buone qualità con la tenacia con cui oggi si rincorre un esterno 3&D. Focalizzate lo scenario: Pat Ewing è la grande speranza di New York che sogna di farlo giocare accanto a Bill Cartwright; Boston al massimo del suo splendore sfoggia un front court con Robert Parish, Larry Bird, Kevin McHale e Bill Walton; Kareem Abdul Jabbar è ancora fondamentale per il destino dei Lakers, mentre oltre oceano è appena cominciata la leggenda romantica e sfortunata di Sabonis e Divac. Houston ha già firmato Ralph Sampson con la prima scelta 1983, un intrigante prospetto che con i suoi 224 cm accoppiati a un talento strabordante si è già permesso il lusso di respingere le attenzioni di Red Auerbach. La stagione successiva un tanking disinvolto frutta ai Rockets una nuova prima assoluta (che ispira l’introduzione della lotteria nel 1985 per limitare la deriva) e i texani ne approfittano per costruire le “Torri Gemelle” con la scontata selezione del giocatore africano. Uno dei Draft migliori della storia si inchina di fronte alle sue qualità e Sampson per facilitare l’inserimento si sposta in posizione di ala grazie alla sua innata versatilità; la lega osserva con curiosità una squadra che potrebbe alterare gli equilibri al vertice e che sfida apertamente le convenzioni conservatrici dei più ferventi tradizionalisti del parquet.
La prima annata è una marcia trionfale e solo le trascendenti prestazioni di Michael Jordan (scivolato alla numero 3 dopo Sam Bowie, altro lungo!) lo privano del titolo di principe delle matricole. Trascina i compagni a un drastico miglioramento del record (da 29 a 48 partite vinte) e gioca con una prepotenza fisica che diventa il marchio di fabbrica della nuova corazzata della costa Ovest. Sfoggia una abilità realizzativa che lascia di stucco gli addetti ai lavori, chiude al secondo posto nella classifica degli stoppatori, al quarto in quella dei rimbalzisti e trova cittadinanza nel secondo quintetto dei migliori difensori della lega. Le Torri Gemelle pagano dividendi immediati e producono la prima coppia di compagni di squadra in grado di registrare 20 punti e 10 rimbalzi di media dai tempi di Elgin Baylor e Wilt Chamberlain. I playoff si chiudono con una prevedibile uscita al primo turno per mano degli Utah Jazz, ma le fondamenta appena gettate lasciano presagire un futuro da grandi protagonisti. La squadra oltre alle due stelle sotto canestro dispone delle notevoli qualità di John Lucas, Lewis Lloyd e Mitchell Wiggins (sì, il padre di Andrew) capaci di apportare talento e la giusta dose di atletismo. Il punto debole del trio è la tendenza all’autodistruzione con il consumo di sostanze illegali e, nel caso di Lucas, anche una storica disinvoltura con l’utilizzo di alcolici. Un limite che presto non mancherà di presentare un conto salato.
Quella del 1985-86 è la stagione di massimo splendore del gruppo: “The Dream” tiene fede al suo soprannome, sale di un paio di gradini verso l’empireo e si trasforma definitivamente nel giocatore franchigia. Il roster è dotato di grande tonnellaggio, fisicità, dinamismo e si rivela più profondo di ogni rosea previsione. Un passo in avanti clamoroso per una franchigia che solo un paio di anni prima si aggirava per il campo con la confusa attitudine di una ricostruzione travagliata da dubbi e polemiche. A guidare la panchina c’è uno dei massimi esperti dei salvataggi tecnici: quel Bill Fitch capace di rianimare i Cavaliers e i Celtics di Larry Bird (e per più di qualcuno uno dei principali artefici dell’etica del lavoro del numero 33).
