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Hillsborough, la tragedia che cambiò il calcio inglese
16 apr 2019
Il disastro di Hillsborough e il lungo percorso per ottenere verità e giustizia.
(articolo)
21 min
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Il 15 aprile 1989 faceva caldo e c’era il sole nella solitamente grigia e piovosa Sheffield. Doveva essere un giorno di festa, alle ore 15 sul campo neutro di Hillsborough si disputava la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, revival della sfida dell’anno precedente, tra due club allora dominatori della scena nazionale. In palio c’era la finale a Wembley contro la vincente dell’altra semifinale, tra Everton e Norwich City.

Alle 15 il fischio dell’arbitro Ray Lewis avviò l’incontro. Sei minuti più tardi, un nuovo fischio lo interruppe. Tutto fermo, non si gioca più. Stava succedendo qualcosa nella Leppings Lane, il settore riservato ai tifosi del Liverpool. Alcuni di loro si erano riversati in campo, venendo però ricacciati indietro dalla polizia. Ma non si trattava di un’invasione, né tantomeno di hooligan, solo del disperato tentativo di fuggire da un massacro in divenire fatto di corpi ammassati, schiacciati e soffocati.

Ad innescare la tragedia fu un errore della polizia: costretto a smaltire la calca ai tornelli della Leppings Lane diventata ormai insostenibile, il sovraintendente capo David Duckenfield ordinò alle 14.52 l’apertura del Gate C, un grosso cancello posto davanti al tunnel che sfociava al centro della curva. Era l’inizio della fine: vi entrarono più di 2mila spettatori, trovandosi stipati in uno spazio troppo angusto per contenerli tutti, bloccati davanti dalle alte recinzioni in ferro a protezione del campo e dietro dalla folla ignara che premeva per entrare. Mentre i canti si trasformavano in urla, molti iniziarono ad essere schiacciati e soffocati nel tunnel e addosso alle inferriate, altri cercarono una via di salvezza arrampicandosi sulle recinzioni per entrare nelle adiacenti gabbie in cui era divisa la curva, facendosi tirare su a braccia nella sovrastante West Stand oppure urlando invano agli ufficiali a bordo campo di aprire i cancelli.

Il bilancio fu tremendo: quel giorno morirono in 94, un ragazzo spirò pochi giorni più tardi in ospedale e a un altro ancora quattro anni dopo venne staccata la macchina che lo teneva in vita. Si era appena consumato il più grave disastro in uno stadio inglese. Da lì in poi nulla sarebbe stato più come prima, e il Taylor Report fornì il manuale delle istruzioni per la ricostruzione di un sistema calcistico giunto al collasso.

Le fondamenta della tragedia

Hillsborough fu il quarto disastro calcistico inglese dal 1945 dopo quelli di Burnden Park, Ibrox e Bradford, il terzo dovuto all’imperizia nel controllo della folla, ma il primo ad essere attribuito a qualcosa di più della semplice sfortuna. Non esiste termine più calzante per definire quella che rimane a tutti gli effetti una strage annunciata.

Le basi per la materializzazione del disastro furono poste all’inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con l’innalzamento esagerato di gabbie e barriere per impedire incidenti e invasioni di campo. Nonostante alcune precedenti inchieste governative avessero ribadito la necessità di scongiurare situazioni di sovraffollamento fissando il limite massimo di spettatori ammessi in ciascuna porzione dello stadio, evitando l’eccessiva proliferazione delle recinzioni e rimuovendo i tunnel di accesso alle terrace, la strategia di controllo del pubblico nel decennio più caldo della storia dell’hooliganismo era basata quasi esclusivamente sull’isolamento preventivo delle tifoserie. Tutto quello che riguardava l’attività di policing durante una partita di calcio, insomma, era visto solo attraverso la lente di potenziali disordini della folla – anche a costo di tralasciare tutto il resto, come l’attenzione verso un impianto privo di una segnaletica adeguata con il certificato di sicurezza rimasto fermo al 1979 e mai più aggiornato.

