Per Helmut Duckadam le cose iniziano a prendere una brutta piega tre settimane dopo. È l'ultima giornata di un campionato dominato dalla Steaua Bucarest, ancora all'inizio della parabola ascendente che la porterà a stabilire un record di 119 partite consecutive senza sconfitte tra campionato e coppa di Romania (tuttora primato europeo). I Roș-Albaștrii (biancorossi) sono superiori tecnicamente, tatticamente, atleticamente, politicamente. Impegnati in trasferta contro l'Universitatea Craiova, per quella trionfale stagione 1985/86 le resta un solo traguardo da conquistare: il titolo di capocannoniere per il centravanti Victor Piturca, in testa a 26 gol a 90 minuti dalla fine. A quota 25 gol lo tallona un ragazzino di ventun anni che fa la star in un'altra squadra di gran talento, lo Sportul Studentesc arrivato secondo, che l'anno prima quasi eliminava l'Inter in Coppa UEFA. Il suo nome è Gheorghe Hagi e naturalmente dalla stagione successiva sarà un giocatore della Steaua.
La Steaua è la squadra dell'esercito rumeno e si contrappone storicamente alla Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno e di conseguenza della famigerata Securitate, la polizia. La cinghia di trasmissione con il potere è Valentin Ceausescu, figlio adottivo del dittatore Nicolae che nel 1948, quando era semplicemente Ministro dell'Agricoltura, lo aveva pescato tra i tanti orfanelli appena nati “per dare l'esempio al popolo”, veicolando un messaggio a favore della tutela dei tanti bambini rumeni a cui la guerra aveva portato via i genitori.
È un uomo quieto, riservato, poco incline a sporcarsi le mani con il regime, sincero appassionato di sport: gioca a tennis con Ilie Nastase e in pochi anni ha portato la Steaua al vertice del calcio europeo, e quando vinci la Coppa dei Campioni non può essere solo una questione di buone entrature politiche. Per esempio, ha dotato il centro di allenamento della Steaua di luci artificiali per abituarsi alle partite europee in notturna e ha portato la squadra a ottenere più rispetto dalla classe arbitrale nei velenosi derby con la Dinamo. Tutto il contrario del fratellastro Nicu, figlio naturale di Nicolae, bevitore e giocatore incallito, irascibile e affascinato dal lato oscuro della luna, sul quale circola la leggenda non infondata che abbia pagato ingenti debiti di gioco contratti a Las Vegas regalando ai suoi creditori una muta di cavalli. Qualche giorno prima di quell'ultima inutile partita, Nicu va da Valentin e come Don Rodrigo alla filanda gli dice: scommettiamo?
Scommettiamo che il capocannoniere sarà Hagi e non Piturca? A Valentin ronza la pulce nell'orecchio: raduna la squadra e le chiede l'ultimo sforzo di giocare per il loro bomber e fargli fare più gol possibili, che a truccare la partita col Craiova ci pensa lui. Poi prende da parte Duckadam e gli spiega che in questo tipo di incontri il ruolo del portiere è quello più ingrato, il biscotto prevede qualche gol anche degli avversari e lui deve dare il suo contributo: se farà il suo dovere, riceverà un trattamento di favore. Ma da qualche settimana il nome di Duckadam è come circondato da un'aureola, è un eroe che cammina e questa proposta non gli va molto giù. «Preferisco di no». Buona idea: perché la Steaua vince 5-4, Piturca segna tre reti e arriva a 29, ma Hagi ne segna sei e lo sorpassa a 31, perché nel frattempo lo Sportul Studentesc ha vinto 7-5! Mai scommettere contro Nicu Ceausescu.
Negli anni Ottanta la vita del calciatore rumeno non è Disneyland. Duckadam pagherà il suo atto di insubordinazione con una multa salatissima equivalente a due mesi di stipendio, ma non sarà la cosa peggiore che gli capiterà in quell'estate del 1986. Il controllo della politica sullo sport è totale e questo consente alla Romania di raggiungere anche risultati lusinghieri come il secondo posto nel medagliere olimpico di Los Angeles 1984, ma del crescente divismo degli atleti occidentali oltre cortina non si vede neanche il minimo bagliore. Fino al 1985 il nome di Duckadam, a volte scritto Ducadam, era comparso sui giornali italiani solo una volta, quando la Steaua aveva incrociato il cammino della Roma in un primo turno di Coppa delle Coppe: i rumeni erano stati eliminati a testa molto alta e il loro baffuto portiere non aveva sfigurato nel duello a distanza con Tancredi. Anzi: dopo aver causato un rigore per aver travolto Bruno Conti, Duckadam aveva salvato lo 0-0 casalingo parando il tiro dal dischetto a Ubaldo Righetti.