Dopo una stagione regolare promettente sono i playoff a decretare il loro valore assoluto; a fare i conti con la grande modernità della truppa texana sono i Lakers di Magic che per un decade hanno dominato i destini della costa ovest. La finale di Conference si trasforma in uno spot ideale per NBA con due squadre capaci di sprigionare un’intensità selvaggia (con qualche richiamo ai Bad Boys per qualche giocatore di ruolo dei gialloviola) e di alternare gioco a difesa schierata e contropiede. Pat Riley prova ogni tipo di soluzione possibile per limitare Olajuwon, ma lo strapotere atletico del nigeriano finisce per mettere alle corde il meccanismo dello Showtime. Con la serie sul 3-1 la gara conclusiva si decide con una battaglia memorabile e con un canestro impossibile di Sampson sulla sirena che ancora oggi fa capolino nei filmati promozionali. La sconfitta fa meditare cambiamenti epocali ai losangelini che spinti dalla necessità trascorrono vanamente l’estate a trattare dei lunghi di qualità in grado di adattarsi alla squadra di Fitch. Le Torri Gemelle sono già un must in grado di cambiare le strategie degli avversari.
La finale contro i Celtics (nella forma più talentuosa dell’era Larry Bird) è meno emozionante della sfida con Los Angeles, anche perché Boston ha messo a referto 67 vittorie nella stagione regolare e accumulato un impressionante record di 11-1 nel corso dei playoff. I giovani sfidanti giocano al meglio delle proprie possibilità, ma la circolazione del pallone dei biancoverdi e qualche lacuna evidente in fase di costruzione del gioco - a causa del taglio per motivi disciplinari di Lucas - si rilevano ostacoli insormontabili. Bill Walton è uno dei pochi capaci di far girare a vuoto il nigeriano e con il supporto di Parish ha spesso la meglio in vernice, anche se Houston tiene sempre accesa la fiammella dell’intensità. Gara-4 in particolare merita di essere riscoperta e resta un cult della palla a spicchi dei ruggenti e colorati anni Ottanta. Olajuwon esce dalla serie a testa alta e con qualche prezioso appunto mentale su come gestire il trash talking e la tensione ai massimi livelli. Tutta la NBA si chiede: il Texas ha trovato finalmente una vera contender?
Un brusco risveglio
Il futuro della compagine evapora beffardamente nel giro di un battito di ciglia. Dopo l’addio obbligato di John Lucas, arriva una pesante squalifica di due anni e mezzo all’intero backcourt dopo che Wiggins e Lloyd risultano positivi a uno dei test antidroga che la NBA ha frettolosamente istituito dopo la tragedia di Len Bias. La punizione appare immediatamente eccessiva considerando la situazione generale della lega e il provvedimento distrugge la carriera ad alto livello dei due esterni. Le teorie complottiste che vengono sussurrate tra gli addetti ai lavori non mancano di alimentare le polemiche: la NBA ha distrutto i Rockets per favorire la solita sfida Magic/Bird?
A peggiorare il quadro complessivo è il drammatico calo di Ralph Sampson dovuto a una serie interminabile di malanni fisici. I compagni si aggrappano più che mai ad Olajuwon ma il triste viaggio verso la mediocrità cestistica è semplicemente inevitabile. La squadra che avrebbe potuto dominare per un lustro implode nel giro di una stagione e mezzo.
Il giocatore africano continua a giocare in modo divino nel suo terzo anno, migliora di partita in partita e nella primavera del 1987 sfiora un incredibile quintupla doppia con una prestazione da 38 punti, 17 rimbalzi, 12 stoppate, 7 palloni rubati e 6 assist in una bruciante sconfitta per mano dei Seattle Supersonics. La franchigia della città smeraldo riesce nell’impresa di eliminare qualche mese dopo i texani al secondo turno nonostante una gara-6 da 49 punti e 25 rimbalzi del totem da Lagos. La cessione di Sampson agli Warriors è il punto di partenza della nuova ricostruzione e pone Hakeem in una situazione inedita e alquanto complessa: circondato da grande talento sin dal suo approdo in America, deve fare i conti per la prima volta con dei compagni modesti e con prospettive poco incoraggianti nel breve e medio periodo. Il 1987-88 riserva lo stesso spartito: Olajuwon fa capolino nelle classifiche dei migliori dieci in quattro voci statistiche diverse, trascina di peso la squadra per tutta l’annata e conquista definitivamente lo status di miglior centro della lega. È una potenziale quadrupla doppia ogni volta che scende in campo.
