Gli uomini che possono fregiarsi di vedere il proprio nome associato a una giocata particolare o a una specifica caratteristica tecnica, nel calcio, sono, in percentuale, una fetta irrisoria. La loro è un’elitarietà che suscita spirito di emulazione e suggerisce rimandi trasversali per epoca e contesti. Oltre, ovviamente, a essere motore propulsivo di alcune delle più terribili ingiustizie e sottovalutazioni.
Per legare indissolubilmente il tuo cognome a un movimento, a un’epifania, devi essere mediamente bravissimo in ogni aspetto, e poi soprattutto in uno: il minus di Aljaksandr Hleb, forse, è di non essere stato, dopotutto, così bravo, o almeno di non esserlo stato soprattutto in qualcosa; anche se nel movimento con il quale si libera dei marcatori a centrocampo, piroettando su se stesso, dribblando nello stretto e innescando la marcia rapida della ripartenza, si nasconde in maniera esaustiva la sua essenza.
Sarà la Carmen di Bizet in sottofondo, sarà la faccia seria e concentrata, ma non riesco proprio a capire perché non esista una giocata che, distinguendosi per eleganza ed efficacia, non sia stata battezzata «ripartenza alla Hleb», oppure «creare superiorità à la Hleb».
Assurgere una GIF animata a bignami di un calciatore è un gesto sempre coraggioso e tranciante, per certi versi politico: però credo che non esista immagine migliore, per rappresentare Hleb-in-a-Vine, di questa azione individuale ai limiti dell’egoismo, eppure sinfonica, col respiro corale di una Cavalcata delle Valchirie, sei secondi di fotogrammi estrapolati dalla finale di Champions League del 2006 giocata a Parigi, quando a contendersi la Coppa dalle Grandi Orecchie c’erano l’ultimo Barcellona di Rijkaard e l’ultimo Arsenal a essere arrivato vicino all’obiettivo tanto così, che così tanto, davvero, finora mai più.
Danzando su un fazzoletto coi bordi di seta Hleb si libera, dopo avergli strappato la palla dai piedi, di Ronaldinho e Deco: poi si invola verso la metà campo avversaria, con la falcata leggiadra di un ballerino di danza classica eppure dirompente come una slavina, chiede la triangolazione fin quando Giovanni van Bronckhorst, con una spallata di mestiere, gli fa perdere l’equilibrio. Cosa sarebbe successo se Gio non lo avesse fatto cadere? Sarebbe entrato in area? Avrebbe tirato? Segnato? L’Arsenal avrebbe vinto la sua prima Champions League?
La significatività della sintassi di quest’azione risiede nel fatto che ogni sintagma è allacciato a un hyperlink che conduce a siti distanti tra loro eppure interconnessi, ognuno dei quali finisce per portarti alla homepage del Barcellona, la destinazione finale di ogni biforcazione nella traiettoria di Hleb. L’Arsenal, quella finale, la perderà, anche in maniera abbastanza drammatica. Hleb, l’edizione successiva, la vincerà proprio con la maglia del Barcellona, anche se osservando la finale dalla tribuna.
Il giocatore dei “se”
Oggi Hleb gioca con il Bate Borisov campione di Bielorussia: non è il capitano, forse non ne è neppure l’uomo più rappresentativo, ma si troverà di fronte per due volte, dopo aver affrontato la Roma, il Barcellona inserito nel suo stesso gruppo della Champions: ovvero la squadra che l’ha prima sconfitto, poi concupito, rapito, deluso, rimasticato e sputato via, come un boccone indigesto, come una pietanza che abbiamo ordinato al ristorante pakistano sotto casa perché aveva un nome affascinante, ma si è rivelata immangiabile.
Guardare vecchi filmati di giocate di Hleb e farsi domande non solo è lecito, ma probabilmente sono due operazioni inscindibili: è quasi impossibile non fantasticare, perché il bielorusso è il più grande what if del calcio europeo degli ultimi 10 anni.
