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Breve storia dell’hooliganismo
15 gen 2021
Dalle sue prime apparizioni fino ai giorni nostri.
(articolo)
26 min
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Il Cambridge Dictionary definisce hooligan «una persona violenta che combatte o provoca danni in luoghi pubblici», indicando nell’hooliganismo la manifestazione di questo comportamento. Sebbene l’etimologia rimanga incerta, è possibile che derivi dall’irlandese houlihan, cognome di una immaginaria famiglia di accaniti bevitori menzionata in alcuni canti popolari e fumetti del XIX secolo.

Il suo primo utilizzo risale all’aprile 1894, in occasione del processo al diciannovenne Charles Clarke per l’aggressione a un agente di polizia. Il quotidiano londinese Daily News descrisse l’imputato come «il capo di una banda di giovani nota con il nome Hooligan Boys». A partire dall’agosto 1898, in seguito alla morte di un ragazzo in uno scontro tra gang, la parola hooligan divenne sempre più popolare e frequente nella stampa inglese. Seppur manchino inizialmente riferimenti specifici al calcio, dagli anni Sessanta in poi questa correlazione diventerà un'abitudine intrinseca al gioco.

Le origini

Una simile associazione affonda le sue radici alla fine dell’Ottocento, dopo la fondazione della Football Association (FA) e la successiva legalizzazione del professionismo nel 1885. Proprio in quell’anno si registrò il primo caso documentato di violenza da stadio al termine dell’amichevole tra Preston North End e Aston Villa, vinta dai padroni di casa per 5-0. Le squadre furono assaltate con bastoni, pietre, calci e pugni da tifosi impazziti che le cronache dell’epoca definirono «teppisti urlanti» con una efferatezza tale da lasciare a terra incosciente un giocatore del Preston. Nel 1886 l’hooliganismo travalicò i confini del campo da gioco. Ad essere protagonisti furono nuovamente i sostenitori del Preston, coinvolti in una rissa alla stazione ferroviaria con i rivali del Queens Park. Veniva inaugurata, seppur in una forma ancora embrionale, la prima fase del football hooliganism – inteso come la violenza competitiva e reciproca tra gruppi diversi di sostenitori socialmente organizzati – contraddistinta da scazzottate sporadiche e spontanee rivolte prevalentemente contro arbitri e giocatori.

Malgrado manchino dati accurati circa la frequenza di simili avvenimenti, pare che gli stessi non fossero così inusuali nell’Inghilterra prebellica. Un report dello studioso John Hutchinson sottolineava che «tumulti, azioni indisciplinate, brutalità, aggressioni e vandalismo sembrano essere stati un modello consolidato, ma non necessariamente dominante, nella condotta della folla alle partite di calcio almeno a partire dal 1870». Di fatto, sin dalla sua invenzione, non è mai esistito un periodo nella storia del gioco in cui non fosse presente la violenza.

Lo scenario storico ebbe un ruolo cruciale: era l’epoca dei grandi cambiamenti introdotti dalla seconda rivoluzione industriale che andarono a modificare profondamente gli stili di vita della classe operaia. La cosiddetta working class, per cui il concetto di forza rivestiva un ruolo centrale e quello di violenza era moralmente accettato, intravide nel calcio il mezzo ideale per evadere dalla quotidianità – oltre a scorgervi un’affinità con i concetti di destrezza, controllo e potenza tipici del lavoro di fabbrica.

Nel libro The roots of football hooliganism: an historical and sociological study, i sociologi Eric Dunning, Patrick Murphy e John Williams hanno provato a rintracciare le cause di simili comportamenti. Una di queste dipendeva direttamente dagli sviluppi delle partite: capitava, infatti, che i tifosi sfogassero la propria rabbia compiendo invasioni di campo e attaccando i giocatori poiché delusi dalle loro prestazioni oppure scagliandosi direttamente contro l’arbitro quando ritenevano di essere stati svantaggiati dalla sua direzione. Convinti di aver speso inutilmente quel poco denaro guadagnato con tanto sforzo, causare tafferugli rappresentava la maniera più semplice per superare una simile frustrazione. Un’altra causa era invece legata a quei sensi di eccitazione, mascolinità e rivalità espressi dal gioco che le bande giovanili di età vittoriana assunsero come pretesti per scontrarsi contro gruppi rivali, trasferendo sulle gradinate i linguaggi e i comportamenti della strada.