Nato a Semlac, in piena Transilvania, con il confine ungherese a un tiro di schioppo (espressione che all'epoca andava tristemente presa alla lettera), Duckadam si era messo in luce nell'Arad, la squadra più forte della regione, grazie alla quale era approdato anche in Nazionale il 17 novembre 1982, entrando nei minuti finali di un'amichevole contro la Germania Est, quando non poteva immaginare che ne sarebbe seguita solo un'altra. Per tutto il decennio culminato nello storico Mondiale di Italia 1990 il titolare inamovibile sarebbe stato Silviu Lung, per 14 anni numero uno dell'Universitatea Craiova, prima di passare proprio alla Steaua nel 1988.
Decisamente la vita del portiere rumeno non è un luna park e non lo diventa neanche dopo essere entrato nella leggenda. Sul resto della carriera di Helmut Duckadam dalla seconda metà del 1986 in avanti sono state scritte pagine di calunnie e insinuazioni rimaste su carta, a volte vere e proprie asserzioni formulate al presente o al passato remoto indicativo («fu picchiato», «il regime lo punì»), ma senza mai la conferma del diretto interessato, che anzi nelle numerose interviste che continua a rilasciare con generosità ha sempre mantenuto un'unica versione. Una versione tutt'altro che di comodo verso il regime, di cui non si può certo dire fosse un sostenitore. «Fummo ricevuti da Ceausescu dopo la finale col Barcellona e rimanemmo sorpresi dalla sua freddezza. Addirittura, ci disse che, se ci fossimo preparati meglio, avremmo potuto vincere nei 90 minuti!».
Il regime sta sparando le ultime cartucce e neanche gli eroi nazionali vengono risparmiati dalle meschinità da basso impero. In caso di vittoria della Coppa ai giocatori era stata promessa una motocicletta fiammante a testa, poi derubricata in una più modesta Dacia, infine in un fuoristrada ARO 4x4, ovviamente di rigorosa produzione rumena. Arrivarono alla fine i fuoristrada, due mesi dopo – usati, logori, veicoli dismessi dall'esercito. Il difensore Steven Iovan, indagando tra le officine locali, scoprì che il suo ARO era stato assemblato con pezzi provenienti da altri veicoli. «Alla fine ci accontentammo di rivenderli di nascosto, a un prezzo dignitoso, ad abitanti della zona».
Ma nelle chiacchiere ci vuol poco a degenerare nel gossippaccio ed è a quel punto che Duckadam ha sempre detto stop. Nessuno gli ha spezzato le mani, nessuno gli ha sparato in un braccio durante una battuta di caccia. È stato scritto che il figlio di Ceausescu si fosse ingelosito per una Mercedes regalatagli dal presidente del Real Madrid Mendoza o addirittura da quell'anti-catalano del Re Juan Carlos e che i suoi sgherri fossero intervenuti con la sobrietà che contraddistingueva il buon Nicu. «Erano gli ultimi fuochi della dittatura e in giro c'era forte malcontento verso la famiglia Ceausescu: se fosse davvero successo qualcosa, si sarebbe immediatamente venuto a sapere». Ma qualcuno insiste ancora oggi: è la verità, la nega solo per difendere la sua famiglia. Ad ogni modo, non possiamo saperlo. Le fake news non le hanno inventate oggi, ma come al solito la realtà è molto più semplice, e per un atleta ancora più atroce.
Tornato ad Arad per l'estate, Duckadam sta giocando una partitella con alcuni amici. È l'11 luglio 1986: per proteggere la spalla durante una caduta, appoggia la mano destra sul terreno e subito avverte una fitta fortissima al braccio, quasi da svenire. Ha la prontezza di rivolgersi subito a un medico, che gli diagnostica un aneurisma arterioso periferico su cui intervenire al più presto. Si mette in macchina e raggiunge Bucarest, dove si precipitano a metterlo sotto i ferri. La sera dello stesso giorno, dopo cinque ore di operazione, evita l'amputazione del braccio. Altri problemi con il governo, semmai, arrivano qualche mese dopo.