C’erano poi altre cause remote, stavolta legate a decisioni avventate e soprattutto sbagliate. Come quella che portò alle dimissioni dell’esperto sovrintendente capo Brian Mole il 25 marzo 1989 e al suo trasferimento, per volontà dell’allora commissario capo della polizia del South Yorkshire Peter Wright, a Barnsley. Mole era stato elogiato per la sua capacità di gestione dell’ordine pubblico a Hillsborough, e nelle motivazioni ufficiali i vertici della polizia scrissero che lo spostamento era mirato a favorire lo sviluppo della sua carriera professionale.

La sensazione, in realtà, è che si trattò di una punizione per uno scherzo a una giovane recluta fatto da due agenti posti sotto la sua responsabilità. Era una sera di ottobre del 1988, quando la vittima venne trascinata a terra e ammanettata dietro la schiena. Gli venne puntata una pistola alla testa e premuto il grilletto. Niente sparo, però. Solo il flash di una macchina fotografica. Era tutto finto, una pratica abbastanza comune che si rivelò essere una specie di rito di iniziazione cui erano soliti partecipare diversi altri poliziotti. Ma lo spavento e l’umiliazione subiti dalla vittima richiesero una consulenza psicologica per combattere lo stress e portarono alla sospensione di cinque colleghi. Altri quattro furono costretti a dimettersi e sette vennero rimproverati, retrocessi di grado e multati.

Con l’allontanamento di Mole, la polizia si era appena privata del suo uomo più esperto a soli ventuno giorni dalla semifinale. Il suo sostituto, il nuovo sovrintendente capo David Duckenfield, assunse il comando senza quasi nessuna esperienza. Il primo grande errore era stato compiuto: affidare un compito di grande importanza a un esordiente alle prime armi che non aveva mai rivestito il ruolo di match commander di una partita di calcio.

Foto di Pascal Rondeau / Getty Images.

Com’era Hillsborough

Hillsborough era ritenuto dalla Football Association uno dei migliori impianti d’Inghilterra, ma già in passato era stato teatro di eventi controversi dovute alla sua difficile conformazione: il piazzale antistante i soli sette tornelli della Leppings Lane presentava l’effetto collo di bottiglia con il conseguente pericolo di sovraffollamento, circostanza peraltro già verificatisi all’interno della curva nel 1981 durante la semifinale di FA Cup tra Tottenham Hotspur e Wolverhampton che aveva portato al ferimento di 38 persone.

Nel 1987, invece, Mole decise di ritardare l’inizio della gara tra Leeds United e Coventry City per permettere a tutti gli spettatori – giunti in evidente ritardo rispetto alle previsioni – di prendere posto in sicurezza sulle tribune, consapevole dell’incapacità dei tornelli di accogliere i 10.100 tifosi ospitabili nella Leppings Lane.

L’anno dopo Liverpool e Nottingham Forest si affrontarono in semifinale, ma nell’Operational Order non c’era alcun piano di emergenza per far fronte ad eventuali ritardi dei tifosi. In quel caso fu deciso di chiudere l'accesso al tunnel che convogliava al centro del settore una volta appurato il sovraffollamento delle gabbie centrali, e i tifosi vennero reindirizzati agli spicchi laterali della Leppings Lane. Un accorgimento molto intelligente, che tuttavia solo un anno più tardi non venne replicato.

Nell’Operational Order del 15 aprile 1989 non fu fornito alcun dettaglio in merito alle procedure di evacuazione, né tantomeno qualora si fossero verificati episodi di sovraffollamento sulle terrace, ignorando completamente i due precedenti sinistri. Quando poi la tragedia era ancora in corso di svolgimento, cominciò la lunga scia di bugie e depistaggi che vide dapprima Duckenfield riferire di tifosi del Liverpool che avrebbero sfondato il Gate C per riversarsi in massa in un settore già strapieno, poi Wright rivedere questa versione e precisare, nella conferenza stampa convocata la sera stessa, che il Gate C era stato aperto su indicazione della polizia per il pericolo di morte dovuto all’affollamento fuori dalla Leppings Lane.

