Mi ricordo benissimo com’eravamo distrutti, spalmati sul set di divani grande come una portaerei a fare zapping. Finché su uno dei canali di news abbiamo trovato la diretta dei funerali. Si tenevano nella cattedrale di Hannover, strapiena di gente.
«Guarda, quello è Sievers!» ha detto Kai, che stava per metà fuori dalla porta-finestra a fumare. Jojo non apriva bocca dal giorno prima, da quando aveva saputo che Robert Enke si era tolto la vita. Io trovavo la cosa parecchio inquietante.
«Dài, spegnete» ha detto Ulf. «Chi ha il telecomando?».
Ci siamo messi a cercare a tentoni tra i cuscini del divano. A un certo punto Jojo ha allungato il braccio e ha spento il televisore, poi è rimasto a fissare lo schermo nero con la mani raccolte in grembo e il telecomando posato sull’uccello. Io e Ulf ci siamo scambiati un’occhiata.
«Andiamoci anche noi» ha detto Jojo.
La faccia cupa di Ulf esprimeva bene i pensieri che passavano anche dentro la mia testa. Ha chiesto a Jojo se era sicuro.
«Cioè,» ha detto «ok, Enke era il migliore e tutto quanto, e questa storia è proprio una merda, troppo triste, anche a me viene quasi da piangere, ma sei sicuro che sia davvero una buona idea?».
«È la cosa giusta» ha risposto Jojo, e si è voltato verso di noi.
Kai era sparito un momento fuori a spegnere la sigaretta, ma aveva sentito tutto lo stesso.
Rientrando ha battuto le mani e ha detto: «Benissimo, allora si va».
Jojo ha girato la testa di soprassalto. Il movimento più veloce che gli avevo visto compiere negli ultimi due giorni, in cui aveva avuto solo reazioni rallentate tipo robot. Kai ha ricambiato lo sguardo di Jojo, ma la sua faccia non aveva la stessa gravità della mia o di quella di Ulf. Ha sollevato le sopracciglia, ha sorriso a Jojo, e con la coda dell’occhio ho visto che anche Jojo gli ha sorriso. Come tante altre volte ho pensato che era pazzesco, riusciva sempre di far reagire la gente come voleva lui. È la magia personale di Kai. Anche se in certi casi la parola magia suona totalmente gay, qui ci azzecca in pieno. Quel tipo è un concentrato di carisma. Senza se e senza ma. Uno sbruffone arrogante, certo, però con un cazzo di ascendente da lasciarti di merda.
Io e Ulf non potevamo certo dire di no, e così ci siamo ficcati tutti nella familiare di Ulf. Se l’era comprata perfino prima della casa. Quando ancora non c’era in vista nemmeno un moccioso, ma a giudicare da come si comportava o dagli acquisti che faceva, in pratica gli mancava solo la tazza con la scritta il papà più bravo del mondo o un’altra stronzata del genere.
Così abbiamo lasciato l’inferno dei nuovi quartieri residenziali di Garbsen, siamo andati in centro e abbiamo mollato la familiare nell’autosilo dietro alla stazione. Io e Kai siamo passati a prenderci ancora una birra all’interno. Dalla cassa vedevamo Ulf e Jojo in piedi fuori dal negozio. Jojo ciondolava nervoso da un piede all’altro, e appena abbiamo pagato è partito a razzo davanti a tutti. Siamo passati sotto il culo del cavallo del re, nel piazzale davanti alla stazione, popolato soprattutto da viaggiatori con i trolley a cui non fregava un accidente di quel che stava succedendo in città, e a quel punto l’umore generale è andato a farsi fottere. Il Kröpcke era pieno di gente. Quasi tutti muniti almeno di una sciarpa rossa. Molti in divisa completa del 96. Con tanto di maglia, berretto, striscioni e bandiere. Tantissimi si erano portati dietro candele e mazzi di fiori. Sembrava tutto così irreale. Non avevo mai visto niente del genere. Una specie di flashmob di tifosi del 96 che, come a un appuntamento al buio, aspettavano in nervoso silenzio l’arrivo della partner. Esattamente come farebbe un qualunque abitante di Hannover. Incontrandosi all’orologio del Kröpcke o sotto il culo del cavallo davanti alla stazione.
«Torno subito» ha detto Jojo tirando fuori il portafoglio.
«E adesso che cazzo combina?» ho chiesto agli altri.
Lo abbiamo guardato infilarsi nella folla di occhi rivolti in basso e fermarsi davanti a un venditore ambulante.