Convinto di poter tornare a giocare, Duckadam riprende pian piano ad allenarsi con la Steaua, dovendo però scontrarsi con la diffidenza dei medici. Il rientro continua a slittare; ciononostante viene aggregato alla squadra nel viaggio a Tokyo per disputare l'Intercontinentale contro il River Plate e partecipa persino a un paio di allenamenti, più che altro per motivi di immagine. Ma in campo ci va Dumitru Stingaciu, il portiere di riserva della finale di Siviglia, e Duckadam riceverà la sgradevole sorpresa natalizia di sentirsi dire che la sua carriera è finita. E se non può più giocare a calcio, osservano gli uomini di Ceausescu con gelida ottusità burocratica, non potrà più far parte dell'esercito né ricevere lo stipendio. Non sono passati neanche sette mesi dal 7 maggio 1986, la notte più bella della sua vita e, per certi versi, la più felicemente assurda mai capitata a un portiere di calcio.
7 maggio 1986
La Steaua Bucarest 1985/86 è un congegno perfetto in patria e finalmente anche in Europa, diventando la prima squadra rumena a raggiunge una finale internazionale. Se vincerà, sarà anche la prima squadra del blocco dell'Est ad alzare la coppa: prima degli jugoslavi, meglio dei sovietici! La allenano in due: Emerich Jenei e il braccio destro Anghel Iordanescu, “puiu” (il generale), spostatosi in panchina dopo aver concluso nel 1984 una carriera quasi interamente spesa con la maglia della Steaua. I leader in campo sono il libero Miodrag Belodedici, che per la sua eleganza è detto “il cervo”, Marius Lacatus detto “la fiara” (la bestia), che ritroveremo anche in Italia in una sfortunata parentesi con la Fiorentina, e il già citato Piturca. Naturalmente non c'è mezzo straniero: soltanto il vecchio Boloni ha vaghe origini ungheresi, ma è una colonna della Nazionale da un decennio abbondante. Jenei è un uomo affabile, rilassato, che a volte comunica la formazione anche due giorni prima della partita. Con i giocatori è molto più loquace della media degli allenatori dell'epoca e predica un calcio offensivo in cui l'ossessivo principio base è giocare a un tocco («Solo quando viene meno la concentrazione è consentito un secondo tocco, ma solo per pochi minuti»).
La Steaua è una squadra senza storia. In cinque partecipazioni alla Coppa dei Campioni è sempre stata eliminata al primo turno, ma la campagna europea 1985-1986 - la prima senza le squadre inglesi, appena messe al bando per cinque anni dopo i fattacci dell'Heysel - nasce sotto una buona stella (in rumeno, “steaua”). Il sorteggio è una splendida autostrada panoramica con vista sulla semifinale: prima si inchinano i danesi del Vejle, poi i decaduti ungheresi dell'Honved e ai quarti i finlandesi del Kuusysi Lahti in un doppio confronto complicato solo a livello atmosferico. L'andata si gioca a Bucarest in un periodo di grandi piogge e il campo pesantemente allagato diventa vagamente agibile solo dopo l'intervento degli elicotteri dell'esercito. Nel pantano lo 0-0 è logica conclusione, ma al ritorno in Finlandia arriva l'impresa, con il gol di Piturca che porta i rumeni nelle magnifiche quattro. In realtà non c'è molto da stupirsi: stanno dimostrando di essere una squadra che difende bene e attacca ancora meglio specialmente nel tonitruante catino del Ghencea, sempre pieno come un uovo. Per informazioni chiedere all'Anderlecht, favorito in semifinale dopo aver eliminato il Bayern Monaco, che vince anche l'andata ma viene travolto 3-0 a Bucarest.
Una doppietta di Piturca e un gol di Balint lanciano la Steaua verso la prima finale di Coppa Campioni di una squadra dell'Europa dell'Est.
Senza le inglesi, una Coppa più semplice? Non ditelo al Barcellona, che di contro ha ricevuto in sorte un tabellone simile al tappone pirenaico della Vuelta. Sparta Praga al primo turno, Porto agli ottavi, i campioni uscenti della Juventus ai quarti (gracias, Marco Pacione) e in semifinale gli svedesi del Goteborg, morbidi solo in apparenza. All'andata, in casa, gli svedesi sono 3-0 già a fine primo tempo. Il miedo escenico del Camp Nou consente ai blaugrana di ribaltare il risultato, grazie alla tripletta di Pichi Alonso e alle prodezze del portierone Urruticoechea, che non solo para un rigore ma ha anche il fegato di tirare lui stesso il quinto, piazzandolo sotto l'incrocio. La festa e l'emozione sono tali che subito dopo il penalti decisivo trasformato da Victor Munoz si precipitano in campo decine di persone, tra cui un bambinetto raccattapalle che farà carriera, qui immortalato mentre applaude l'allenatore Terry Venables, portato in trionfo.