A cementare questa percezione è il primo turno dei playoff 1988 contro i Dallas Mavericks per cui non basta una produzione media di 37.5 punti, 16.8 rimbalzi, 2.8 stoppate e quasi il 90% dalla linea della carità. Produce stagioni regolari di grande impatto e dimostra la sua innata tendenza a dare il massimo nel momento più duro della stagione, un elemento destinato a lasciare il segno.
Quando gli anni Novanta si affacciano all’orizzonte, la situazione dei Rockets continua a seguire lo stesso copione da ormai troppe stagioni: mediocrità diffusa, fragilità del roster e nessuna vera certezza a parte il numero 34 che appare sempre più isolato in campo e fuori. Dal 1988 al 1991 la squadra non va oltre il primo turno dei playoff e l’anno seguente la situazione precipita del tutto, con l’incursione nella tarda lotteria del Draft e la selezione del flemmatico Robert Horry. La questione del rinnovo contrattuale diventa ben presto una telenovela e quando il GM Steve Patterson arriva a sospenderlo per ben tre partite per condotta dannosa nei confronti della squadra, la situazione sembra irrecuperabile. Accusato di simulare un infortunio e al centro di una piccola inquisizione mediatica, la battaglia con la proprietà sembra l’epilogo della sua avventura e l’inizio di un nuovo capitolo per i Rockets.
La sospensione è il punto più basso della sua carriera, ma anche un ideale punto di svolta che lo indirizza verso la piena maturità tecnica e umana. Lo scarso successo della squadra ha offuscato la sua immagine con il grande pubblico che resta abbastanza freddo nei confronti del suo carattere riservato e di un approccio tranquillo che contrasta con lo stile scanzonato e immaturo di Charles Barkley o con il carisma magnetico di Michael Jordan o di Magic Johnson. In compenso è molto popolare e stimato tra i giocatori e gli addetti ai lavori, che ciclicamente ne sottolineano il grande valore su entrambi i lati del campo.
Non si lascia andare al trash talking: il suo stile in campo è sobrio, la sua leadership silenziosa. Un basso profilo che non appassiona gli sponsor, che gli preferiscono giocatori meno incisivi tecnicamente ma più profittevoli a livello di immagine. La sua carriera da testimonial si consuma tra brand come Etonic, L.A. Gear e Spalding, la sua idea di giustizia sociale lo porta a sfidare i marchi più conosciuti patrocinando calzature economiche e più facilmente accessibili per le famiglie a basso reddito. Una crociata lodevole che non incontra i gusti del pubblico di riferimento e che diviene oggetto di gratuito sarcasmo tra i rappresentanti delle griffe più prestigiose.
Hakeem 2.0: il Dream Shake diviene un culto
Dopo la tremenda stagione 1991-92, la ripresa della squadra è sorprendente anche se ancora una volta i riflettori posano il loro sguardo altrove, nello specifico sulle prodezze di Charles Barkley nella sua prima stagione con i Phoenix Suns e sui tumultuosi rapporti all’interno della corazzata dei Chicago Bulls che sono vicini a implodere. La svolta arriva quando Rudy Tomjanovich viene promosso da assistente a capo allenatore e sfrutta la sua conoscenza di Hakeem (ora con l’h) per disegnare la franchigia attorno a lui. Delega ad altri veterani il compito di riprendere comportamenti scorretti all’interno del roster e la responsabilità di agevolare lo sviluppo dei giocatori più giovani, e nel frattempo rimodella il roster con principi semplici ma estremamente moderni. I Rockets si attrezzano con una batteria di tiratori puri in campo nello stesso momento per fornire al loro condottiero spazio vitale per operare in post basso. Lo staff tecnico disegna i contorni dello “stretch” moderno e non è certamente un caso se un giovane Robert Horry ha idealmente ridefinito il ricco filone dei lunghi perimetrali. Quando le cose non girano per il verso giusto si ricorre al carattere e la cattiveria agonistica di Vernon Maxwell, che veste il controverso ruolo di “barometro” del gruppo e di feroce motivatore.