Sono nato quattordici giorni prima di Hleb: all’epoca del disastro di Černobyl’ il più grande impatto che il disastro nucleare ha avuto sulla mia vita è stata un’esenzione sine die dal consumo di frutta e verdura per paura del contagio radioattivo. Hleb, invece, ha dovuto salutare il padre, spedito dall’esercito sovietico - la versione, forse edulcorata, che traspare da alcune interviste è che ci sia andato come volontario - a prestare soccorsi nella cittadina non lontana dal confine con la Bielorussia, anche se all’epoca di confini non ne esistevano. «Quando mio padre è tornato dall’Ucraina ha voluto che giocassi a calcio, calcio e nient’altro», ha raccontato in un’intervista molto ambigua a So Foot. Aljaksandr ha abbandonato il nuoto e la ginnastica, e dieci anni dopo era uno dei più promettenti ragazzi del vivaio della Dinamo Minsk, la squadra della polizia. La squadra per la quale faceva il tifo il padre.
L’educazione sentimentale di un what if assume connotati più marcati quando ti capita di nascere in una nazione che non ti permette di emergere prepotentemente perché non sa fornirti un contesto competitivo, compagni forti con i quali vincere, o come si dice die trying: il picco più alto della gioventù calcistica di Hleb non contempla Mondiali adolescenziali o tornei internazionali (cosa sarebbe successo se fosse nato a San Pietroburgo? O a Kiev?), anche se praticamente da solo è stato capace di portare la minuscola Bielorussia alle semifinali dei Giochi Mondiali della Gioventù del 1998, a Mosca. Non esistono testimonianze video reperibili in internet, però la leggenda che si dipana da ogni intervista a conoscenti e connazionali su quegli anni ruota attorno a un presunto gol segnato contro il Messico dopo aver saltato cinque avversari.
Hleb non è stato così onnipotente da riuscire a trascinare la sua Nazionale almeno a un Europeo: pure l’Islanda, per scrivere la sua Storia, ha dovuto attendere che si formasse un’intera generazione. Questi non sono più tempi adeguati all’epopea del Deus Ex Machina. L’unico primato, un po’ sbiadito invero, che gli è stato possibile raggiungere è quello della miglior giocata della partita, peraltro in gare che la Bielorussa, inesorabilmente, ha sempre perso.
Tipo questa contro la Turchia.
L’ex compagno di squadra Alexandre Fedarovich, portiere del Bate nella stagione 1999-2000, quella dell’esordio di Hleb tra i professionisti, ha detto: «Era un po’ troppo sicuro di lui, non aveva la serietà che ci si dovrebbe aspettare da un ragazzo all’esordio». Poi ha raccontato di quando in Polonia, durante il primo precampionato, Aljaksandr è rimasto in hotel anziché approfittare della libera uscita: «Quando siamo rientrati lo abbiamo trovato in piscina a farsi il bagno con una polacca e una che poteva essere addirittura una slovena».
L’esordio europeo del Bate Borisov nella stagione 1999-2000: in casa, contro la Lokomotiv Mosca. Finirà 1-7. Il primo in piedi da destra è Vitali Kutuzov; il terzo Aljaksandr Hleb.
Dopo una sola stagione in patria, Hleb si trasferisce nel cuore pulsante del calcio che conta: «Avevo molti contatti, ma ho accettato [lo Stoccarda, in Bundesliga, NdA] perché mio padre era un patito della Mannschaft, aveva fatto il servizio militare in Germania. Sognava la loro maglia, ma all’epoca era complicato procurarsene una in Russia. Puttana l’Unione Sovietica, ripeteva».
Fantasista generoso
Insieme a lui, a Stoccarda, approda anche il fratello Vyaaslaŭ, una carriera stramba tra Cina, Bielorussia e Grecia dopo l’acme in Germania, tra Stoccarda e Amburgo: era la prima volta che si allontanavano da casa, pranzavano ogni giorno al McDonald’s, non sapevano destreggiarsi. In più ad Aljaksandr nessuno passava mai la palla, lo chiamavano Rouski, Felix Magath non lo vedeva per niente: l’unico a prenderselo sotto l’ala protettiva è stato Krasimir Balakov, il fantasista che aveva trascinato la Bulgaria al quarto posto nel Mondiale del 1994.
KB ai tempi dello Sporting Lisbona, prima del suo trasferimento in Germania. Facile intuire l’imprinting del maestro, in ogni caso.
Magath, quando decide di impiegarlo e di non declassarlo inviandolo alla squadra B (dove ha comunque modo di conoscere e forgiare l’intesa con Kevin Kuranyi, insieme al quale sfiorerà la vittoria della Bundesliga nel 2003), piazza Hleb in quell’area grigia tra centrocampo e attacco deputata alla fantasia e all’invenzione, ma spesso lo usa anche da ala pura, sulla fascia destra.