«Farà mica sul serio, eh?» ha chiesto Ulf.
«Ma tu guarda che schifo» ho detto io. Non mi riferivo a Jojo, ma a quella faccia di merda che si era appeso al collo un banchetto di candele e le smerciava ai tifosi in lutto.
«Ragazzi,» ho cominciato, e già mi sentivo il prurito nelle mani «non sapete la voglia che ho di andare lì a spaccare la faccia a quel succhiacazzi».
Ulf ha buttato lì una cosa a caso per trattenermi, ma tanto non avevo veramente intenzione di andare a rifare nuovo quel tizio. Anche se se lo meritava. Per sicurezza però mi sono impresso nella mente il suo viso, casomai mi fosse capitato di rincontrarlo per strada.
Jojo è tornato con quattro candele rosse; coi soldi che gli ha lasciato poteva quasi comprarci una corona di fiori con la scritta. Ce ne ha messa in mano una per uno e abbiamo aspettato che il corteo funebre partisse per lo stadio. Non mi ricordo più come avevamo saputo del corteo, cioè, che ci sarebbe stato un corteo, ma ad Hannover e dintorni era la notizia del giorno. Di sicuro l’avevano pubblicato sui giornali, e alle edicole e alle casse dei supermercati non si parlava d’altro.
Poco dopo, infatti, è partita una gigantesca parata di tifosi del 96, che ha tagliato tutta la città. Noi ci siamo accodati alla folla, tenendoci ai margini. Mentre Jojo faceva come gli altri e camminava in silenzio davanti a noi, io per qualche ragione non potevo e non volevo conformarmi a quello stato d’animo. Perciò ho passato gran parte del tempo a sparare cazzate con Ulf e Kai. Non smettevo di stupirmi che Jojo si fosse lasciato incantare da quella roba delle onoranze funebri. Di per sé tutto giusto eccetera, ma credo che se io mi fossi fatto prendere come Jojo, probabilmente non avrei retto. Da qualche parte nella testa mi girava già un po’ il pensiero di Joel.
Quando siamo arrivati all’ingresso nord dello stadio, dove c’è lo store dell’Hannover 96, mi è passata subito la voglia. Non riuscivi neanche a portare la sigaretta alla bocca per fare un tiro senza sfregare la brace contro la schiena di quello davanti. È il motivo per cui evito di restare più dello stretto necessario in posti come la stazione, il sovrappasso pedonale o le vie dei negozi in centro. Tutta quella marea di gente. Il pigia pigia. È anche una delle ragioni per cui la faccenda degli ultrà non è roba per me. Stare lì in piedi in curva a urlare a squarciagola e a ingollare la broda annacquata dello stadio è una gran rottura di palle. Se almeno non ci fossero tutti quei coglioni e quelle mezze tacche, in mezzo ai pochi tipi in gamba che puoi trovare in curva. I sentimenti che provavo da bambino a un certo punto si sono esauriti, credo. Come la soggezione rispettosa per lo stadio e la curva, dove comandavano e spadroneggiavano quelli come mio zio. La colpa deve essere stata di quella cazzo di commercializzazione. Anche se tutti lo chiamano ancora stadio della Bassa Sassonia, per dire, ogni tot di anni si presenta un’azienda nuova che compra i diritti e ci mette sopra il suo nome, e un altro pezzo di tradizione se ne va a puttane. Ma di sicuro è stato ancora più decisivo entrare a un certo punto a far parte dei più vecchi del blocco e ritrovarsi circondato da quelle mezzeseghe del ceto medio che trovano il coraggio di fare i duri solo in curva, quando sono protetti da transenne e servizio d’ordine.
Ovunque ti giravi: folla. Gente che piangeva, che si abbracciava. Come non bastasse ecco pure i giornalisti, che mi hanno fatto venire subito da sboccare. Tutta la faccenda era da vomito. Ho calato il cappuccio della giacca a vento sopra la faccia e tirato su la cerniera fino al mento.
Kai ha detto ad alta voce quello che stavo pensando: «Oh, gente, qui tra tutta la pula e la stampa che c’è mi si stringe il culo».
Voleva essere una battuta, ma la verità è che non riusciva a riderne neanche lui. Si è calcato il berretto sulla zucca fino a far sparire le sopracciglia sotto la visiera.
Ulf ha chiamato Jojo cercando di prenderlo per le spalle. Ma lui deve aver capito che Ulf voleva costringerlo a voltarsi e con un sesto senso alla Jackie Chan ha incassato le spalle.