Con il nuovo assetto e le spaziature favorevoli il nigeriano vive una seconda giovinezza e si afferma definitivamente come l’uomo dai mille movimenti grazie all’affinamento costante e progressivo del suo “Dream Shake”, che ha ormai raggiunto lo sviluppo definitivo. Offensivamente giostra più come un ala forte che come un centro tradizionale e, a differenza degli esordi, raramente si affida a una ricezione molto profonda per i suo ricami in post basso. Ha perso un pizzico di atletismo che compensa con una fluidità e un’agilità che lo separa dal resto dei centri NBA. È costantemente in movimento, in grado di segnare con facilità dalla media distanza e di costruire un movimento a elevata percentuale realizzativa nei pressi del canestro. Con il tempo ha migliorato le sue qualità di passatore e rende vano ogni tipo di raddoppio avversario, mentre in difesa eleva ulteriormente il suo rendimento con una propensione a sporcare le linee di passaggio avversarie con scientifica efficacia. Oltre al resto, mantiene inalterate le caratteristiche peculiari di protettore del ferro con cui ha iniziato a dominare in giovane età in una lega molto più dura dal punto di vista fisico. La sua collezione particolare di “spin” e di “jumper” fa impallidire gli uomini d’area.
Il “Dream Shake” è uno dei movimenti più famosi e celebrati della storia del basket, tanto da attentare al famoso “Gancio Cielo” di Kareem Abdul Jabbar, da sempre sul trono della specialità. Parliamo di un capolavoro di complessità tecnica e di una soluzione con almeno cinque o sei varianti principali. Per funzionare necessita di un ottimo tiro dalla media distanza, di un eccellente “footwork” e di un trattamento del pallone di grande spessore. Al momento del suo massimo splendore era solitamente composto da un arresto appena fuori dalla vernice, una rotazione a destra o sinistra accompagnata da una finta con la gamba non implicata con il piede perno (una interpretazione del “jab step” perfezionato da Kiki VanDeWeghe), le finte combinate con la testa e le spalle per creare l’illusione di virare verso la direzione opposta e infine il rientro verso la spalla (preferibilmente) sinistra per effettuare un tiro in allontanamento, mentre il difensore è ancora in aria e assiste impotente alla scena. Nei pressi del canestro l’ultimo passaggio era spesso sostituito da un “gancetto”o un sottomano. Arte pop, quasi un passo di danza: non un semplice movimento eseguito a memoria, ma una sorta di “effetto Matrix”che congelava per istanti interminabili il diretto marcatore.
I due titoli in back to back
Forti di un Olajuwon al suo massimo splendore e dotati di un sistema moderno, i texani superano definitivamente il ricordo delle Torri Gemelle per dominare la NBA nei due anni di ritiro sabbatico di sua maestà Michael Jordan. Tra il 1994 e il 1995 il nigeriano spazza via dal parquet ogni illustre centro NBA, conquista due titoli di fila e scala finalmente i gradini della grande notorietà diventando a tutti gli effetti la “superstar” della porta accanto. La sua devozione verso l’Islam che si rafforza nei primi anni Novanta lo convince ad aggiungere la lettera “H” al suo nome e in definitiva ne accresce la popolarità grazie a un tratto che lo caratterizza rispetto agli altri grandi giocatori. Le sue notevoli prestazioni durante il mese del Ramadan fanno scalpore ancora oggi e sono un efficace esempio della sua durezza mentale. Frequenta assiduamente una moschea vicino al campo di allenamento e nella sua valigia da trasferta non manca mai un libro di preghiere e un compasso con cui identificare la posizione della Mecca.