Foto di Pascal Parrot/Sygma

Le intemperanze del pubblico calarono nel periodo compreso tra le due guerre, anche per via dell’incorporazione negli stadi dei ceti più abbienti, che iniziarono ad appassionarsi a questo sport, intendendolo come una sorta di distrazione per dimenticare gli orrori del conflitto. L’hooliganismo ebbe un brusco calo – i registri della FA parlano di 71 episodi annotati tra il 1921 e il 1939 (poco meno di quattro per stagione) – e negli anni del dopoguerra diversi giornali elogiarono a più riprese il comportamento del pubblico nelle finali di FA Cup.

L’avvento delle sottoculture giovanili

Questo modello del tifoso "perbene" resistette però solo fino alla metà degli anni Cinquanta, quando l’evoluzione dell’hooliganismo si intrecciò all’avvento delle sottoculture britanniche. La prima a fare la sua comparsa e ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica fu quella dei Teddy Boy, nata nei sobborghi londinesi con l’obiettivo di contrastare il sistema classista inglese e ribellarsi al grigiore artistico e all’austerità imposti dal governo dopo la seconda guerra mondiale. Si trattava di ragazzi della cosiddetta working class che si sentivano emarginati ed erano riluttanti all’idea di obbedire all’ordine precostituito, desiderosi di attirare l’attenzione di quei ceti sociali che non li avevano mai considerati e di opporsi alle modificazioni del gioco che stavano minando la loro centralità. Lo stile e i comportamenti furono gli strumenti con cui soddisfare questi bisogni – tra risse, piccoli furti e scontri con la polizia – mentre il calcio fu assunto come rito paradigmatico della gioventù operaia.

Intorno agli stadi tornarono i disordini e, sulla scia dell’omicidio del diciassettenne John Beckley il 2 luglio 1953 nel parco di Clapham Common, divampò un’ondata di isteria collettiva che vide nei Teddy Boy il simbolo e il capro espiatorio della decadenza dell’Inghilterra, nonché l’incarnazione di quella nuova devianza e delinquenza giovanile che esplodeva contemporaneamente nelle metropoli di molti Paesi. Era l’inizio di una tendenza destinata a ripetersi con le future sottoculture, considerate inaccettabili dalle classi più conservatrici.

Successivamente a finire nel mirino furono i mod e i rocker, per via dello scalpore suscitato dagli scontri di Brighton nel weekend di Pentecoste del maggio 1964. La trattazione della stampa ingigantì l’evento, fomentando quello che il sociologo Stanley Cohen definì «panico morale», ovvero un ingiustificato timore di massa verso una minaccia inesistente o di piccola entità, che catalizzò l’attenzione sulle condotte dei giovani e l’aumento della criminalità. Mod e rocker, insomma, furono ridotti alla stregua di folk devil incompatibili con i valori della società. Una simile trattazione, anziché fungere da deterrente, concesse di identificare i tratti di un comportamento inedito, rendendolo più facile da riconoscere e quindi da imitare.

Un numero sempre maggiore di ragazzi scalmanati cominciò quindi a popolare gli stadi, trasferendo il concetto di hooliganismo in una nuova e più moderna dimensione: non più inteso solo come espressione della delinquenza giovanile o di attacchi contro arbitro e giocatori avversari, ma connesso alle intemperanze tra tifosi e polizia nell’epoca delle sottoculture. Nel 1968 ne apparve una nuova nell’East End londinese, quella degli skinhead, in un’epoca di forti mutamenti che andarono a modificare tanto il tessuto urbano quanto le abitudini della classe operaia. Gli skinhead temevano che simili cambiamenti potessero intaccare il tradizionale senso di comunità e ripercuotersi sugli abituali luoghi di ritrovo che avevano avuto un ruolo cruciale nella vita di quartiere. Queste paure li portarono a ricostruire i valori della working class e a considerare il campo da calcio come un prolungamento dei propri spazi di appartenenza secondo la logica proletaria di presidio simbolico di una zona.

