Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Make Hayward Great Again
16 gen 2019
La rinascita di Gordon Hayward è stata più lenta del previsto, ma qualcosa sta cominciando a cambiare.
(articolo)
16 min
Dark mode
(ON)

Ci sono alcuni giocatori la cui carriera è definita dai momenti negativi, talmente forti per magnitudine da superare quelli positivi. A volte si tratta di un errore che ti perseguita: Chris Webber che getta al vento la finale NCAA 1993 chiamando un time out che non aveva; J.R. Smith che lascia scadere il cronometro in gara-1 delle ultime Finals credendo di essere avanti nel punteggio. Altre volte c'è di mezzo un comportamento fuori dal campo, o nelle sue immediate vicinanze: Latrell Sprewell che prende per il collo coach Carlesimo; gli eccessi di violenza di Ron Artest culminati col Malice at the Palace. Persino LeBron James dovette vincere un paio di anelli in fila e accettare il ritorno a Cleveland prima di scrollarsi di dosso le critiche ricevute dopo The Decision.

Nei casi più crudeli, il turning point di una carriera è un infortunio: Derrick Rose e il primo di tanti interventi chirurgici nel 2012 (ma la sua rinascita coi Minnesota Timberwolves lo sta premiando con la meritata rivincita), o lo stillicidio che portò al ritiro Brandon Roy, Tracy McGrady e Yao Ming.

In questa casistica Gordon Hayward rappresenta un elemento raro: i suoi defining moments, le immagini che vengono in mente quando lo pensiamo, sono due sconfitte. Il primo ha molte sfumature. Nelle finali NCAA del 2010 i suoi Butler Bulldogs non dovevano essere lì, a giocarsela con la favorita Duke; Hayward, uno spilungone magrolino che fino a poco prima giocava a tennis, non doveva essere tra i prospetti più intriganti della stagione, e il 34enne coach Brad Stevens non doveva essere all'altezza di colleghi più navigati. Però il registro delle statistiche non tiene conto del contesto e delle imprese già compiute: un tiro sbagliato è un tiro sbagliato - quello sopra le braccia protese del Blue Devil Brian Zoubek, che avrebbe portato Butler in vantaggio, o la preghiera da metà campo sulla sirena - e una sconfitta è una sconfitta.

Il secondo invece è netto, come la frattura di un osso. L'infortunio che chiude dopo appena cinque minuti la stagione agonistica 2017-18 di Gordon Hayward, e che tutti gli appassionati hanno visto e rivisto dalla prima fila virtuale.

Ripartire da zero

364 giorni dopo quel drammatico 17 ottobre, Hayward è tornato a vestire la maglia dei Boston Celtics in un'occasione ufficiale, la prima partita di regular season contro i Philadelphia 76ers. Da allora ne ha disputate altre 36, tra alti e bassi che rispecchiano l'andamento incerto della squadra, raggiunta nel ranking dalle rivali di questa nuova Eastern Conference orfana di LeBron James.

Quando si valuta un giocatore che recupera da un infortunio ci sono due filosofie contrastanti. Da una parte, chi scende in campo va considerato “abile e arruolato” alla pari di ogni suo collega; dall'altra, infortuni così traumatici – anche visivamente – sottintendono un processo di ricostruzione del rapporto con la pallacanestro, prima ancora che da un punto di vista fisico.

Nel caso di Hayward c'è un aspetto tecnico in più: la sua carriera è rimasta congelata per un anno, costretta al reset quando il nuovo capitolo era appena ai titoli di testa. Integrarsi in una squadra nuova senza poter scendere sul parquet è un esperimento strano, quasi inedito, che secondo le parole dello stesso Hayward richiede dosi ancora maggiori di pazienza. «Sto ancora cercando il mio ritmo, imparare a conoscere i compagni con cui sono in campo, capire cosa mi chiederanno di fare, in che modo posso aiutare la mia squadra. ‘Pazienza’ è un'ottima parola per definire tutto questo».

Nella serata d’apertura dei Celtics, Gordon Hayward è partito titolare ed è rimasto tale fino al 17 novembre, parte di quel quintetto futuristico (insieme a Kyrie Irving, Jaylen Brown, Jayson Tatum e Al Horford) che stenta a ingranare nonostante trasudi positionless basketball da tutti i pori.