Nella finale del 1994 piega i Knicks del vecchio avversario Patrick Ewing che costringe a un mortificante 36% dal campo, annichilendo ripetutamente la solida difesa di Charles Oakley e Anthony Mason che si alternano sulle sue piste. New York vende cara la pelle, arriva a gara-7 e cede solo di fronte ad un avversario in assoluto stato di grazia. Olajuwon mette a referto 26.8 punti con il 50% dal campo, 9.1 rimbalzi, quasi quattro stoppate e 25 assist complessivi contro il frontcourt più fisico e spietato del lotto. Tanto per gradire firma la giocata decisiva di gara-6 stoppando una tripla di John Starks che sposta definitivamente gli equilibri della serie. L’allenatore della squadra della Grande Mela è lo stesso Pat Riley costretto a sventolare bandiera bianca nel 1986 alla guida dei Lakers e che invano sperimenta ancora una volta ogni soluzione possibile per limitare lo strapotere di Hakeem. “The Dream” onora il suo soprannome e conquista il premio di MVP stagionale (primo giocatore di origine straniera a fregiarsi del riconoscimento), il premio di MVP delle Finali e quello di miglior difensore dell’anno in un colpo solo.
I Rockets cominciano la tornata 1994-95 nel migliore dei modi grazie a nove vittorie consecutive, ma il notevole potenziale delle principali concorrenti e la necessità di aumentare il tasso di talento del roster spinge Tomjanovich a rischiare gli equilibri di gioco. Il giorno di San Valentino un importante scambio riconduce Clyde Drexler al fianco del suo compagno di college e spedisce Otis Thorpe in direzione dei Portland Trail Blazers. I temuti effetti negativi si concretizzano immediatamente e il rendimento complessivo dopo la trade cala sensibilmente. La squadra campione in carica affronta i playoff con più incognite del previsto, anche se Drexler comincia a offrire il contributo sperato proprio in concomitanza della post-season. Stimolato dalle perplessità della critica sportiva, il nigeriano piega la resistenza dei San Antonio Spurs di un David Robinson incoronato MVP della regular season grazie al miglior record e in finale gli Orlando Magic del giovane astro nascente Shaquille O’Neal.
Nella serie contro gli Spurs, il duello stravinto con Robinson gli permette di elevarsi definitivamente dal resto dei centri della lega e di rendere immortale il “Dream Shake” che mette alla berlina il suo avversario e diventa virale tra gli appassionati di tutto il mondo per quelli che erano gli anni ‘90. I neroargento non riescono a far funzionare la nuova combinazione sotto le plance tra Dennis Rodman e l’Ammiraglio, mentre Orlando paga lo scotto di una evidente inesperienza durante la finale del 1995 e crolla mestamente per 4 a 0. La finale si mette subito per il verso giusto grazie alla rocambolesca vittoria di gara-1 che distrugge le risorse emotive dei giovani e promettenti Orlando Magic, quando la squadra della Florida brucia un prezioso vantaggio di tre punti nelle battute finali con quattro tiri liberi sbagliati da Nick Anderson, si fa raggiungere da una tripla di Kenny Smith e capitola al supplementare. Olajuwon diventa uno dei pochi eletti in grado di segnare 30 punti in ogni partita delle serie finali e conquista nuovamente il premio di MVP.