È leggerino, ma si capisce subito che è un giocatore dotato di una visione di gioco limpida e soprattutto generosa, quel tipo di generosità che ti mette nelle condizioni di esercitare l’altruismo alle più somme vette.
Pure in caduta fornisce un passaggio brillante, facendo apparire semplice - e intenzionale - qualcosa che sembra essere tutto il contrario. Non si incaponisce, non è né dà l’impressione di essere un giocatore testardo: la passa sempre a un compagno meglio piazzato di lui, e anche quando sfodera un gesto che nei piedi di altri sarebbe apparso derisorio e offensivo lo fa con la discrezione e la straordinarietà di un bambino indaco.
Quando si invola sembra uno sciatore che salta i paletti, con una grazia e un’eleganza che avrebbe fatto innamorare chiunque, figuriamoci Arsène Wenger.
«Henry, Pires, Ljungberg, Bergkamp… Quando ho letto i nomi della rosa ho detto al mio agente OK, è là che voglio giocare». Nella maniera in cui lo racconta sembra quasi esserci un po’ di spocchia: come se a Stoccarda non avesse avuto il tempo di sentir mai parlare di questa squadra inglese con le maglie rosse dalle maniche bianche, come se non ne conoscesse i giocatori, o meglio non sapesse che giocavano là.
Hleb arriva ai Gunners nel 2005, trovandosi catapultato in una squadra che per dieci undicesimi è quella degli Invincibles: ai suoi figli potrà raccontare di aver solcato il campo di Highbury (uno tra gli ultimi ad averne avuto la fortuna) e di essere stato compagno di squadra di Dennis Bergkamp, che proprio in quella stagione celebrerà il suo addio al calcio.
«A Stoccarda mi potevo permettere di dribblare ogni volta che ne avevo voglia. All’Arsenal andavano tutti troppo più veloci», ha raccontato a So Foot. «Bisognava sapere a chi passare la palla prima ancora di riceverla. Ero completamente perso, cazzo. Poi Wenger mi ha detto Alex, se ti ho scelto è perché sei in grado. Hai diritto a un periodo di adattamento, non inquietarti».
Londra non è Stoccarda.
Il velo di drama che avvolge i primi mesi difficili di Hleb in Inghilterra è polveroso e un po’ trito: i compagni che lo ignorano, l’allenatore lungimirante che gli concede un credito di pazienza quasi illimitato, i giornalisti che lo stuzzicano e i tifosi esigenti che sfoderano tutta l’intolleranza di questa terra. «In un articolo hanno scritto che in Bielorussia si gira ancora con le carriole, e che la gente vive in mezzo alle pozzanghere: mi ha mandato al manicomio».
Sarebbe stato bello (e funzionale a una narrativa di redenzione) se Hleb avesse sovvertito ogni aspettativa nei suoi confronti, dissipato i dubbi, se da protagonista, dopo essersi conquistato uno spazio negli automatismi della squadra, avesse vinto la Champions League alla sua prima stagione.
Un malinconico play-by-play di Hleb e Pires, le ali del 4-2-3-1 schierato da Wenger per contrastare il Barcellona nella finale di Parigi. «Ancora non riesco a capire come abbiamo fatto a perdere quella partita. È il peggior ricordo della mia carriera, siamo stati sfortunati: se non avesse piovuto non l’avremmo mai persa, quella finale».
Dei suoi anni di permanenza all’Arsenal, forse la squadra che giocava il più bel calcio d’Inghilterra, ma che ha finito per non vincere praticamente niente, rimarranno per sempre impressi gli affondi sulla fascia, i passaggi al millimetro per gli attaccanti davanti alla porta sguarnita, quella maniera signorile di liberarsi dalla sfida con l’aplomb di chi se ne disinteressa pur non rifuggendone. E i colori blaugrana, che imparerà a conoscere come la sua nemesi.
Gli errori
Nel 2009 accetta di trasferirsi in Spagna, perché con le nemesi, si sa, l’unica cosa da fare è scenderci a patti e berci un tè insieme. «Ma cazzo, tu cosa avresti fatto al posto mio? Messi, Henry, Eto’o… Mi faceva sognare, m’ero fomentato. Un vero cazzo di errore», dice all’intervistatore di So Foot, come a volersi scusare.