Quel Barcellona non naviga nell'iperspazio in cui siamo abituati a vederlo oggi. La rivoluzione argentina di Menotti e Maradona è fallita miseramente e Venables ha eletto a maitres-à-penser del suo calcio più monotono e razionale il lunatico tedesco Schuster e lo scozzese Archibald, castigatore della Juve ai quarti. La finale contro la sconosciuta Steaua, peraltro priva del suo capitano Stoica squalificato, induce a pensare positivo, ancor più perché si giocherà al Sánchez-Pizjuán di Siviglia, dove i tifosi culé saranno in schiacciante maggioranza. E poi c'è la stuzzicante suggestione di essere la prima squadra spagnola a vincere una Coppa dei Campioni “a colori” e in epoca democratica: le sei Coppe del Real Madrid erano tutte arrivate tra il 1956 e il 1966, in piena dittatura franchista. Cosa potrà andare storto? Beh, innanzitutto una certa tensione portata da alcuni cattivi presagi: il Barça non ha mai sollevato al cielo “la Orejona” e la sua unica finale persa, nel 1961 contro il Benfica, era stata segnata dagli svarioni del portiere Ramallets e da ben quattro legni, tanto che dopo la UEFA aveva suggerito ai grandi stadi di modificare la forma di pali e traverse, passando dai tradizionali parallelepipedi di legno, spigolosi e quasi sempre ostili agli attaccanti, a una più morbida forma cilindrica.
Poi la pressione di giocare in casa e l'incognita dell'avversario: chi li conosce questi rumeni? Incredibilmente è lo stesso dubbio che aleggia in casa Steaua anche se, con l'aiuto di qualche giornalista che ha gli agganci giusti nelle ambasciate rumene di mezza Europa, a pochi giorni dalla finale arrivano un po' di benedette VHS del campionato spagnolo. Duckadam ci rimane un po' male quando scopre che tra queste non c'è Barcellona-Goteborg: da ottimo specialista sui rigori non vedeva l'ora di mettersi a studiare i tiratori blaugrana. Gli toccherà improvvisare.
La partita è sommamente brutta e si conclude con il primo 0-0 nella storia delle finali di Coppa Campioni. Il Barcellona è roso dalla tensione, la Steaua si adatta al ritmo balneare che la traghetta senza sforzi fino al 120'. Le maggiori emozioni riguardano due sostituzioni, una per parte. Nel tentativo di scuotere una squadra che sta girando a vuoto dall'inizio, a cinque minuti dal 90' Venables ha tolto Schuster per mandare in campo Pichi Alonso, l'eroe della semifinale sacrificato in panchina. Schuster non ha esattamente gradito: ha tirato dritto senza sedersi in panchina, è filato negli spogliatoi, si è fatto la doccia, ha chiamato un taxi ed è andato all'aeroporto. Ancora più clamorosa la mossa di Jenei, che al 73' ha deciso di spendere il primo cambio mandando in campo un giocatore che non disputava una gara ufficiale da due anni. Ma quel giocatore è il fido Iordanescu, 34 anni, unico depositario delle segrete strategie di Jenei nel corso della settimana. L'allenatore si è accorto che le facce dei giocatori del Barça sono sempre più gialle di paura e ha mandato in campo il suo generale per infondere coraggio alla truppa, darle ulteriore convinzione che l'impresa è possibile, magari anche rischiare qualche giocata. «Puiu, al primo pallone che tocchi fai un dribbling. Così li spaventi». E il Puiu esegue: al primo pallone evita Schuster, scarta Munoz e quasi manda in porta Piturca.