Le prime uscite sono state degli esperimenti, con una restrizione sui minuti in campo, caratterizzate dai poli opposti di entusiasmo e incertezza. «L'ostacolo principale è tornare in salute» ha confidato Hayward al Boston Herald commentando le difficoltà dell'esordio. «Se non stai bene, non riesci a fare quello che vorresti sul campo. Una volta superato questo, potrò pensare a tutto il resto». Sugli spalti si tratteneva il respiro ogni volta che finiva a terra, e lo stesso Hayward non riusciva a giocare con la mente serena, affaticandosi più del dovuto e finendo subito in debito d'ossigeno.

La prima prestazione di un certo rilievo arriva il 1 novembre, 18 punti contro i Milwaukee Bucks, e dieci giorni dopo scollina per la prima volta oltre i 30 minuti giocati in trasferta a Portland. Ma non è ancora un momento di svolta nella stagione; si ritorna a un'alternanza tra uscite incolori e sprazzi di luce, con una fiammata da 30 punti segnati a Minneapolis il 1 dicembre. Il periodo natalizio è emblematico: prima un pallido 2/6 per 5 punti realizzati coi Sixers nella serata di Natale, poi zero punti nella sonora sconfitta a San Antonio (0/6 dal campo) e due giorni dopo nuovo season high ancora contro i Timberwolves, stavolta al Garden: 35 punti, 14-18 dal campo e 4-7 dalla linea da tre punti, con un piccolo aiuto dalla difesa morbida di Minnesota.

Le fluttuazioni nei dati statistici sono fisiologiche all'impianto che Brad Stevens ha pensato per i suoi Celtics, tra le squadre più egualitarie della lega nello spartirsi responsabilità e cifre sui tabellini. Una dinamica che non sembra cambiare nemmeno quest'anno, nonostante qualche problema di troppo nel ridisegnare le gerarchie. Kyrie Irving resta in cima alla catena alimentare, Tatum e Brown sgomitano per posizionarsi alle sue spalle e Terry Rozier vuol dire la sua dalla panchina, memore della straordinaria campagna 2018.

In tutto questo Gordon Hayward si è mostrato giocatore funzionale alla squadra, disposto ad agire da collante, poco preoccupato di mantenere lo status di cui godeva a Utah – ma al tempo stesso in grado di cambiare marcia e prendersi più responsabilità in assenza di Irving, proprio come appena successo nella prestazione da 35 punti contro i Timberwolves. «Ho sempre cercato di essere un leader tramite l'esempio, più che con la voce» ha detto Hayward al Boston Globe. «Cerco di mostrare ai ragazzi più giovani come comportarsi da professionisti, insegno loro quanto sia importante andare in palestra, allenarsi, studiare i filmati; e sul campo, impegnarsi sempre al massimo».

Non è un caso che nell'immediato post-partita coi Timberwolves Hayward citi proprio Marcus Smart, colonna della squadra insieme ad Al Horford, ringraziandolo per averlo messo in ritmo fin dal primo quarto. Contrariamente a quanto espresso su Fox News da Jim Jackson e Stephen A. Smith su ESPN, quindi, il recupero di Gordon Hayward sembra essere uno degli ultimi problemi per il rendimento deludente dei Celtics. Ma stringendo l'obiettivo della telecamera su di lui, emergono aspetti che dovranno essere limati.

L’adattamento

In stagione Gordon Hayward registra 11.1 punti, 4.8 rimbalzi e 3.6 assist di media: cifre non esaltanti ma comprensibili, vista la suddivisione dei compiti in casa Celtics. Il dato più preoccupante è la percentuale dal campo, 42.4%, unita a un poco incoraggiante 32.7% dall'arco dei tre punti: sono numeri che parlano di una certa ruggine nel ritorno alla pallacanestro, ma anche di una selezione di tiri poco efficiente. Il nuovo Gordon Hayward tira molto più spesso da tre punti, (il 42.3% dei suoi tiri proviene da dietro l'arco, il 10% in più rispetto all'ultima stagione a Utah) e questo di per sé è tutt'altro che un male, vista la tendenza moderna in NBA. Brad Stevens lo usa spesso come diversivo sul lato debole, specialmente quando condivide il parquet con altri creatori di gioco come Irving, Rozier o Tatum – un'occorrenza molto comune a inizio stagione, meno frequente da quando Hayward parte dalla panchina. Il pallone gli arriva sugli scarichi, per impostare un set secondario o, più facilmente, per scoccare il tiro con spazio.