I settori più popolari dello stadio, le cosiddette end, divennero il luogo di aggregazione ideale dove poter affermare la propria autorità basandosi sulla violenza – a discapito di quei tifosi anziani e pacifici che furono in fretta emarginati e allontanati. Era la seconda fase di sviluppo di una devianza destinata a diventare un fenomeno di massa. Le prime avvisaglie vennero certificate nel 1966 dal Chester Report, un’inchiesta sullo stato di salute del calcio nel Regno Unito che mostrò come gli atti di teppismo fossero raddoppiati nei primi cinque anni del decennio rispetto ai precedenti venticinque. Combattimenti tra bande ebbero luogo praticamente ogni fine settimana e la stampa prese a interessarsi di questa spiacevole tendenza con tanto di prime pagine dedicate.

Il ruolo dei media

Furono proprio i media il principale e involontario veicolo della diffusione dell’hooliganismo. Se fino a quel momento i giornalisti si erano limitati a redigere report incentrati solo sull’andamento della partita, l’entrata massiccia delle televisioni nel mondo del calcio e nelle case di milioni di cittadini cambiò il modo di fare informazione. Ai giornalisti venne infatti chiesto di raccontare anche del cattivo comportamento della folla, ritenuto un argomento con cui fare notizia. In un momento in cui l’opinione pubblica inglese era tormentata dall’aumento della criminalità e violenza giovanile, i tabloid sfruttarono l’occasione per riportare un numero sempre maggiore di storie di questa natura. E il calcio, in particolare, costituì il contenitore perfetto dove trovarle. Per quanto la maggior parte delle persone non avesse ancora sperimentato gli effetti del football hooliganism, e anziché fornire prove a sostegno della concretezza del fenomeno, i media incanalarono le preoccupazioni del pubblico sulla violenza associata al calcio. Il dibattito attorno all’argomento pretendeva di ridurre ogni manifestazione del tifo alla stregua di delinquenza, rivolte e caos, e forniva spiegazioni approssimative su questi comportamenti e sul perché costituissero un grave problema sociale.

Foto di Carl Court/Getty Images

L’esempio più lampante del ruolo manipolatorio assunto dalla stampa avvenne alla vigilia dei Mondiali del 1966, ospitati proprio dall’Inghilterra e filati lisci senza particolari incidenti. La portata planetaria dell’evento catalizzò l’attenzione sull’hooliganismo, ritenuto una potenziale minaccia per l’immagine del Paese all’estero. Ogni azione dei tifosi finì sotto l’attenta lente di ingrandimento dei media, sempre pronti a segnalare qualsiasi problema di ordine pubblico utilizzando spesso toni spropositati e una retorica militare. La scelta di un approccio sensazionalista avrebbe dovuto consapevolizzare la gente e limitare ogni forma di violenza legata al calcio e ai teppisti che frequentavano strade e stadi.

Quello che accadde, tuttavia, fu una trattazione sproporzionata del fenomeno – orientata a isolare quei tifosi dipinti con epiteti quali animali, selvaggi e rozzi – che ebbe l’effetto contrario rispetto a quello sperato: l’attenzione morbosa riservata a questi fatti permise di inquadrare le partite di calcio e gli stadi rispettivamente come il pretesto e il luogo per esprimere la più violenta mascolinità attraverso risse tra bande rivali. Avvertito l’interesse della stampa nei loro confronti – esplicato tramite un utilizzo esagerato di titoli a caratteri cubitali, immagini ed epiteti guerreschi –, gli hooligan fecero di tutto per farsi notare e finire sulle prime pagine, mettendo in pratica quegli stessi gesti di cui venivano accusati. Nel frattempo, punire i singoli spettatori era parecchio complicato, poiché richiedeva una collaborazione non sempre possibile tra società, polizia e magistratura. Di conseguenza, le sanzioni consistevano soprattutto in multe a danno dei club o nella temporanea chiusura dei loro campi da gioco.