«Aspettate solo un attimo» ha detto, e si è tuffato come un’anguilla nel mare del corteo. Grazie ai ricci, che all’epoca erano ancora più folti, siamo riusciti a seguirlo con lo sguardo per un bel pezzo mentre serpeggiava tra le spalle della gente. Dopo un po’ è sparito alla vista, perfino a quella di Ulf che con la sua pelata lucida svettava come una torre sopra la distesa di teste.
Così abbiamo aspettato che Jojo tornasse dopo aver fatto quello che aveva in mente fin dall’inizio. Però, siccome ormai anche Ulf aveva raggiunto il limite, eravamo usciti definitivamente dal gregge. Lo abbiamo aspettato sulla Robert-Enke-Straße, che a quel tempo era ancora un tratto dell’Arthur-Menge-Ufer, guardando le diapositive di Enke che la birreria Nordkurve proiettava su alcuni schermi dall’altra parte della strada.
«Il miglior portiere che abbiamo mai avuto» ha commentato Ulf con le braccia incrociate.
«Insieme a Sievers, vuoi dire» lo ha corretto Kai scaracchiando lì di fianco senza preoccuparsi della gente che passava.
«Certo,» ho aggiunto io con una sigaretta fra le labbra «Sievers era fortissimo sulla linea. Ai tempi il migliore, ma quanto a con- trollo dell’area...» e ho fatto un gesto con la mano per dire «così così». «Mille volte meglio Enke. E non solo in quello. È stato il miglior portiere in assoluto della Germania. Una calma come nessun altro e dei riflessi che gli altri neanche si sognavano. Manco Superman, perdio».
«E poi non era un fighetto testa di cazzo come quasi tutti i professionisti di oggi» ha aggiunto Ulf.
Abbiamo annuito tutti insieme, e a un certo punto mi è scappato fuori un «grande uomo» senza che volessi dirlo davvero.
«Triste, cazzo» ha sospirato Ulf.
Jojo ci ha raggiunti mentre Kai stava ritornando dalla Nordkurve con tre bicchieri di plastica pieni di birra. Dallo sguardo che aveva e dalle narici dilatate, come se si fosse appena scaccolato, ho capito che al cesso della birreria non aveva soltanto pisciato. Kai si è messo a distribuire i bicchieri, ha visto Jojo e ne ha offerto uno anche lui.
«Tieni questo, vado a prenderne un altro».
«Naa, lascia perdere. Bevila tu» Jojo gli ha restituito la birra. «Voglio andare via. Ce ne andiamo?».
Mentre gli stavamo ancora chiedendo che cosa gli fosse preso, lui già era partito in quarta, ciondolando le braccia. Lo abbiamo rincorso, lui ha rallentato quel tanto perché potessimo raggiungerlo, ha tirato fuori il telefonino e ci ha mostrato una foto che aveva scattato alle migliaia di candele e mazzi di fiori. Una distesa che sembrava allungarsi per centinaia di metri fuori dallo stadio, un’unica massa indistinta di punti luminosi.
Ho cercato di indagare perché Jojo volesse squagliarsela così alla svelta. Per stargli dietro a quel passo, la birra traboccava fuori dal bicchiere di plastica molle, mi scorreva sulle dita e mi colava sui calzoni.
«Può darsi» mi ha spiegato Jojo «che mi sia chinato un attimo a posare la candela. Può darsi che nel farlo mi sia venuto in mente Joel. E può darsi che mi siano anche scappate due lacrime. E può darsi, ma è solo un’ipotesi, che abbia pestato di brutto un cazzo di fotografo che pensava che quella poteva essere una bella foto». Io e Kai ci siamo bloccati dallo stupore, e per tornare al suo fianco abbiamo dovuto fare due salti in avanti.
«Hai fatto cosa?» ha chiesto Kai senza riuscire a trattenere una vocina acuta di entusiasmo.
«Quello che ho appena detto. Dopo mi sono buttato in fretta nel casino e ho preso il largo. Prima che qualcuno potesse rendersi conto di cos’era successo».
Credo che Kai volesse dargli una pacca sulla schiena, ma senza dire nulla gli ho fatto capire che era meglio lasciar perdere.
Così abbiamo scarpinato a zigzag per il centro, scegliendo sempre le vie più strette. A turno ci mettevamo d’accordo su chi doveva girarsi a guardare indietro, ma ovviamente non c’era mai nessuno che ci seguiva. C’è una circospezione giustificata, che può anche diventare paranoia e non per questo è meno giustificata, e c’è la semplice inesperienza. Quella che in un certo qual modo avevamo noi. Devo ammetterlo. Come se in quella bolgia qualcuno avesse potuto trovarci, o anche solo cominciare a cercarci.