È tutta colpa dei tifosi!

L’ipotesi del “forced gate” veniva sostituita dalla “conspiracy theory” secondo la quale i tifosi del Liverpool ubriachi e senza biglietto avrebbero deliberatamente pianificato di arrivare cinque minuti prima dell’inizio della partita, obbligando la polizia ad aprire il Gate C per diluire la calca. La mistificazione della realtà aveva già impedito di prestare cure tempestive ai feriti, tanto da ritardare la richiesta dell’invio di ambulanze e negare in un primo momento ai pompieri e ai medici di entrare nello stadio: la convinzione che fosse solo un problema di hooliganismo aveva preso il sopravvento. Questa fu anche la linea mantenuta dai notiziari televisivi la sera stessa, e poi ulteriormente enfatizzata dai media nei giorni seguenti. Praticamente tutti, influenzati dalle parole di Duckenfield e Wright, assunsero posizioni di accusa e critica nei confronti dei tifosi.

Il peggio arrivò il 19 aprile, quando il Sun ricevette un’informazione dalla Whites Press Agency – un’agenzia di stampa vicina a fonti governative che aveva raccolto le affermazioni di quattro superiori di polizia, del capo dell’ambulanza del South Yorkshire e di Irvine Patnick, parlamentare locale del partito conservatore – e pubblicò un’edizione dal titolo “The Truth”. La verità che si sventolava non era relativa alle responsabilità del dramma, bensì al comportamento di presunti quanto inesistenti hooligan. Si parlava di tifosi del Liverpool ubriachi, violenti e colpevoli di azioni oltraggiose: alcuni avrebbero nella fattispecie picchiato i poliziotti che praticavano la respirazione bocca a bocca e sfilato i portafogli dalle tasche delle vittime. Nulla di tutto questo corrispondeva al vero.

Poi fu la volta dell’iter processuale avviato per chiarire ruoli e responsabilità. Partì uno scaricabarile tra polizia e Sheffield Wednesday, club titolare dell’impianto, su quale delle due associazioni avesse il dovere di garantire la salvaguardia del pubblico, che si risolse con il pagamento dei danni dilazionato tra le rispettive compagnie assicurative e senza alcuna ammissione di colpa, in modo da non pregiudicare la posizione di agenti eventualmente posti sotto indagine.

In precedenza il Taylor Interim Report aveva scagionato i tifosi e attribuito le responsabilità alla polizia, chiedendone in maniera implicita l’incriminazione. La stessa polizia aveva ritenuto l’indagine del giudice ingiusta e difettosa, convinta della bontà del proprio operato, mentre i familiari erano venuti a conoscenza che i propri cari avevano perso la vita nella calca, ma volevano sapere se si sarebbe potuto fare qualcos’altro per salvarli una volta estratti dalle gabbie e conoscere quando, dove e come si erano verificati i decessi. Venne fissato l’inizio di una inquest – termine con cui si indica nei Paesi subordinati al sistema giuridico della common law l’indagine giudiziaria per scoprire la causa della morte di una persona – che, una volta avviata, sarebbe stata subito rinviata finché il Director of Public Prosecutions (DPP) non avesse preso una decisione riguardo eventuali incriminazioni – pratica che avviene laddove ci sia il sospetto che un’azione criminale abbia innescato la causa della morte. In seguito della vicenda se ne sarebbe occupata la coroner’s court, giurisdizione speciale dove un coroner (pubblico ufficiale con funzioni giudiziarie) indaga sui casi di morte violenta o innaturale, improvvisa, sospetta o avvenuta durante la detenzione coadiuvato da una giuria. La coroner’s court si configura soltanto come un accertamento dei fatti e non è incaricata di attribuire le colpe, ma può influenzare la decisione della giuria fornendo una serie di possibili verdetti, la cui scelta deve essere in linea con la causa medica della morte. I più frequenti sono “suicidio”, “morte accidentale” e “omicidio”.