Avvicinandosi al canestro si nota come le abitudini offensive di Hayward siano cambiate. È sempre stato abile nell'operare dalla media distanza, uno dei pochi a mantenersi efficace in quell'area del campo grazie al mix tra atletismo, capacità di lettura e mano educata, ma è evidente che ci sia ancora qualcosa da riparare in termini di fiducia nei propri mezzi fisici. Hayward è meno esplosivo di come lo ricordavamo, forse anche a causa di ostacoli mentali da superare; una certa preoccupazione per l'atterraggio, ad esempio. Rialzandosi da una brutta caduta contro Charlotte, ha detto, ha tirato un sospiro di sollievo. «All'inizio ero spaventato. Il mio primo pensiero è stato “Per fortuna qualcuno mi ha preso al volo”. Ma in realtà, ho bisogno che giocate come questa accadano più spesso, per la mia consapevolezza. Devo subire contrasti, devo prendere colpi e rendermi conto che va tutto bene». In allenamento, i Celtics lavorano invitando Hayward a concludere al ferro mentre gli assistenti lo spingono coi pad.

Per il momento però, venendo meno l'accelerazione che lo contraddistingueva, Hayward fatica a farsi largo nella difesa e spesso non accetta il contrasto fisico nei pressi del ferro. Come ha notato Zach Lowe nel suo podcast, in certi frangenti rallenta l'azione chiamando il pick and roll prima di partire in palleggio. Tira solo col 57.8% sotto canestro, un dato che nell'ultima stagione a Utah raggiungeva il 69%. Il 25% dei suoi tiri arriva dalla media distanza, dove li converte col 41%, e solo il 32% delle soluzioni partono dal pitturato. Inoltre, la titubanza nel concludere sul contatto si traduce nei pochi viaggi in lunetta (2.3 a partita, seppur realizzati con l'85,2%).

In queste clip, due azioni tipiche nei suoi primi mesi dal rientro: Hayward non ha successo nel creare separazione in entrata, né spostando di peso un difensore più piccolo (T. J. McConnell) né sgusciando via da uno più lento (Steven Adams). Quando si accorge di essere chiuso sotto canestro, è troppo tardi.

Il confronto può sembrare ingeneroso, ma l'ultimo Hayward di Utah era uno schiacciatore atletico (si veda questo suo memorabile poster su Giannis Antetokounmpo) che decollava con aggressività.

Nell'ultimo anno coi Jazz registrava circa una schiacciata di media a partita. Nel 2018 in maglia Celtics si ferma a una ogni tre, con qualche giocata dinamica – ma ancora poco convinta – che riporta alla mente le sue classiche affondate a due mani.

Sesto uomo

Da quando Brad Stevens impiega Hayward come leader della second unit in uscita dalla panchina, la sua stagione ha preso una piega positiva e le statistiche ne hanno beneficiato. La percentuale al tiro, innanzitutto (da 38.4% a 45.6%), ma soprattutto il Net Rating che da 1.5 schizza a 9.7. In mezzo c'è stata quella striscia di otto vittorie tra novembre e dicembre: per certi versi un fuoco di paglia, favorito dal calendario, coi Celtics che hanno poi continuato a incappare in sconfitte evitabili.

Ma il rendimento di squadra ha mostrato sensibili incrementi in quel periodo, lanciando una tendenza che dura ancora oggi e invia un segnale positivo per la seconda metà di stagione. A metà novembre i Celtics erano il 27° attacco della lega, e in due settimane le otto vittorie di fila l'hanno proiettato ai vertici della classifica, secondi solo ai Warriors dell'allora rientrante Steph Curry, con un guadagno di 16 punti per 100 possessi. Oggi la squadra si è assestata al nono posto, ma è terza per triple tentate e seconda per percentuale dall'arco. La winning streak ha anche inaugurato un gioco più fluido che garantisce tiri facili: 27.6 conclusioni aperte a partita (quando il difensore è a più di un metro dall'attaccante), una percentuale di realizzazione del 67.8% al ferro e 15.2 tentativi in catch-and-shoot non contestati a partita che valgono 18.4 punti.