L’interesse della politica e le analisi sociologiche

In questa fase il parlamento si chiese quali fossero le soluzioni più idonee per migliorare lo stato del sistema calcistico nazionale, arrivando a finanziare le prime inchieste governative sul football hooliganism. Nel 1968 l’indagine Soccer Hooliganism – A Preliminary Report condotta dallo psicologo John Harrington identificò cause e manifestazioni dell’hooliganismo e le soluzioni per arginarlo, invocando un maggiore impegno dei club e pene più severe che potessero fungere da deterrente. La ricerca venne tuttavia giudicata carente e semplicistica, a causa di un approccio che ridusse il teppismo alla stregua di un temperamento anormale di alcuni individui che, per qualche inspiegabile ragione, trasformavano lo stadio in un’arena per esprimere la loro instabilità. L’emergere di queste falle spinse il governo a istituire un nuovo working party presieduto da Sir John Lang, vicepresidente dell’Assessorato allo Sport, e composto dai rappresentanti delle federazioni calcistiche e delle leghe, dal Segretario di Stato per gli Affari Interni, dalle forze di polizia e dai rappresentanti di calciatori e dirigenti, senza la presenza di psichiatri, sociologi o accademici. La premessa era interessarsi esclusivamente agli eventi reali occorsi alle partite di calcio, senza prendere in considerazione più ampie questioni sociali, al fine di esaminare nel dettaglio i problemi relativi al comportamento del pubblico emersi dal lavoro di Harrington.

Un anno dopo il Lang Report chiarì che non esisteva una «soluzione unica a un problema che è spesso dovuto a una combinazione di fattori» e fu il primo a ricercare concretamente delle soluzioni a una criticità che, in quel tempo, non era stata ancora chiaramente definita e ancora meno capita – soprattutto per l’assenza di dati specifici, come il numero di arresti e danni provocati, che ne indicassero la portata.

Anche la letteratura scientifica anglosassone si interrogò a lungo sull’eziologia del football hooliganism. Il primo filone esplicativo si inserisce in una cornice di ispirazione marxista ed è rappresentato dagli studi di Ian Taylor, che nel 1971 lesse il fenomeno hooligan come espressione di un «movimento di resistenza» attuato dai tifosi tradizionali, tipicamente provenienti dalla working class, contro i tentativi di «imborghesimento» e «internazionalizzazione» che li avrebbero alienati dal gioco. Queste trasformazioni avrebbero reso la violenza e il teppismo «una risposta democratica dello strato profondo della subcultura calcistica», esasperate dalla nuova condizione dei giovani della classe operaia nel mercato del lavoro, contro l’avvento di ricchi uomini d’affari e l’aumento degli stipendio dei calciatori. Quello di Taylor fu il primo tentativo di studiare l’hooliganismo e le sue manifestazioni. Venne però giudicato fuorviante in mancanza di dati empirici a sostegno delle sue tesi che tradirebbero un’impostazione eccessivamente romantica nei confronti di un passato di partecipazione collettiva nelle attività dei propri club che è in realtà non è mai stato confermato. Nel 1978, in maniera similare, John Clarke individuò le ragioni della violenza calcistica nella virata del gioco verso la «professionalizzazione» e «spettacolarizzazione» che avrebbero creato un sentimento di frustrazione innanzi al quale i tifosi della working class avrebbero reagito attraverso gesti in grado di affermare la loro identità nei confronti della società.