Ma nel caso di Hillsborough le cose procedettero in maniera diversa. Con un mossa senza precedenti, il coroner Stefan Popper riprese anzitempo la inquest e la divise in due parti: una fase iniziale dal 18 aprile al 4 maggio 1990 composta da una serie di otto udienze preliminari al giorno, dette anche mini-inchieste, che sarebbe poi stata nuovamente rinviata in attesa della decisione del DPP e infine ripresa per completare la fase finale a carattere generale dove analizzare le circostanze del disastro. A difesa della sua iniziativa, il coroner disse che si trattava di un modo per aiutare le famiglie attraverso la pubblicazione di contenuti altrimenti limitati. In ogni udienza preliminare un’equipe di patologi spiegò la causa di morte delle singole vittime e diffuse le analisi relative al livello di alcol nel sangue, prelevato da ognuna di loro per rafforzare la tesi della polizia: la tragedia generata da hooligan ubriachi entrati in ritardo e senza biglietto.

L’enfasi con cui vennero lette le rilevazioni influenzò sin dall’inizio la giuria, persuadendola che l’ubriachezza fosse stata un fattore dominante, e molte famiglie rimasero insoddisfatte per essersi viste negate l’opportunità di visionare integralmente i documenti del disastro ed analizzare le contingenze precise in cui i loro cari avevano perso la vita. In un clima inquisitorio e senza possibilità di ribattere le conclusioni del coroner, bastava che una vittima avesse bevuto per essere additata come un assassino dei propri concittadini.

Quando il 30 agosto il DPP decise che non c’erano sufficienti prove per avviare procedure legali contro qualsiasi organizzazione (polizia del South Yorkshire, Sheffield Wednesday, consiglio comunale e ingegneri alla sicurezza) senza fornire né chiarimenti, né la divulgazione delle prove, la fase generale dell’inquest rimaneva l’ultima possibilità per stabilire come i 95 tifosi avessero perso la vita. Le audizioni ripresero il 19 novembre al municipio di Sheffield e durarono fino al 28 marzo 1991. E qui, di nuovo, ecco un altro colpo di scena. Popper scelse di circoscrivere tutti i decessi entro le 15.15 imponendo quello che fu definito «3.15 p.m. cut-off point».

Si stabiliva che le testimonianze successive a quell’orario non sarebbero state prese in considerazione. Considerato che le prime autolettighe della St. John Ambulance erano già sul posto per prestare il loro regolare servizio durante la gara, secondo Popper non sarebbe stato possibile fare nient’altro per salvare ulteriori vite umane. La morte sarebbe sopraggiunta in maniera inevitabile per asfissia compressiva da schiacciamento, che avrebbe provocato danni cerebrali irreversibili nel giro di quattro, massimo sei minuti dall’interruzione della partita. Una simile conclusione impedì di considerare le precise circostanze attorno a ciascuna morte, negando al tempo stesso alle famiglie delle vittime di mettere in dubbio le questioni lasciate irrisolte dalle mini-inchieste.

A questo punto la scelta ruotava attorno al verdetto di omicidio colposo o morte accidentale. La discriminante nei confronti di Duckenfield era rappresentata dall’aver aperto il Gate C senza chiudere il tunnel di accesso alla Leppings Lane per una questione di negligenza oppure di avventatezza. Alle 12.33 del 26 marzo 1991 la giuria del tribunale di Sheffield si ritirò per discutere il verdetto, emanato due giorni dopo alle ore 12.08: «morte accidentale». Non c’era alcun responsabile da perseguire penalmente.