Un altro dato significativo: nella stagione in corso lo Usage di Hayward si assesta sul 18.3 di media. Siamo ben lontani dal 27.6 registrato nella stagione che gli valse la chiamata all'All-Star Game, ma in quella squadra lui era prima (e talvolta unica) opzione offensiva. È tuttavia indubbio che Hayward si trovi al suo meglio col pallone in mano e coach Stevens è sicuro che affidargli maggiori responsabilità ne accelererà la ripresa.

Operare in punta, giostrando l'attacco intorno ai blocchi, è sempre stato uno dei suoi punti forti sin dai tempi di Utah.

Qui, in maglia Celtics, pesca Jayson Tatum in angolo con una lettura precisa.

Qui invece, in completa fiducia durante la prestazione da 35 punti contro Minnesota, si gioca l'uno contro uno e lascia andare la tripla dal palleggio.

Questa invece sta diventando la sua azione di riferimento. Il difensore gli lascia spazio sul blocco, lui si libera e tira con un elegante arresto dalla media distanza.

Non si tratta del tiro più efficiente secondo le statistiche avanzate, ma per Hayward è importante trovare una comfort zone che lo renda produttivo in attacco. Ingegnarsi per crearsi il proprio tiro nonostante gli equilibri fisici e di squadra siano mutati rappresenta il segnale di una forte capacità di adattamento, un atteggiamento umile che, insieme a quella pazienza predicata dagli stessi Hayward e Stevens, sta dando i suoi frutti. Un paio di esempi proprio dal season high contro i Timberwolves:

Hayward dà prova di aver compreso i propri limiti e comincia a organizzarsi per superarli. Lo si intuisce già dal linguaggio del corpo, con la testa alta e il baricentro basso. Consapevole di non potersela giocare al 100% sotto canestro, evita di intrappolarsi nel pitturato come a inizio stagione e comincia l'attacco con un palleggio forte. Appena crea un minimo vantaggio, lo sfrutta concludendo con spazio. In allontanamento dal difensore, nel secondo caso anche assorbendo il contatto col petto, ma in grande equilibrio.

Ancora sulla capacità di adattamento di Hayward. Qui invece penetra fino al ferro, ma solo dopo essersi infilato in una tasca lasciata dalla difesa.

Dentro il sistema

Se Stevens lo lascia in campo, consentendogli di lavorare intorno ai suoi limiti offensivi, è anche perché Hayward sa avere impatto su altri aspetti del gioco. C'è un dato che lo mostra eloquentemente: rimbalzi e assist, su una proiezione di 100 possessi, sono superiori ai migliori anni di Utah (rispettivamente 8.9 e 6.7), mentre le rubate (1.8) sarebbero inferiori solo alle stagioni 2014 e 2015. In difesa, secondo le sue stesse parole, il recupero dall'infortunio gli presenta un conto più leggero. «Credo che in difesa il succo sia l'impegno, il giocare duro, competere, fare la cosa giusta. Qualche volta ti batteranno: è pur sempre la NBA, ci sono i migliori giocatori del mondo. Ma non c'è tempo per i rimpianti, se giochi duro riesci a rimediare ai tuoi errori».

Senza il pallone in mano Hayward appare anche più fiducioso nell'accettare il contatto fisico con l'avversario.

Nella partita di Natale contro i Sixers, nonostante la scarsa produzione offensiva coach Stevens lo ha lasciato a lungo sul parquet ad alternarsi in single coverage su Ben Simmons e Jimmy Butler, due attaccanti più fisici e pesanti di lui, e poi lo ha mandato ad inseguire J.J. Reddick in uscita dai blocchi. L'infortunio, quindi, non pare aver compromesso il suo pedigree da giocatore completo e intelligente; anzi, le capacità di lettura di quello che avviene sul parquet sarà fondamentale per sopperire ai sopraggiunti limiti fisici.