Il secondo filone è quello operato dalla Scuola di Oxford nel volume The Rules of Disorder – pubblicato nel 1978 e curato da Peter Marsh, Elizabeth Rosser e Rom Harrè – che abbandonò l’approccio sociologico a favore di una prospettiva basata sull’osservazione diretta dei tifosi dell’Oxford United e la raccolta delle loro testimonianze – senza quindi la mediazione di ulteriori strumenti di analisi. Gli autori riscontrarono somiglianze tra l’allarme sociale del football hooliganism e i meccanismi di costruzione del panico morale e dei folk devil descritti da Cohen, facendo leva sulla labelling theory (teoria dell’etichettamento) secondo cui la devianza è creata e alimentata attraverso la reazione della società nei confronti di un atto considerato deviante. Stando a questa visione, gli episodi di violenza negli stadi sarebbero equiparabili a dei comportamenti rituali aggressivi, definiti aggro, retti da un sistema di simboli collegati al contesto sociale di una cultura che prevede il rispetto di «regole del disordine» atte a garantire adeguate condizioni di sicurezza e ridurre al minimo il rischio di infortuni. Comprendere dinamiche, cause e motivazione del football hooliganism significava interpretare un agire dotato di senso, almeno dal punto di vista di chi lo praticava. Per gli studiosi della Scuola di Oxford gran parte degli incidenti connessi all’hooliganismo aveva di conseguenza una valenza minore di quanto sembrasse e di quanto riportato dai media proprio per la presenza di codici capaci di dirigere e controllare l’aggressività. Il passaggio alla violenza agita sarebbe avvenuto, invece, a causa dell’intromissione di fattori esterni (come le cariche della polizia) o di disturbo che avrebbero alterato lo svolgimento del rituale. Simili conclusioni vennero criticate per aver creato una sorta di giustificazione al comportamento violento dei tifosi – laddove l’aggro veniva minimizzato come una predisposizione innata alla bellicosità su base genetica –, spingendo Marsh e i suoi collaboratori a rivedere le proprie idee alla luce dei numerosi eventi letali che funestarono il calcio inglese negli anni Ottanta.

Il terzo filone porta infine la firma dei già citati Eric Dunning, Patrick Murphy e John Williams, principali rappresentanti della Scuola di Leicester, ai quali si deve la più importante ricostruzione storica del football hooliganism. L’oggetto della loro indagine riguardava la provenienza sociale dei teppisti, riscontrata negli strati più bassi della popolazione, per i quali provocare incidenti rappresentava una delle poche fonti di eccitazione allo scopo di compensare gli insuccessi delle loro vite. I ricercatori ritenevano che gli hooligan vedessero nella propria curva un territorio da difendere, e in quella avversaria un territorio da attaccare e conquistare. La più grossa critica a questa visione venne mossa dal sociologo Gary Armstrong, che sottolineò la mancanza di prove concrete a sostegno di questo impianto teorico. Non esisterebbe, insomma, una correlazione tra la working class e la propensione alla violenza dal momento che i dati forniti dalle fonti giornalistiche e dall’autorità giudiziaria circa il numero di arresti e denunce sarebbero inattendibili: nel primo caso, perché i teppisti potrebbero essere tentati ad aumentare la propria popolarità, mentre nel secondo perché potrebbero assumere un basso profilo al fine di evitare complicazioni nella vita quotidiana e sul posto di lavoro.

Le firm e il picco della violenza

Se le istituzioni faticavano a fronteggiare la situazione, al contrario il tifo violento conobbe nei primi anni Settanta un processo di istituzionalizzazione attraverso la formazione delle prime firm: il termine significa letteralmente azienda e venne adottato dagli hooligan per indicare il grado di organizzazione che iniziavano ad assumere. Così come avvenuto in passato con le subculture, i militanti erano persone legate da uno spirito di appartenenza che derivava da un senso di insoddisfazione latente. Rispetto alla seconda ondata di football hooliganism del decennio precedente, caratterizzata dall’assenza di azioni premeditate, stavolta l’attività degli hooligan assunse una nuova direzione, più pianificata e basata sulla corporazione.

Alcune tifoserie cominciarono a mettere in atto uno dei capisaldi della cultura hooligan ribattezzato “take the end”, ovvero il tentativo di occupare il settore avversario mettendo in fuga la tifoseria nemica. Era l’ultimo step della violenza applicata al tifo calcistico, agevolato dall’impreparazione delle forze dell’ordine e degli steward e dall’aumento della disponibilità di spesa, che consentì ai sostenitori di seguire con più costanza la propria squadra. Non ci volle molto per vedere le drammatiche conseguenze di simili azioni.