Le macerie

Duckenfield venne sottoposto a provvedimenti interni ma nel novembre 1991 si ritirò dal servizio all’età di soli 46 anni con una diagnosi di depressione e disturbo da stress post-traumatico, bloccando ogni azione disciplinare nei suoi confronti. A questo punto cominciò la battaglia dei familiari contro una giustizia che sembrava disinteressata ad individuare e punire i colpevoli.

Il 6 aprile 1993 i legali di sei famiglie fecero appello all’Alta Corte di Giustizia di Londra e chiesero una revisione giudiziaria, giudicando irregolare e inadeguata l’inchiesta condotta due anni prima. La loro istanza fu però respinta il 5 novembre dal giudice McCowan che assicurò il corretto svolgimento dell’inchiesta di Popper. Nemmeno il libro No Last Rights, pubblicato nel 1995 dall’Hillsborough Project – un team di autori formato da Phil Scraton, Ann Jemphrey e Sheila Coleman – e finanziato dal comune di Liverpool che mise in luce le carenze di un sistema giudiziario mal equipaggiato nell’affrontare casi di morte in occasioni controverse – denunciando le lacune della inquest e la sproporzione tra i poteri dei coroner e le loro reali competenze – riuscì a capovolgere la situazione.

Ci pensò la televisione a dare uno scossone grazie all’enorme scalpore provocato il 5 dicembre 1996 dalla visione su ITV del documentario Hillsborough, scritto e diretto dal regista Jimmy McGovern all’indomani della morte dell’ultima vittima, il 22enne Tony Bland, spirato il 3 marzo 1993 dopo quasi quattro anni di stato vegetativo. Il nuovo governo laburista guidato da Tony Blair, eletto primo ministro nel maggio 1997, chiese al giudice Stuart Smith la revisione della inquest. L’indagine assunse il nome di Stuart Smith Scrutiny e aveva come fine la raccolta di nuove prove (new evidence) per verificare se ci fossero gli estremi per annullare il precedente verdetto, avviare una nuova inchiesta e procedere con azioni penali o provvedimenti disciplinari.

Si trattava, tuttavia, dell’esame soltanto di quelle deposizioni non disponibili o non considerate in precedenza, che andavano quindi ad escludere le prove raccolte dal DPP, dal giudice Taylor, dal Procuratore Generale e dalla polizia del South Yorkshire. Durante gli incontri con il giudice, le famiglie ebbero per la prima volta accesso alle cartelle cliniche dei defunti, scoprendo come le dichiarazioni degli agenti furono in larga parte modificate e falsificate. Lo scrutinio fu presentato al Segretario di Stato per gli Affari Interni Jack Straw, che elogiò il lavoro di Stuart-Smith e lo ritenne eseguito in maniera esauriente, con imparzialità e trasparenza, in grado di far emergere conclusioni oggettive. In pratica, non c’era alcuna motivazione per annullare il precedente verdetto e iniziare una nuova inquest. Pur avendo riconosciuto la manomissione delle deposizioni, l’establishment e la giustizia non volevano saperne di fare luce sul mare di menzogne che stavano infangando la memoria di così tante innocenti persone. Di fatto lo Stuart-Smith Scrutiny divenne uno strumento per consolidare il meccanismo perverso e fallace della giustizia britannica che stava spacciando per verità una delle più grandi ingiustizie mai avvenute nel Regno Unito.

Nel 1998 i parenti delle vittime si aggrapparono all’accusa privata, al termine della quale, due anni dopo, la giuria fu incapace di raggiungere un verdetto su Duckenfield. Fallito anche questo estremo tentativo, non rimaneva che chiedere la diffusione totale di tutti i documenti relativi alla strage – una pratica che in Inghilterra è a totale discrezione del governo e solitamente avviene non prima di trent’anni dalla loro compilazione. Tutta la vicenda intorno a Hillsborough era diventata una metafora della società britannica, un microcosmo di un modo di operare fatto di ingiustizie, insabbiamenti e collusioni. Il suo lascito andò infatti ben oltre la sola dimensione sportiva. Fu, al contrario, il prologo di una brutta storia che abbracciò il gioco, la politica e la società inglese in un’epoca in cui trovare nei tifosi il capro espiatorio costituiva la scorciatoia perfetta per risolvere qualsiasi problema legato ad incidenti occorsi negli stadi.