Nel viaggio di ritorno mi ero seduto sul sedile posteriore insieme a Jojo. Lui aveva guardato tutto il tempo fuori dal finestrino. L’aria fredda di inizio inverno entrava sibilando dalla fessura abbassata e gli agitava furiosamente i ricci. Avrei anche potuto guardare da un’altra parte, invece per qualche ragione non volevo. Quel vorticare di capelli mi faceva ammattire.
Gli ho chiesto se andava tutto bene, a voce bassa di modo che magari Ulf e Kai davanti non sentissero. Kai aveva messo su un cd masterizzato di dubstep pesante. Almeno non eravamo costretti a sopportarlo a un volume eccessivo, grazie al fatto che Ulf poteva regolarlo direttamente dal volante.
«Sì,» ha risposto senza guardarmi «sì. Sai...» ma poi non ha aggiunto altro.
Ho riflettuto su quello che avrei potuto dire. Quando serve non ho mai niente da dire, porca merda. Non ci riesco neanche oggi. Articolare i miei sentimenti, come dice Manuela. Se ci provo non mi viene in mente nulla, mi si blocca il cervello e al posto di uscirmi qualcosa di sensato mi sale la rabbia. Stranamente, però, in quel momento non è successo. Se avessi potuto, mi sarei fatto tipo teletrasportare lontano da quell’auto, ma cazzo, ho pensato, Jojo è un amico, e questo vuol dire qualcosa di più che cazzeggiare e alcolizzarsi insieme.
Stavo diventando sempre più impaziente, e se Jojo non avesse detto qualcosa, scommetto che nel giro di poco mi sarebbe salita la rabbia come al solito. Di colpo, però, lui si è sporto in avanti e ha infilato la testa tra i sedili anteriori. Guardando dritto fuori dal parabrezza, ha parlato forte perché tutti lo sentissero.
«Voglio andarci».
«Dove?» ha chiesto Kai.
La musica si è abbassata. Nello specchietto vedevo Ulf che ogni tanto guardava dietro.
«Al passaggio a livello. Non dovete venire per forza anche voi». «’spetta un attimo, bloccati. Di che cazzo stai parlando?». Appena ha detto passaggio a livello io ho capito tutto, ma non ho fiatato. Niente da fare.
«Là dove si è ammazzato».
«Chi?» ha chiesto Kai voltandosi un attimo indietro, forse per assicurarsi che Jojo non fosse diventato matto. Che non avesse tipo gli occhi di pazzo.
«Enke».
La familiare ha avuto un sussulto e ha lanciato un grido di dolore quando nella curva Ulf ha inserito la marcia sbagliata.
«Scusa se te lo dico così, Jojo, ma...» e lì Kai ha alzato la voce «ci stai ancora con la testa o cosa?».
Jojo si è buttato di colpo indietro contro lo schienale. Non aveva lo sguardo da pazzo. Quello no. Però era stranamente calmo e concentrato. Non saprei più tanto bene. In ogni caso ho trovato di nuovo la cosa parecchio inquietante.
E così eccoci là. In culo ai lupi. Nel cuore della notte. C’era un buio pesto. I fanali della familiare erano l’unica fonte luminosa nei paraggi. Le luci più vicine che si vedevano erano a qualche chilometro di distanza. Forse un paese nei dintorni di Neustadt. Seguivamo una provinciale che a sua volta seguiva grossomodo la ferrovia. O perlomeno ci sembrava di essere ancora nelle vicinanze dei binari, perché ogni tanto nel buio si distinguevano due nastri che tagliavano quelli che dovevano essere campi e prati. A un certo punto siamo entrati in un bosco. Ormai nessuno apriva bocca da un pezzo, fatta eccezione per i lamenti sempre più esasperati di Ulf. Beh, e anche per le indicazioni di Jojo, che faceva svoltare Ulf un po’ di qua e un po’ di là, a naso. Da una provinciale senza nome a un’altra. Quando siamo usciti dal bosco Jojo ha allungato il collo per controllare se da qualche parte ci fossero ancora i binari, e a quel punto li abbiamo visti tutti. Una serie di fari che si fondevano insieme in un unico cono di luce sfrangiato. A qualche centinaio di metri sulla nostra sinistra. In mezzo al nulla. C’era anche qualche lampeggiante blu che radeva la distesa dei campi con muti movimenti circolari.
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