Il piano di Jenei si rafforza con il passare dei minuti e guarda con favore a un epilogo ai rigori: loro avranno anche Urruti e 70mila tifosi, ma noi abbiamo Duckadam. Duckadam se n'è rimasto tranquillo, quasi inoperoso a eccezione di qualche uscita. Si muove con grande controllo ma è fisicamente imponente, sfiora il metro e novanta in un'epoca in cui i portieri non sono ancora le giraffe di oggi. Quella sera ogni spagnolo lo sta conoscendo per la prima volta, ma i suoi compagni lo aspettano al varco, dopo che per tutta la stagione si è divertito a sfidarli dal dischetto a fine allenamento. E allora, quando Vautrot pone finalmente fine allo strazio dei supplementari, il prato del Sánchez-Pizjuán si trasforma nel set di uno di quegli spaghetti-western che vent'anni prima venivano girati proprio in Andalusia, tra i canyon del deserto di Tabernas. Immaginatevi una colonna sospesa di Ennio Morricone, primissimi piani di occhi vitrei immobili nello spazio e nel tempo che si dilatano, e poi di colpo i baffoni e la faccia da smargiasso di Duckadam, che ha proprio il phisique du rôle del perfetto cattivo.
Chi tira? Nella magica notte col Goteborg i sei rigoristi del Barça erano stati Alexanko, Pedraza, Carrasco, Calderé, Urruti e Victor Munoz: cinque di loro sono in campo, l'unico assente è Calderé. Sui rigoristi della Steaua si può al massimo procedere per tentativi: dovrebbero tirare lo specialista Majearu, poi la punta Lacatus e i due centrocampisti più tecnici, Boloni e Balint, o forse il carismatico Belodedici. Iordanescu invece no, Jenei gliel'ha chiesto ma lui si è espressamente tirato indietro, come Falcao due anni prima col Liverpool: «E se sbaglio? Rimarrebbe una macchia sull'ultima partita della mia carriera». C'è molta incertezza e un nervosismo indicibile, e dove regnano incertezza e nervosismo è lì che prosperano i forti di spirito.
Il primo a tirare è Mihail Majearu, centrocampista elegante, lucido, geometrico. «Ero rimasto in campo 120 minuti solo perché tiravo bene i rigori». Ma è il primo a cui cedono i nervi: Urruti lo fissa, lui porta le mani ai fianchi e volge le spalle alla porta nell'attesa snervante del via libera di Vautrot. È un brutto segno e infatti ne esce una mozzarellina debole e centrale, respinta senza difficoltà. Sugli spalti parte già la festa. Come primo rigorista Venables ha scelto il capitano Alexanko, che aveva aperto la serie anche in semifinale. Duckadam non degrada il suo ruolo inscenando spettacolini alla Grobbelaar, il portiere del Liverpool che nel 1984, pure lui “in trasferta”, aveva irretito i rigoristi della Roma: si sistema sulla linea di porta con le mani poco sopra le cosce, e aspetta. «Il primo è sempre il rigore più difficile, anche se è stato il rigore che ogni portiere sogna: a mezz'altezza, non troppo potente. Ma se mi fossi tuffato dalla parte sbagliata tutti avrebbero parlato dei nervi d'acciaio di Alexanko». Invece il copione è diverso: Duckadam si butta a destra e respinge. Ancora 0-0.
Il secondo rigorista della Steaua è Laszlo Boloni, 33 anni, uno dei più esperti della squadra. Il linguaggio del corpo non sembra tradire emozione: sistema la palla sul dischetto, arretra senza mai distogliere lo sguardo dal portiere, avanza sicuro dopo il fischio arbitrale. Ma sbaglia anche lui, svelando troppo presto l'intenzione di “aprire” sul secondo palo (scelta insolita per un mancino): Urruti è già lì da mezz'ora che lo aspetta, poi lo guarda e sorride indicandosi la testa, cercando di mandare un messaggio di calma ai suoi. Il Barcellona risponde con Pedraza e qui iniziano i mind games di Duckadam, chissà quanto consapevoli. «Se per il primo rigore avevo semplicemente indovinato la direzione giusta, col secondo dovevo pensare con la testa del mio avversario». In allenamento si era divertito a provare qualche rigore pure lui, provando scherzosamente a emulare Urruti. Così entrò nella mente di Pedraza: «Questo baffone si tufferà ancora a destra, magari anche per una mera questione scaramantica? O sa che sto pensando questo e allora cambierà angolo? Anche Urruti ha parato due rigori, ma ha cambiato angolo: sul primo si è tuffato a sinistra e sul secondo a destra. E allora...». Duckadam sceglie ancora di andare a destra, e prende anche quello.