Sia Brad Stevens e Danny Ainge prima o poi dovranno seriamente domandarsi se Gordon Hayward tornerà mai ad essere il giocatore che i Celtics hanno scelto per il loro progetto e ricompensato con un contratto da 128 milioni per quattro anni. Il suo infortunio richiama alla mente quanto accaduto nel 2014 a Paul George, come termine di paragone più immediato, e l'ala dei Thunder ha recuperato lo smalto nel giro di un paio d’anni, disputando in questo momento una delle migliori stagioni della carriera.

L'infortunio di George però era una frattura della tibia che non andava a toccare la caviglia. Una volta rinsaldato l'osso torna come prima, ma la caviglia sinistra di Hayward ha subito una lussazione: per quanto legamenti e tessuti molli non siano rimasti compromessi, la stabilità dell'articolazione richiede qualche attenzione in più. Ci sono giocatori che nonostante i problemi cronici alle caviglie ottengono uno straordinario successo nella lega. Si pensi a Steph Curry, diventato MVP dopo due interventi chirurgici.

Ma è necessario adeguarsi in corsa alle sensazioni che trasmette il corpo e consolidare nuove routine per salvaguardarsi. Usando il lessico dei videogiochi - una sua passione di lunga data -, Hayward ha appena effettuato il respawn. Oggi intrattiene i suoi fan in streaming giocando a FortniteOverwatchLeague of Legends, e proprio quest'ultimo titolo gli ha dedicato un video ufficiale in occasione del rientro: le animazioni lo ritraggono affiancato al suo campione preferito, il barbaro Tryndamere, mentre si rialza sotto i colpi dei nemici e riprende a combattere.

Hayward lo sa bene, anche i più forti nelle lande di League of Legends subiscono la sconfitta: l'importante è buttarsi nella mischia più agguerriti di prima per recuperare il terreno perduto. I progressi che Hayward ha compiuto tra ottobre e gennaio indicano che ha intrapreso il percorso giusto, ma non è ancora dato sapere che contorni avrà la meta. I Celtics lo scopriranno mese dopo mese, come ha detto Brad Stevens. «Gordon è eccellente nelle letture dei pick and roll, se raddoppiato sa scegliere il passaggio giusto ogni volta. C'è voluto un po' di tempo per abituarsi al suo stile, al suo ritmo, e poi c'è la sua questione fisica. Sarà un Gordon Hayward migliore alla partita numero 40 rispetto alla partita numero 20, e alla partita numero 60 rispetto alla partita numero 40. Questa sarà la sua strada, quest'anno».

Prospettive di rinascita

Nel frattempo, l'obiettivo è risolvere quella crisi d'identità che ha trascinato Boston sul lato sbagliato del cambio di paradigma che ha sconvolto la Eastern Conference dopo la partenza di LeBron. Brad Stevens l'aveva predetto in sede di training camp, confidandosi col reporter del Boston Herald Steve Bulpett, e purtroppo per lui le preoccupazioni si sono avverate. «Il nostro problema principale è che abbiamo giocato due stagioni piene, di otto mesi, quasi fino alle Finals. Significa che hai una squadra difensivamente molto forte, ma con la difesa non puoi permetterti di saltare nessun passo. Ho visto molte ottime squadre disputare grandi stagioni e poi mettere il pilota automatico sul proprio lato del campo. Noi non possiamo permettercelo».

Tale lungimiranza significherà anche che coach Stevens abbia già in tasca la soluzione? Lui insiste sulla difesa, sul replicare quell'impegno da underdog profuso lo scorso anno, e le cifre gli danno ragione: i Celtics sono 4-12 nelle partite in cui concedono più di 110 punti (1-12 se non consideriamo gli overtime), mentre il bilancio sale a 21-4 quando tengono gli avversari sotto quel limite. I verdi sono sono sulla buona strada per recuperare il marchio di fabbrica del loro coach, attualmente secondi nella lega per defensive rating (104.8).

Mentre i nodi vengono al pettine e Hayward riempie la barra della salute, con pazienza, sarà forse necessario ricalcolare le ambizioni della squadra, limare le personalità e il roster per allargare il più possibile quella finestra che guarda alla conquista dell'anello. Affinché il prossimo defining moment nella carriera di Gordon Hayward possa essere, come è stato per Shaun Livingston, la gioia della vittoria dopo l'infortunio.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura