La Coppa d’Africa 2012 fa il suo ingresso tra le mani di uno sciamano, circondato da una specie di tribù che si avvia verso il palco della premiazione a passo di danza. Dall’altra parte del campo i giocatori dello Zambia sono riuniti in cerchio: inginocchiati, intonano canti di preghiera e ringraziamento. L’hanno fatto per tutti i calci di rigore contro la Costa d’Avorio, crescendo in tono e intensità man mano che le certezze degli “Elefanti” si sfaldavano, e il sogno dei “Chipolopolo”, i proiettili di rame, si realizzava.
In un rincorrersi di climax e anticlimax ci sono stati la parata di Mweene su Kolo Touré che ha portato in vantaggio lo Zambia, poi l’errore del match-ball di Kalasu che ha riportato in gara la Costa d’Avorio, infine il tiro sbilenco di Gervinho e la realizzazione decisiva di Sunzu: un finale assurdo, che ha portato lo Zambia alla vittoria della sua prima Coppa d’Africa. In sottofondo, ancora, la nenia, di gioia e lamento, di venti calciatori, l’uno con le braccia sulle spalle dell’altro.
Hervé Renard, l’allenatore francese dello Zambia, nel quarto d’ora in cui la squadra rivelazione si laurea campione, lascia trasparire una certa indifferenza, come se la partita non sia del tutto affar suo. Sorride, si guarda intorno come un turista. Abbozza un’espressione riflessiva, come a scorgere all’orizzonte l’inevitabilità della sconfitta. O del successo. Pochi giorni prima della finale, quando una delegazione dello Zambia aveva affidato una corona di fiori ai flutti dell’oceano, Renard era rimasto in disparte: si commemorava una tragedia di diciannove anni prima, quando al largo di Libreville, Gabon, una squadra di calcio forte e coesa che stava lottando per qualificarsi ai Mondiali statunitensi del ‘94 stava viaggiando verso il Senegal per un match fondamentale, ma si era dissolta in uno dei disastri aerei più dolorosi della storia calcistica recente. Proprio Kalusha Bwalya, uno dei pochi sopravvissuti e attualmente presidente della federazione calcistica dello Zambia, era stato uno di quelli che aveva più fortemente voluto Renard sulla panchina dei “Chipolopolo”.
Vincere la finale con la Costa d’Avorio, nel 2012, in Gabon, avrebbe significato rendere un tributo dalla portata emotiva incalcolabile. Eppure, persino in quel contesto, Renard ha trovato il modo per rendere il finale significativo scomparendo. Facendosi in disparte. L’unico istante in cui Renard entra nei festeggiamenti è quello in cui deposita Joseph Musonda - che si era infortunato all’undicesimo minuto della finale e dopo la sostituzione non riusciva neppure a camminare - sulle spalle dei compagni. L’ha trasportato tenendolo in braccio delicatamente, come fa la madre di Cecilia ne I Promessi Sposi, dalla panchina fin lì. Non voleva fargli perdere l’occasione storica di celebrare, commuoversi insieme.
Scompare subito dopo. Torna solo quando la gioia ha ormai soppiantato il momento di raccoglimento, per ballare danze tribali coi suoi calciatori.
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Sembra un dettaglio minore e invece, in un contesto di primedonne come sono spesso gli allenatori europei che “scendono” in Africa, a fare da deus-ex-machina, a portare il progresso calcistico, l’eclissi volontaria di Renard non è affatto una sfumatura secondaria. È per questo che Bwalya l’aveva scelto? Perché la sua narrativa fatta di annullamento della personalità di fronte all’esigenza dello scopo, di motivazione e riscatto, somigliava a quella dei “Chipolopolo”?
Da quella sera in poi la camicia bianca slacciata, i capelli biondi e le spalle larghe, l’incarnato bronzeo da surfista sullo sfondo di panchine assolate e militari in divisa, sarebbero diventate l’immagine iconica di un coach vincente, almeno nel continente africano. L’avrebbero chiamato, sulle loro panchine, la Costa d’Avorio, nel 2015, e il Marocco, l’anno successivo. Per vincere.
L’importanza del lavoro
Hervé Renard è nato in Savoia, a Aix-les-Bains. Sua madre Danielle, figlia di immigrati polacchi scappati dalla guerra, l’ha cresciuto da sola, abbandonata dal marito, barcamenandosi tra due lavori. Voleva che al figlio non mancasse niente, che potesse godersi le sue passioni. A 15 anni lo iscrive all’accademia calcistica del Cannes. Il direttore sportivo è Arsène Wenger.
Dalla cantera del Cannes sono usciti Patrick Vieira, Johan Micoud, Zinedine Zidane, del quale Hervé è stato compagno di squadra «anche se di sicuro lui non se lo ricorda», scherza oggi. Gioca come difensore centrale, viene anche convocato nell’U17 con Deschamps e Desailly. Arriva a giocare una partita di Ligue 1, a vent’anni, a Parigi, contro il Racing Club di Enzo Francescoli e David Ginola. Rimarrà la sua unica presenza in campo da professionista, di una carriera durata né troppo né troppo poco, soprattutto nelle serie minori, fin quando un brutto infortunio al ginocchio lo porta a smettere. Ha solo 29 anni.
Tre anni prima che la sua carriera da calciatore finisse, quando giocava ancora in Nationale, la terza divisione del calcio francese, a Vallauris, prima ancora che diventasse - appena trentenne - allenatore dello SC Draguignan (che condurrà a due promozioni in due stagioni), Hervé ha fondato una piccola impresa di pulizie. Gliel’ha suggerito un amico, Pierre Romero, che aveva già una cooperativa di servizi e un portfolio di clienti da passargli, tutti nell’area di Antibes.
Renard raccoglie la spazzatura dai residence, gestisce la contabilità, si occupa del commerciale. In quel momento non sa neppure lui quale sia l’occupazione principale, se l’impresa di pulizie o il ruolo di allenatore. A Draguignan, per sedere sulla panchina e guidare la squadra, guadagna 1500 euro al mese: «Non bastavano mai e sapevo bene che ci sarebbero voluti anni prima che avessi potuto vivere solo di calcio».
L’obiettivo di Hervé, in fondo, è quello di costruirsi una carriera come allenatore. Lo affascina più il potere decisionale, coercitivo, la leadership dell’allenatore, che il denaro. Non ne ha mai fatto una questione di soldi. Più avanti negli anni, quando il suo nome sarebbe diventato garanzia di successo, si sarebbe accontentato di soli 50mila euro l’anno per allenare la Costa d’Avorio, purché la sua richiesta modesta gli permettesse di superare, nella lista dei candidati, rivali anche più accreditati.
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Lealtà
Il costante richiamo all’umiltà è uno dei trait d’union della sua narrativa. «Bisogna sempre ricordarsi da dov’è che si viene. Ho passato otto anni ad alzarmi alle 3 del mattino, tutti i giorni, per svuotare dei cassonetti». Mentre la sua piccola impresa cresce, arrivando ad avere quattro impiegati, la sua carriera da allenatore fatica a decollare.
Nel 2002 arriva una svolta inattesa. Pierre Romero è amico anche di Claude Le Roy, l’allenatore che dopo le avventure africane a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, dopo aver fatto l’osservatore per il Milan di Sacchi ed essere stato il direttore tecnico del PSG, è alla ricerca di una nuova sfida ad Oriente. Lo ha appena ingaggiato lo Shanghai Cosco e Le Roy ha bisogno di un assistente. Romero gli fa il nome di Renard, organizza un incontro. Quarantotto ore dopo essersi conosciuti, ricorda Renard, «mi ha chiamato per dirmi: “Prepara i bagagli”. Mia moglie ha chiuso l’azienda per qualche mese, poi abbiamo deciso di venderla perché bisognava dare alla nostra vita una svolta definitiva. Di colpo ho capito che sarebbe potuta durare: ero sicuro di me, volevo diventare allenatore professionista».
Durante il breve periodo in Cina, Renard cerca di imparare il più possibile. Assorbe ogni suggerimento di Le Roy, ne spia le modalità, i rapporti con i calciatori: «Dividevamo almeno un pasto al giorno e parlavamo tutti i giorni d’Africa». Che a Le Roy era rimasta nel cuore, da quando nell’88 aveva portato il Camerun a vincere la Coppa d’Africa. Quando prova a raccontare il calcio africano al suo discepolo, Le Roy non può fare a meno di utilizzare una formula che secondo lui racchiude tutta l’essenza del gioco nel continente nero. Lo definisce “une jouissance permanente”: un orgasmo continuo.
Il ruolo di Renard, da assistente, è semplice ma vitale: è lui che conduce gli allenamenti. Cura la preparazione fisica, cementifica il gruppo. Le Roy è la faccia autorevole, quello che si siede in panchina la domenica.
Le cose, in Cina, non vanno benissimo. L’esperienza si esaurisce in una stagione, che in fin dei conti, però, lascia il segno. Perché è ancora Renard che Le Roy chiama a sé quando l’uomo d’affari inglese Gary Harwood decide, non si capisce quanto per boutade e quanto realmente convinto, di affidare a lui la panchina del Cambridge United, terza serie inglese. In quel frangente Le Roy aveva un contratto come commentatore per Canal+, e forse anche poca voglia di tornare a sedersi in panchina. Per la routine quotidiana del campo sceglie, ancora una volta, Hervé, che diventa, di fatto, il nuovo allenatore dei gialloneri. Sembra quasi che Le Roy si servisse di Renard per fare da parafulmine, più che il collaboratore di cui fidarsi ciecamente.
Quella inglese è un’esperienza terrificante, annichilente: la squadra va malissimo, Hervé si scontra con la barriera della lingua. Si assume tutte le responsabilità di fronte alle sconfitte, davanti ai giornalisti arriva a scusarsi. Pochi mesi più tardi Le Roy abbandona la nave, ammesso che vi fosse mai salito, per accettare l’incarico da DT della Repubblica Democratica del Congo. Renard diventa a tutti gli effetti il primo allenatore ma viene esonerato pochi mesi dopo, dopo 8 sconfitte in 9 partite.
Il ritorno in Francia non è incoraggiante. Dopo un periodo senza squadra accetta di allenare a Cherbourg, in Nationale, ma dopo due stagioni, di fronte a un periodo di crisi, il presidente dà mandato ai giocatori di indire una riunione di spogliatoio. All’ordine del giorno c’è la votazione, ad alzata di mano, della fiducia all’allenatore, che viene esautorato da un ammutinamento in piena regola.
L’Africa
In un’intervista ha dichiarato che «la carriera di un allenatore è fatta di sfide da raccogliere». Una massima scontata, vera per tutti i percorsi professionali, che nella vita di Hervé Renard, però, assume sempre sfumature profonde, definitive. La ponderatezza delle scelte non sembra appartenergli. Ogni passaggio è un salto nel buio.
Prima del 2007 non era mai stato in Africa, neppure in vacanza. Quando Claude Le Roy gli chiede di fargli da assistente nella Coppa d’Africa del 2008, in Ghana, sulla panchina delle Black Star, Hervé non dubita neppure un attimo. «Mi ha dato così tanto, nella vita… Non solo nel calcio. Mi ha aiutato a evolvere come uomo». Parlando di Hervé Renard, Claude Le Roy dice che la lealtà è il suo massimo pregio, ma anche il suo peggior difetto.
L’approccio col calcio africano non è semplice, a primo impatto. Bisogna gestire un capitale umano per il quale ci vuole una sensibilità che trascenda dall’esperienza calcistica. Imparare a convivere con la disorganizzazione e l’approssimazione del sistema, ma anche lottare con i pregiudizi, i cliché, con lo stereotipo dello stregone bianco, che obbedisce a una logica di ribaltamento culturale verticale, post-coloniale.
Il giorno della partita inaugurale Hervé è in campo per seguire il riscaldamento. Piazza i coni per gli esercizi, e alle sue spalle gli addetti alle pulizie del campo li tolgono metodicamente. «Ho attraversato dei momenti difficilissimi all’arrivo in Africa», ricorda, «avevo voglia di lasciar stare. Ho firmato il contratto tre mesi dopo aver cominciato a lavorare, poi lo stipendio non arrivava mai...».
All’indomani della vittoria con la Namibia, Renard si sveglia molto presto. Nella hall dell’albergo trova i fratelli Gyan, Asamoah e Baffour, con le valigie. «Se ne volevano andare, erano in lacrime. La madre era stata aggredita mentre faceva la spesa al mercato, insultata». Per scongiurare il caso intervengono funzionari federali, ministri, addirittura il presidente della repubblica. «Era un affare di Stato, anche se avrei scoperto che non è sorprendente in Africa, il calcio assume dimensioni politiche importanti. Il Presidente gli ha detto, per convincerli a rimanere, che lui doveva sorbirsi insulti alla radio tutti i giorni».
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L’apprendistato di Hervé alla corte di Le Roy in Africa travalica i confini del calcistico. L’insegnamento più grande che il maestro cerca di trasmettere al discepolo è che allenare in certi contesti non è la stessa cosa che allenare in altri. «Gli ho spiegato», ricorda Le Roy «che la buona riuscita del lavoro di allenatore in Africa, o in Asia, dipende da condizioni che non hanno niente a che vedere con il ruolo di allenatore come lo intendiamo in Europa. Se non sei a parte della cultura locale, della geopolitica, della storia del Paese non riuscirai mai a entrare nel cuore della gente. Non basta essere bravi sul campo. Se vai in Congo e non sai niente di Patrice Lumumba o della secessione del Katanga, se vai in Camerun e ignori cosa sia l’UPC o le piogge acide dell’esercito francese durante la guerra di indipendenza, così come se vai a Shanghai e non sai niente delle relazioni sino-giapponesi, non sarai mai uno di successo».
In Renard, evidentemente, Claude Le Roy ha visto il sufficiente livello di apertura all’esterno, di curiosità, lo spessore umano e il carattere che servono per farsi strada sulle panchine africane.
È durante quella Coppa d’Africa che Le Roy lo raccomanda a Kalusha Bwalya, che sta cercando un allenatore cui affidare lo Zambia.
«Fin dall’inizio, quando l’ho seguito in Cina» racconta Renard «ho sempre detto a Claude che non avevo la vocazione di essere un numero due per tutta la vita. In Ghana mi occupavo della preparazione fisica ma guidavo anche le sedute di allenamento, non curavo solo la tattica. I ruoli erano ben definiti, ma Claude delegava tantissimo, mi lasciava molto spazio. È stata una scuola d’eccellenza per me». Al termine della Coppa d’Africa ghanese Hervé firma per lo Zambia. «Il fatto di non poter prendere tutte le scelte era frustrante», confesserà poi.
Bwalya gli affida, oltre alla guida tecnica della Nazionale, anche le chiavi della Nazionale Olimpica, di fatto il serbatoio di giovani necessario a impostare un ciclo. Come assistente, Hervé sceglie Patrice Beaumelle. Si sono conosciuti a un corso d’aggiornamento per tecnici a Clairfontaine, nel 2007, scoprendosi molto simili nelle idee e nella concezione del calcio, e del ruolo di allenatore. Non si separeranno più per tutta la carriera, tranne una piccola parentesi nel 2013 quando Renard accetterà la prima sfida francese, alla guida del Sochaux, e Beaumelle verrà promosso sulla panchina della nazionale dello Zambia. Insieme vinceranno la Coppa d’Africa del 2012 con i “Chipolopolo” ma anche quella del 2015 con la Costa d’Avorio. Hervé Renard sarà il primo, e finora unico, allenatore ad esserci riuscito con due Nazionali diverse. E Beaumelle il primo dei secondi.
Renard e Beaumelle condividono una grammatica calcistica che poggia su pochi, semplici - e solo apparentemente semplicistici - paletti: la coesione, lo spirito di squadra, il lavoro duro, la mutua solidarietà. Una progettualità che è investimento umano prima che tecnico. Un’idea di calcio che in Europa, nella logica dei grandi club, forse può apparire vetusta, ma che in Africa, apparentemente fuori dal tempo, è pragmaticamente l’unica possibile.
Quando la mistica prevarica la tattica
Non è semplice trovare allenatori che cercano di sciogliersi nella propria squadra fino a scomparire come fa Hervé Renard. Il francese non è, come altri colleghi che hanno accettato un incarico nel continente, un avventuriero. In Africa ha scelto di vivere, prima che di lavorare. Non è una goccia d’olio che galleggia sull’acqua: è più una foglia di té che nell’acqua si scioglie, imprimendogli il suo colore, e il suo aroma.
«Sarebbe una mancanza di rispetto dire che sono uno stregone bianco: sono un professionista che cerca di fare al meglio il proprio lavoro», dice. Non ha dogmi, né una filosofia portante. Antepone alle idee il contesto. La sua priorità non è dare un gioco alla squadra: è dargli un’anima, e un motivo per spingersi oltre il massimo dei propri limiti. Il suo piano partita non è improntato su mosse di scacchi, ma su una guerriglia senza quartiere.
Per motivare i giocatori dello Zambia, prima della finale del 2012, non ha insistito sul tasto emotivo della tragedia aerea. Ha semplicemente spiegato che la Costa d’Avorio, una finale, l’aveva già persa. Sarebbe bastato dargli l’impressione, spingerli a pensare, che sarebbe potuto succedere una volta ancora.
Ai calciatori del Marocco, prima della fondamentale sfida di Abidjan, sempre contro la Costa d’Avorio, che avrebbe di fatto deciso quale delle due squadre sarebbe andata ai Mondiali di Russia, ha chiaramente fatto intendere: «Se non lasciate il segno oggi, nessuno si ricorderà di voi domani».
«Hervé sa come guidare un gruppo», dice Claude Le Roy. «E vuole davvero bene ai suoi giocatori». Il che non gli proibisce di instaurare, all’interno dello spogliatoio, un regime di intransigenza che poggia sulla lealtà, sulla trasparenza e sul senso di giustizia. Nessun giocatore si lamenta; nessuno alza la voce, o i tacchi. Renard dice di non accettare ingerenze: «Quando alleno io, comando io».
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Non è un ossessivo. Si definisce «un perfezionista, un insoddisfatto di natura». Però ha imparato a modellarsi, ad adattarsi alle pieghe del contesto. Un insegnamento, l’ennesimo, che gli ha lasciato Le Roy. «Qualsiasi sia l’incarico, devi portare il tuo carattere, la tua passione ed essere sempre te stesso, come coach e come uomo». Ma come si fa ad essere lo stesso uomo quando di fronte hai 23 persone diverse? È controproducente, a volte. Allora Hervé sa farsi 23 volte diverso, in base al background, allo status, anche all’educazione del calciatore. Sa interpretare le diverse sfumature di cultura, abitudini, storie calcistiche. Ci vuole sensibilità, soprattutto, e grande senso della misura, e autocontrollo, per riuscirci.
Renard è uno dei pochi tecnici europei che allena in Africa a non essere caduto nella trappola del mito del buon selvaggio, o nella sua negazione più sprezzante. A volte perde l’autocontrollo, ma sembra farlo comunque per un fine superiore, per mandare un messaggio. Durante le qualificazioni alla Coppa d’Africa 2015, in Sierra Leone, a fine primo tempo la Costa d’Avorio non è riuscita ad andare oltre un pareggio striminzito. Renard è fuori di sé, e nel tunnel che porta agli spogliatoi prende a calci una sedia, distruggendola. Quando la squadra ritorna in campo, ne segna 4.
«Prendo i giocatori e gli dico: assumetevi le vostre responsabilità come io mi assumo le mie. Gli insuccessi non sono mai colpa solo dell’allenatore. Io ho una linea da darvi: potrebbe non piacervi, ma è fatta di duro lavoro e va seguita per forza».
L’essenza più profonda di Hervé Renard e nei comportamenti a bordo campo, nelle urla, nei movimenti scomposti, nell’aggressività dei suoi “sbrocchi” che in francese hanno un nome bellissimo, “coup de sang”, e che Renard ha elevato ad arte meritevole di una compilation su YouTube.
Il coinvolgimento è quello del dodicesimo in campo. Urla come un capo guerriero. Provoca l’avversario, gonfia le piume di fronte alla sfida. A Sochaux si rivolge alla tribuna, lamentandosi dello scarso incitamento. «Cos’è, hai paura?» grida a Drogba durante la finale della Coppa d’Africa. Didier gli fa segno di parlare troppo, ma la faccia di chi ha paura di perdere ai rigori ce l’ha sul serio. Nkausu ha la sfortuna di passargli di fronte: Renard gli grida contro, ad un certo punto lo colpisce con una manata piena nel petto, facendolo indietreggiare. Nkausu non è spaventato né adirato: con una mano gli stringe leggermente la spalla, come a dire «ho capito, hai ragione».
Nella maniera in cui tocca i suoi giocatori, come un amico che se è necessario ti prende a pugni, per il tuo bene, per farti capire dove stai sbagliando, c’è il segreto dell’alchimia che Renard instaura con i suoi giocatori. Il suo personalissimo tocco.
Nemo propheta
«Umanamente parlando, penso di essere un buono. Certe critiche mi toccano profondamente. Mi fa ancora più male se le analizzo a fondo, perché io analizzo a fondo tutto. Mi spaventano i pregiudizi, chi mi giudica a prima vista. Sono biondo, ho i capelli lunghi, pensano sia un presuntuoso».
Anche gli allenatori, così come i giocatori, hanno bisogno di essere inseriti nel contesto giusto per affermarsi. E per Renard il contesto giusto, evidentemente, non è la Francia. Nel suo paese, infatti, non ha mai goduto di un grandissimo rispetto da parte della critica. È stato considerato un reietto, uno che per affermarsi ha preferito calcare palcoscenici meno prestigiosi e per certi versi più “facili”. «Il problema della Francia è che ci sono troppi francesi», ha detto una volta in un’intervista. Forse voleva solo essere una provocazione. Forse uno sfogo snocciolato con troppa veemenza.
Eppure quando è stato scelto per provare a salvare il Sochaux a metà della stagione 2013-14 ha dato dimostrazione che in fondo sarebbe all’altezza di allenare anche in Ligue1. La squadra aveva raccolto solo 7 punti nelle prime 12 partite. Per provare a salvarla, Renard ha scelto di applicare il suo metodo, che poi è l’unico che conosce.
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C’è un documentario di Canal+ che lo segue nelle ore immediatamente precedenti a una partita decisiva in quella stagione, che è anche uno strumento di eccezionale utilità per capire più a fondo Hervé Renard, il suo carattere forgiato dal successo insperato nel 2012 con lo Zambia quanto dalla frustrazione a non riuscire ad imporsi in patria. Sembra un uomo motivato, un professionista sereno ma al tempo stesso tesissimo. Ha preso le redini della squadra a stagione in corso, e con un girone di ritorno strepitoso, con ritmi da Europa League, l’ha portata a giocarsi all’ultima giornata, in casa, una permanenza in Ligue1 che sembrava compromessa prima di Natale.
Le telecamere lo seguono nello spogliatoio. Con i suoi calciatori usa un approccio sempre positivo, sempre propositivo. Si complimenta per quanto fatto fin lì, ma poi comincia ad affondare il colpo: poco prima di entrare in campo tiene un discorso fin troppo motivazionale, che le telecamere registrano dal corridoio di fronte, anche se è come se fossero dentro. Urla ai suoi giocatori che non hanno il diritto di negarsi uno sforzo in più, una possibilità. Ma questa volta non andrà bene: il Sochaux perde 3-0 e retrocede.
«Ce l’avete messa tutta», dice a fine partita, guardando i suoi giocatori negli occhi. Alcuni piangono. «La vita continua», conclude. Non c’è tristezza nella sua voce, solo voglia di mettersi nuovamente in gioco.
L’esperienza di Sochaux ha determinato il crollo definitivo della sua credibilità in Francia, almeno in parte.
Pascal Dupraz, l’allenatore dell’Evian-Thonon che aveva sconfitto il Sochaux nell’ultima partita di quel campionato condannandolo alla retrocessione, due anni più tardi, all’interno di un café, incontrerà Renard per un’intervista. Renard è stato appena licenziato dal Lille, la sua seconda e ultima squadra di Ligue1.
«Come stai?», gli chiede Dupraz.
«Come qualcuno che ha perso il proprio lavoro da qualche settimana e sta cercando di capire come si fa a rimanere nel giro, a non essere tagliato fuori».
Poche settimane dopo sarebbe stato nominato allenatore del Marocco, che avrebbe riportato al Mondiale dopo vent’anni d’assenza; sarebbe tornato a risorgere come la fenice dalle proprie ceneri. Post fata resurgo sembra il motto della sua carriera ciclica. L’esonero da Lille l’ha marcato profondamente soprattutto nella misura in cui non è mai riuscito a capacitarsi di come ci si possa essere arrivati. «È come se stessi correndo una maratona, e dopo 15 kilometri qualcuno si è messo in mezzo alla strada a dire “Guarda, devi fermarti, lascia stare, sei troppo in ritardo”».
I suoi ritmi sono diversi da quelli della Ligue1. Hanno il respiro della progettualità a lunga gittata, della crescita congiunta. Della partecipazione corale. Rifuggono la logica del risultato a tutti i costi, del risultato subito. Alla Francia ha sempre rimproverato, oltre all’incapacità di comprenderlo come allenatore, l’approccio pieno di pregiudizi verso chi ha deciso di costruirsi una carriera in Africa. «Siamo dei vecchi colonizzatori. Quando si va a colonizzare un paese si pensa sempre di essere una razza superiore. Ma è un discorso da uomini piccoli. Darà fastidio a qualcuno? Importa poco».
Nella scala dei valori di Hervé Renard, il pregiudizio è destinato a schiantarsi sempre contro il muro dell’ambizione. Due approcci inconciliabili, antitetici. «Ho viaggiato un pochino… possiamo parlarne, ma qualcuno resterà scioccato. Passo per la strada con una Bentley. Ci sono paesi in cui si dice “Voglio e devo fare di tutto per poter guidare quella macchina, ho quell’ambizione”. E poi ci sono paesi come la Francia in cui si dice “guarda quello là, guarda quel testa di cazzo, chissà che ha fatto per potersela permettere?”».
In Africa, Hervé ha sempre avuto l’impressione che i giocatori che ha allenato nutrissero la sana e ineccepibile ambizione di poter guidare una Bentley per le strade fangose. Si è innamorato del sentimento di cieca lealtà verso i colori di una bandiera, di una maglia, di chi la indossa e di chi ha l’onore e l’onere di metterla in campo, quella squadra. «Nel 2009 dovevamo giocare una partita a Chilabombwe e il ritiro era a Kitwe, sessanta chilometri più in là. Mi ricorderò per sempre delle sciarpe, delle bandiere lungo tutto il tragitto. In Africa la gente che ti critica, quando poi gioca la squadra Nazionale, si riunisce. Possono criticarti in maniera terribile, ma sono lì poi a sostenerti in ogni partita, come se si trattasse di una finale della Coppa del Mondo».
Foto di Fadel Senna / Stringer
La realizzazione (di metà) del sogno
Quando Fouzi Lekjaa, il Presidente della federcalcio marocchina, si è trovato a dover scegliere l’allenatore che avrebbe potuto e saputo riportare la Nazionale ai Mondiali, non ha neppure avuto bisogno di consultare una lista di potenziali candidati. Voleva solo Hervé Renard.
Il Marocco, fino ad allora, era schiavo di una voglia di vincere compulsiva, impossibile per via dello stato di guerra perenne all’interno dello spogliatoio. Renard ha saputo portare ordine, rispetto reciproco: ha costruito una squadra dall’ossatura inscalfibile, e ci ha innestato calciatori talentuosi alla ricerca dell’affermazione in Nazionale. Ha gestito una situazione delicata con Ziyech, forse il talento più luminoso del quale può disporre, dapprima escludendolo dalla lista dei convocati (ad esempio nella Coppa d’Africa del Gabon dell’anno scorso), poi reinserendolo con entusiasmo, consegnandogli un posto da titolare. Oggi, per come ha gestito la situazione, ammette di essere stato un po’ troppo leggero, e fa mea culpa.
L’aspetto che ha voluto fosse chiaro fin da subito, in ogni caso, è stato che far parte di una squadra significa qualcosa di molto più complesso e profondo che scendere in campo insieme ad altri 10 colleghi, con cinque che si accomodano in panchina. Ha costruito, in un contesto disastrato, un senso di collettività. Uno spirito di gruppo che non è facile, o scontato, da creare: «Guardo otto partite a weekend, per essere aggiornato su tutti i miei calciatori. Gli invio Whatsapp, gli faccio complimenti se giocano bene, cerco di capire se sono infortunati… Ne seguo 120 così».
A giugno condurrà i Leoni d’Atlas in Russia. Poi, finiti i Mondiali, chissà. In un’intervista rilasciata a L’Équipe ha detto che il legame con l’Africa è più che professionale: è personale, emotivo: «Qua sono rispettato. Mi sento molto fiero quando guardo quei sorrisi, quegli sguardi… L’Africa è il posto in cui mi piace stare, e in cui credo che finirò la mia vita».
Ci si chiede se nella memoria collettiva il suo nome risuonerà solo come un’eco sorda alla parola Africa, o se il valore e l’esperienza di Renard verranno ricordate come quelle di qualsiasi altro allenatore. Il rischio è quello di considerare i successi di Hervé Renard come meno di valore perché arrivati in Africa. Come se fosse più facile vincere in Africa che altrove. Come se Renard potesse vincere solo in Africa.
Intanto, lo scorso 11 Novembre rimarrà nella sua storia personale come il giorno in cui ha riportato il Marocco a un Mondiale. Non succedeva da vent’anni. In quello stesso giorno, due anni prima, il Lille lo aveva esonerato e il calcio francese bocciato.
Se stiamo cercando una risposta sul significato profondo dei luoghi e delle date nella costruzione di una mistica di Hervé Renard, non può restare soltanto una suggestiva coincidenza.