Pep Guardiola, che si era appena insediato sulla panchina, aveva dato il via a una specie di repulisti: ceduti Ronaldinho e Deco, così come il giovane Giovani; Bojan era stato di fatto escluso dal gruppo, umiliato. Hleb, insieme ai due ex-sivigliani Keita e Dani Alves, al canterano Sergio Busquets e Piqué di ritorno dal Manchester United è tra gli innesti più importanti della squadra. Ritrova Henry, si fa ospitare a casa dell’ex capitano dell’Arsenal, insieme imparano a conoscere Pep. Guardiola è famoso per le direttive imperative camuffate da consigli: invita Hleb a prendere corsi di spagnolo per avere l’opportunità di integrarsi meglio, ma lui passa il tempo a giocare ad Assassin’s Creed sulla Playstation.
Forse non mi sono spiegato bene.
Pep non ha la pazienza e la pacatezza di Wenger. Il risultato è che di Hleb con la maglia a quadranti blu e granata, in quella stagione trionfale culminata con la conquista della Champions League nella finale dell’Olimpico: su le mani chi serba un ricordo nitido. «Ho solo detto che non è il migliore», dice oggi riferendosi a Guardiola. «E lo penso ancora. È un buon allenatore, il palmares conta relativamente; un buon allenatore e niente più. Mourinho e Ferguson, quelli sì che sono due leggende».
Mi sono fatto l’idea che, se mai dovessi incontrarlo di persona, forse mi guarderei bene dal portare il discorso sui binari dell’esperienza catalana, o su Guardiola; probabilmente non lo darebbe troppo a vedere, arriccerebbe le labbra aprendo le fosse sulle guance, gli occhi si farebbero più brillanti perché questa è la reazione che gli ho visto abbozzare ogni volta; ma ecco, non mi pare abbia troppa voglia di parlarne, in generale.
E anche in questa intervista di quasi un’ora, della quale ovviamente non si capisce niente a meno che non parliate il russo bianco, mi pare che a un certo punto i toni si facciano dimessi, quasi tristi, inevitabile risultato di una cattiveria come quella che gli adoperano gli intervistatori indossando le maglie del Barça, proprio davanti ai suoi occhi, tu quoque.
Scorrendo velocemente i fotogrammi troviamo sorrisi, momenti riflessivi, facce annoiate; il momento più interessante, però, resta sempre quello al minuto 29:29.
«Sono negli anni migliori della mia carriera, non voglio spendere questi anni su una panchina. Il Bayern Monaco è un club speciale, il loro interesse per me è un’onore, sono deliziato. Il Bayern è una delle migliori squadre al mondo», dice dopo la prima deludentissima stagione in Spagna, e le conseguenti voci di trasferimento. L’idillio tra Hleb e il Barça non era mai sbocciato: già durante un’intervista raccolta nel mezzo di una tournée precampionato dei culé in America, ancora prima che il giornalista gli chiedesse se casomai un giorno gli sarebbe piaciuto giocare in MLS, era stato lo stesso bielorusso ad anticipare «magari, un giorno, a fine carriera»: un maybe che era suonato tipo «ma magari succede domani!».
Ancora prima di svernare in qualche eldorado ricchissimo, però, a Hleb si presenta l’opportunità di continuare a marcare il segno nel Primo Mondo calcistico. L’Inter, in cambio di Zlatan obiettivo dei blaugrana, chiede al Barça come contropartite tecniche Eto’o e Aljaksandr. «Non avevo voglia di essere una cazzo di moneta di scambio. E poi il contratto non era così vantaggioso». L’affare sembra saltare, e i sentimenti portano l’ala ad accettare, come destinazione in prestito, lo Stoccarda che lo ha lanciato. «Non è stato il Barça, alla fine, il più grande errore della mia carriera. La peggiore cazzata l’ho fatta salendo su quell’aereo».
Poco prima di imbarcarsi per la Germania, riceve una chiamata di Mourinho che in buona sostanza gli conferma d’aver parlato con Moratti e di avere ottenuto per lui lo stesso ingaggio che percepisce a Barcellona. «Quando ho attaccato mi sono detto: "Ok, ora arrivo a Stoccarda, spiego che c’è stato un contrattempo, che avevano già trovato per me un ingaggio altrove, che in realtà non avrei potuto firmare". Ma poi all’aeroporto c’erano il presidente, l’allenatore, i tifosi che mi erano venuti ad accogliere. Non ho potuto dire di no, e ho messo la firma sul più grande errore della mia carriera».