Foto di Pascal Rondeau / Getty Images.

Ci sarebbe voluto ancora del tempo, ma alla fine gli sforzi, la tenacia e la perseveranza di chi aveva dedicato anima e corpo per chiedere verità e giustizia sarebbero stati ripagati. Il 15 aprile 2009, nel giorno della celebrazione del ventennale del disastro, ad Anfield c’erano 30mila persone. Il ministro dei media, dello cultura e dello sport Andy Burnham iniziò il suo discorso in qualità di rappresentante del governo laburista. Poco dopo aver preso la parola, venne interrotto dai fischi e dal vociare rabbioso di alcuni tifosi. In migliaia si alzarono in piedi e intonarono a più riprese il coro “Justice for the 96”, seguito da un lungo applauso liberatorio. Burnham, inizialmente spaesato, fece a più riprese cenno di sì con la testa – come a voler indicare la volontà di prendersi a cuore una simile richiesta. Il suo impegno si concretizzò con la proposta, poi autorizzata dal governo presieduto da Gordon Brown, di divulgare nella loro interezza tutti i documenti relativi a Hillsborough fino a quel momento inaccessibili.

Una commissione indipendente, ribattezzata Hillsborough Independent Panel, avrebbe raccolto le proprie conclusioni all’interno di un fascicolo da consegnare prima alle famiglie delle vittime e poi al pubblico. L’attività del Panel culminò con il momento che segnò la fine di un’attesa durata 23 anni: il 12 settembre 2012 venne pubblicato un testo di 395 pagine basato sull’analisi di 450.000 documenti raccolti da 80 diverse organizzazioni nell’arco di diciotto mesi. Tanti i dettagli agghiaccianti emersi e in parte già noti: la morte per tutte le 96 vittime non fu immediata, 41 vite avrebbero potuto essere salvate se si fosse intervenuto anche dopo il 3.15 pm cut-off point e i tifosi del Liverpool non furono in alcun modo responsabili del disastro. Venne dimostrato il lavoro sporco degli agenti che modificarono 164 memorie scritte, di cui 116 riguardanti testimonianze negative di testimoni oculari il loro operato, si appurarono l’inadeguatezza dello stadio, gli errori di gestione della polizia le responsabilità dei soccorsi tardivi. Le famiglie delle vittime avevano ottenuto la verità, adesso reclamavano giustizia.

Il clamore suscitato dall’indagine arrivò fino in Parlamento, con tanto di scuse del Premier David Cameron per «la doppia ingiustizia che le famiglie delle 96 vittime hanno dovuto subire: l’incapacità di proteggere le vite dei loro cari e l’imperdonabile attesa per arrivare alla verità». Il 19 dicembre 2012 il verdetto di «morte accidentale» fu annullato presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra. Il Ministro degli Interni Theresa May ordinò l’apertura di una nuova e definitiva criminal inquiry denominata Operation Resolve, cominciata il 31 marzo 2014 presso la Corte di Giustizia di Warrington. L’11 marzo 2015 Duckenfield ammise per la prima volta, dopo quasi ventisei anni di menzogne e silenzio, di aver mentito affermando che i cancelli vennero forzati. Riconobbe di essere stato una persona inesperta e inadatta a ricoprire quel ruolo, di aver avuto una minima conoscenza di Hillsborough e di non averne mai visto il certificato di sicurezza.