Gli uomini del marketing si affrettano a rivedere buona parte delle loro convinzioni stereotipate (“Carattere tranquillo, inglese curioso, niente rap, niente tatuaggi, provenienza straniera: pessimi affari”) trascinandolo nel momento migliore della carriera nella classifica dei primi dieci atleti per guadagni derivanti dalle sponsorizzazioni. La federazione americana nel frattempo decide di sorvolare in modo disinvolto su diversi cavilli e grazie alla cittadinanza conseguita da poco tempo lo invita a partecipare alle Olimpiadi del 1996 per difendere i colori statunitensi ad Atlanta.
Il declino
La voglia di restare al vertice di Houston, la necessità di resistere al rientro di Jordan e al rafforzamento delle corazzate della costa Ovest fa perdere slancio alle spinte innovative di Tomjanovich. Dopo il felice scambio che ha visto l’arrivo di Clyde Drexler e svoltato idealmente la stagione del 1994-95, negli anni successivi la franchigia si getta a capofitto nelle acquisizioni di grandi veterani come Charles Barkley e Scottie Pippen, non ripetendo però i risultati precedenti. L’alone vincente del gruppo evapora lentamente a favore della freschezza dei Seattle Supersonic della coppia Payton-Kemp e della sorprendente “terza” giovinezza di Stockton & Malone. Il 1998-99 porta in dote alla lega il lockout e l’aura di Tim Duncan mentre la stanza dei bottoni si rassegna alla cessione di Scottie Pippen e chiude definitivamente il suo periodo vincente. Nel 2001 un invecchiato e declinante Hakeem (alla soglia ormai dei 40 anni) decide di accettare una ricca offerta contrattuale per cui chiede e ottiene uno scambio ai Toronto Raptors. Quella che segue è una malinconica annata segnata da numerosi problemi fisici, mentre la sua vecchia franchigia si avvia a inaugurare l’era di Yao Ming e di Tracy McGrady.
Quello che rimane
Quando si ritira nel 2002 è al vertice della classifica ogni epoca nelle stoppate (3.830!), con una solida presenza nella top 10 assoluta per rimbalzi, palloni rubati e punti segnati. Eletto nella Hall of Fame nel 2008 e componente perenne dei quintetti ideali della stagione e delle compagini All-Star, alle soglie del nuovo millennio risulta titolare di un’impressionante quantità di record NBA che ne sottolineano ulteriormente la grandezza e la rimarchevole longevità. In molti hanno provato a descrivere il suo stile e celebrare un talento che i grandi media del settore collocano ancora oggi all’interno o a margine della lista dei migliori dieci giocatori di tutti i tempi. Una delle definizioni più curiose della sua figura l’ha data Win Butler, storico componente e fondatore degli Arcade Fire e tifoso pazzo degli Houston Rockets. Ospite di un podcast di Kevin O’Connor su The Ringer ha chiosato: «Hakeem per quanto mi riguarda è stato più grande dei Beatles: ogni volta che lo vedevi giocare ti rendevi conto della sua provenienza da un luogo che aveva qualcosa di diverso. Era come osservare un ballerino per il modo in cui esprimeva il suo gioco come una forma d’arte e di creatività».
Dichiarazione un po’ forte e ironicamente provocatoria ma non del tutto priva di senso. Come i Beatles, Olajuwon ha piantato il seme di una delle rivoluzioni culturali che hanno trasformato il panorama attuale e ha spalancato le porte a prospetti cresciuti lontano dagli USA e privi di background come ad esempio nel caso di Dikembe Mutombo, Tim Duncan e Joel Embiid. È uno degli ambasciatori che ha promosso la globalizzazione del basket, un processo che ha conosciuto una prepotente accelerazione grazie al suo esempio. Le applicazioni pratiche dei suoi movimenti sono ancora oggi un punto di arrivo per i migliori giocatori del mondo a prescindere dal tipo di approccio e dal ruolo. Tutti aspirano al suo equilibrio tra forma e sostanza e allo stesso livello di dominio sul gioco che ha esercitato per oltre una decade. E se non è una legacy questa, non sappiamo davvero cosa possa esserlo.