Uno 0-0 dopo quattro rigori è un inedito che resisterà anche negli anni a venire, perlomeno nelle grandi partite. Per scacciare la tensione, non farsi infinocchiare dal portiere e muovere il punteggio, l'idea migliore è quella applicata da Marius Lacatus: una legnata centrale di sano buonsenso sotto la traversa. La Steaua trova così un 1-0 pesantissimo che rende ancora più ripida la scalata della montagna per Pichi Alonso, pure lui costretto a pensare mentre si avvicina al pallone. «Deve essersi detto che avrei cambiato lato, visto che mi ero tuffato due volte a destra. Perciò ho deciso di tuffarmi a destra per la terza volta e la palla mi ha colpito sul petto. È stato il più facile dei quattro». Assistito anche da un'elasticità prodigiosa, Duckadam riesce addirittura a bloccare il pallone per poi scagliarlo nel cielo di Siviglia; ma subito chiede scusa a Vautrot per questa improvvisa zingarata fuori dai suoi feroci schemi mentali.
È possibile che Duckadam, iscritto alla facoltà di Ingegneria Aeronautica all'Università di Bucarest, abbia sentito parlare della teoria dei giochi? Quanto sono diffuse a livello economico e strategico le teorie di un gruppo di matematici occidentali in una dittatura comunista degli anni Ottanta? O forse sta pescando a piene mani nel suo bagaglio da gambler, affidandosi anche a uno spiccato istinto da pokerista? Il vantaggio mette alla Steaua le ali ai piedi e nella testa, Balint è glaciale nel calciare il suo rigore in basso a sinistra, incurante dei movimenti di Urruti: 2-0. Dal cosiddetto settore ospiti i trecento rumeni producono un lontano boato quasi impercettibile.
Spalle al muro, si presenta sul dischetto Marcos Alonso (padre dell'attuale giocatore del Chelsea e a sua volta figlio di Marquitos, pluri-vincitore di Coppe Campioni con il Real Madrid anni Cinquanta). «Penso che credesse che ormai mi sarei sempre tuffato a destra. Se guardate le immagini vi accorgerete di tutti i giochetti che gli ho fatto. Gli ho lasciato pensare che mi buttassi a sinistra, poi mentre prendeva la rincorsa ho fatto un movimento impercettibile con la gamba verso destra, così lui ha pensato che mi stessi tuffando ancora a destra e ha tirato debolmente dall'altra parte. E invece mi sono buttato a sinistra. Spiegato ora sembra facile, ma provate a farlo davanti a 70 mila persone...».
È finita. Un solo portiere ha annichilito psicologicamente una squadra intera e senza neanche accorgersene, visto che a quanto pare Duckadam non stava nemmeno tenendo il punteggio e nell'orgia degli abbracci collettivi è Boloni a informarlo che sono appena diventati campioni d'Europa. Lo ha dichiarato lui stesso, per esempio in questa intervista al sito ufficiale della UEFA, e in effetti rivedendo le immagini Duckadam sembra proprio avere lo sguardo spiritato di chi ha appena ricevuto una notizia incredibile.
Tenera è la notte e anche il giorno dopo, trascorso in libertà per le strade di Siviglia dove tutti lo riconoscono e lo fermano per una foto, un autografo, per offrirgli una birra; ma invece la vita dell'eroe individuale in uno Stato comunista è lastricata di trappole. Abbiamo già detto dei suoi problemi, prima disciplinari e poi fisici, che purtroppo lo porteranno a perdere il treno del Manchester United di Ferguson, vivamente interessato. L'oblio ci porterà via solo poche righe: dopo una seconda operazione al braccio nel 1988 torna a giocare in seconda divisione con l'Arad, dove pare che un giorno abbia segnato direttamente su rinvio dal fondo, e diventa doganiere per la polizia di frontiera nel paese di Nadlac, dove controlla il traffico automobilistico tra Romania e Ungheria. Poi a Natale del 1989 la dittatura finisce e la democrazia gli fa lentamente ritrovare considerazione all'interno del Paese: si avvicina alla politica, diventa consigliere del Ministro dello Sport e poi anche della sua amata Steaua di cui è tuttora ambasciatore, anche se nel frattempo il club ha cambiato nome, stadio e connotati.
Tutto è cambiato, ma nulla per davvero rispetto a quella notte perfetta, ancora cristallizzata, che ruba di nuovo e completamente la scena, ogni volta che nei libri di storia, negli almanacchi e nelle compilation su Youtube – quasi sempre per caso, mentre si sta cercando altro - si incontra il nome di Helmuth Duckadam.