Il 5 gennaio 2016 la corte venne rinviata e il coroner John Goldring si ritirò per completare i preparativi del fascicolo da presentare alla giuria, in base al quale si sarebbe poi arrivati al verdetto. Nella successiva udienza del 25 gennaio Goldring ricapitolò le questioni relative al disastro di Hillsborough, dagli eventi accaduti quel giorno alla gestione dell’emergenza, passando per la sicurezza dello stadio e la preparazione della partita. Disse anche che l’inchiesta aveva lo scopo di rivelare l’identità delle vittime e individuare quando, dove e soprattutto come erano morte. Se la causa materiale dei decessi era stata la calca nelle gabbie centrali della Leppings Lane, bisognava determinare le situazioni che avevano portato alle singole morti. Per farlo, il coroner mostrò una serie di 14 domande che un team di avvocati aveva preparato sulla base delle conclusioni raggiunte dai medici. Ciascuna era incentrata su «questioni importanti e tra loro separate», e le risposte avrebbero dovuto riflettere le conclusioni della giuria sulle «cause e circostanze del disastro».

Il 6 aprile Goldring terminò la compilazione del fascicolo contenente le prove e gli argomenti principali raccolti durante le udienze e li espose alla giuria, composta da sei donne e tre uomini, che quello stesso giorno si ritirò per discutere il verdetto sulla base delle 14 domande – inerenti le questioni anticipate dal coroner tre mesi prima – cui rispondere sì o no, che riguardavano quanto accaduto il 15 aprile 1989 a Hillsborough; il monitoraggio della Leppings Lane e dei tornelli prima e durante la partita, l’accusa di unlawfully killing rivolta a Duckenfield, il comportamento dei tifosi, la progettazione e i certificati di sicurezza dello stadio, la condotta dello Sheffield Wednesday, della ditta ingegneristica, le risposte all’emergenza e il ruolo dei soccorsi.

Il momento tanto atteso giunse nella mattinata del 26 aprile, quando venne finalmente resa giustizia alle vittime e ai loro familiari. La giuria emise il verdetto di unlawfully killing che scagionò definitivamente i tifosi del Liverpool e trasferì le colpe sulla polizia. Con una maggioranza di sette voti a due, venne riconosciuto che Duckenfield violò il suo dovere di diligenza nei confronti degli spettatori che assistevano alla partita, causando la morte di alcuni di loro a causa di una «grave negligenza». Per la prima volta un tribunale riconosceva una verità sotto gli occhi di tutti che per quasi trent’anni era stata offuscata da una coltre di bugie, depistaggi e false accuse. Il verdetto dimostrò le mancanze delle forze dell’ordine e dei soccorsi nella gestione dell’ordine pubblico e della valutazione del pericolo, la pericolosità di un impianto decadente e le carenze della ditta ingegneristica Eastwood and Partners nel segnalare tali insicurezze.

Il comportamento dei tifosi non fu quindi in alcun modo causa del disastro. Accertata la presenza di un’azione criminale scatenante il disastro, Duckenfield e altre cinque persone vennero rinviate a giudizio. Il processo, cominciato a gennaio 2019 presso la corte di Preston, è durato dieci settimane. Ad inizio aprile l’allora segretario dello Sheffield Wednesday Graham Mackrell è stato dichiarato colpevole per non essersi sincerato della presenza di sufficienti tornelli per accogliere gli spettatori e prevenire la formazione della ressa all’esterno della Leppings Lane – condizione che porterà alla sua sentenza di condanna il prossimo maggio. La giuria, invece, non è stata in grado di raggiungere un verdetto su Duckenfield. Al momento l’iter giudiziario attorno a Hillsborough può dirsi concluso, ma il Crime Prosecution Service – organismo autonomo e indipendente che persegue i reati su cui sono state condotte indagini dalla polizia e da altre organizzazioni investigative – proverà la via di un nuovo processo a settembre davanti a una nuova giuria.

Saranno passati oltre trent’anni dal giorno che cambiò per sempre le vite dei familiari delle vittime e quelle dei sopravvissuti.

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