Col senno di poi, tra le cose che Hleb avrebbe fatto meglio a non fare durante la sua carriera, in ordine sparso, ci sono: mollare l’Arsenal; farlo per soldi; scegliere Barcellona e schiodare le tende appena possibile, alla prima difficoltà; rifiutare l’offerta dell’Inter futura artefice del triplete; farlo per soldi; tornare a Stoccarda; litigare con Pep; rilasciare un’intervista, durante il secondo prestito, stavolta al Birmingham City, in cui chiede scherzando ma non troppo se casomai non fosse stato meglio mettere una maglia dei Gunners piuttosto che una dei Blues sullo sfondo; fingere ingenuità e falso distacco mentre pronunci la frase «hai visto mai che non vogliano riprendermi». Tante, troppe, per un calciatore evanescente come una stella filante, che dopo il Barça ha cambiato sette squadre in sei anni, facendo perdere le sue tracce, rendendo difficile il racconto del periplo della sua carriera.
Sergei Gurenko, un passato in Italia con la Roma dello Scudetto (anche se durante i festeggiamenti era in prestito al Saragozza), il Parma e il Piacenza, da capitano della Nazionale lo ha accusato di essere un pessimo esempio, di farsi accompagnare con un’auto privata quando tutti i membri della squadra viaggiano in autobus, di essere, in buona sostanza, una primadonna, un narciso, che antepone i propri interessi a quelli del collettivo, con naturali ripercussioni sulla sua incisività nell’economia delle partite.
«Neppure Messi è decisivo in Nazionale quanto nel Barcellona», si è giustificato Hleb. Cosa ci dice di lui una frase come questa? Che si autostima moltissimo, tanto da paragonarsi alla pulga? O l’ha volutamente sparata grossa per gonfiare in maniera parossistica la polemica? Che giocatore sarebbe diventato, Hleb, se non avesse sbagliato tutte queste volte? Quale concezione di lui avrebbero i compagni, i tifosi, io che ne sto scrivendo?
Un aspetto che mi ha molto intristito del reportage di So Foot su Aljaksandr, e forse in generale della sua storia, è questo dover rincorrere a tutti i costi la sfuggevolezza della sua figura, per comprenderlo almeno un po’: chi è veramente Hleb? O meglio: chi è diventato, inanellando scelte sbagliate? Lui racconta la sua esperienza turca, a cavallo degli ultimi due anni, con l’approccio del viveur più che del calciatore professionista. «Gli allenatori turchi sono idioti», dice, «ci fanno fare dei giri di campo e delle messe a punto tattiche, ma del gioco non c’è traccia». Racconta di essere rimasto colpito dalle luci della città di Konya, dove’è di stanza il Konyaspor, ma di essere quasi caduto in depressione quando ha scoperto che tutto quel luccichio erano solo le insegne dei Kebab, che si immaginava un posto esotico e bellissimo e si è invece trovato intrappolato in un contesto troppo riluttante e inospitale. Di aver scelto il Gençlerbirliği a gennaio, il club più importante di Ankara, perché là ci sono i negozi e collegamenti aerei giornalieri con Minsk, dove - mentre segue dei corsi di diritto per corrispondenza, che credevo fosse qualcosa caduto in disuso come la pennicillina e il crystal-ball - ha messo su «un business» con il fratello, non si capisce però bene cosa, qualcosa che sembra gli «porterà big money».
Contro la Roma, domani sera, probabilmente non giocherà per via di un leggero infortunio. Ma conta di recuperare per la prossima sfida del 20 ottobre, quando a Borisov arriverà il Barça.
Solo allora Aljaksandr potrà affrontare ancora una volta, forse una delle ultime, il suo passato, la sua nemesi, il buco nero che l’ha risucchiato e che sputandolo indietro ha finito per lasciarlo senza nulla, o con tutto se stesso, nudo e col fremito del rimpianto a rimbalzargli sulle guance scavate, su quel sorriso amabile da stronzo, o da contadino della steppa, o entrambi. Perché chi sia Aljaksandr Hleb non lo sa praticamente nessuno, neppure lui. E chi sarebbe potuto essere, poi, figuriamoci.