Il 29 maggio 1974, durante la finale di ritorno di Coppa UEFA tra Feyenoord e Tottenham, i sostenitori degli Spurs si scatenarono per le vie di Rotterdam e dentro il De Kuip, inducendo l’allenatore della loro squadra, Bill Nicholson, a prendere il microfono nell’intervallo ed esclamare: «Siete una disgrazia per il Tottenham e l’Inghilterra! È una partita di pallone, non una guerra». Tre mesi dopo si registrò invece la prima vittima connessa all’hooliganismo, il diciassettenne tifoso del Bolton Kevin Olsson, accoltellato mortalmente nei pressi di Bloomfield Road durante una rissa contro i rivali del Bolton.

Foto di Carl Court/Getty Images

Il tifo violento contagiò anche gli incontri della nazionale, seguita ovunque da un manipolo di teppisti intenti letteralmente a spaccare tutto – come testimoniato dai danni arrecati e dagli arresti subiti agli Europei del 1980 a Torino, ai Mondiali di Spagna 1982 e in Lussemburgo nel 1983 nella fase di qualificazione a Euro 1984. Che giocassero i club o la nazionale, poco cambiava: gli hooligan avevano assunto i connotati di sgraditi ambasciatori del calcio inglese all’estero, seminando violenza e distruzione in tutta Europa – agevolati anche dall’assenza di specifiche normative per i reati da stadio.

Misure preventive quali la polizia a cavallo, l’installazione delle telecamere e la scorta dei tifosi in trasferta da e per lo stadio non frenarono la violenza, contribuendo al massimo a spostarla in luoghi adiacenti quali stazioni ferroviarie e parcheggi, dove le bande si davano appuntamento per scontri pianificati. Il peggio arrivò alla fine degli anni Settanta, a causa di un errore di valutazione provocato dal calo di incidenti, che spinse il governo Callaghan ad assumere un atteggiamento di apatia e ridurre l’hooliganismo a un «element of fashion», equiparandolo a una moda giovanile destinata prima o poi a scomparire. Sugli spalti si assistette a un nuovo ricambio generazionale, e al posto degli skinhead fecero la loro comparsa i casual: non più dettagli che facessero risalire alla propria squadra, ma capi di abbigliamento firmati Fred Perry, Stone Island e Adidas che permettessero di mischiarsi alla folla e passare inosservati.

Il leitmotiv che ne accompagnava le scorribande era “vestirsi bene per comportarsi male”. Il football casual style – estrinsecazione della più sofisticata reazione delle firm ai provvedimenti del governo – nacque a Liverpool nel 1977 in virtù delle numerose trasferte internazionali che diedero ai tifosi la possibilità di viaggiare in città come Zurigo, Amburgo e Roma, dove ebbero accesso a una vasta gamma di abbigliamento sportivo e prodotti per il tempo libero non disponibili in Inghilterra. I capi importati nel Paese riscossero da subito grande successo, spingendo molti hooligan a imitare quel modo di vestire. Dal 1980 praticamente ogni squadra aveva un gruppo di tifosi abbigliati con una combinazione di marchi d’alta moda al posto delle bretelle e degli stivali di epoca skinhead.

Contemporaneamente le firm scelsero di partecipare alle trasferte in piccoli gruppi, in modo da non essere controllate o scortate dalle forze dell’ordine – per giunta in difficoltà nel riconoscere persone prive di maglie e sciarpe con i colori del proprio club.

Nel frattempo l’hooliganismo aveva assunto i connotati di una spiacevole "disease" che raggiunse il picco nel 1985, annus horribilis del calcio inglese. Gli incidenti in diretta televisiva del 13 marzo nel sesto turno di FA Cup tra Luton Town e Millwall portarono il problema della violenza associata al calcio all’attenzione della premier Margaret Thatcher, che due settimane più tardi elaborò insieme alla federazione un piano rivolto a incrementare l’utilizzo delle telecamere, conferire maggiori poteri alla polizia, vietare la vendita di alcool negli stadi, migliorare le recinzioni, aumentare il numero di all-ticket match e introdurre l’uso delle carte di identità. Fu David Evans, presidente del Luton Town, a proporle per la prima volta l’utilizzo di una membership scheme per escludere i sostenitori avversari dal suo impianto e a vietare per quattro anni le trasferte ai suoi tifosi.

A maggio fu la volta del rogo di Bradford in uno stadio privo di estintori per paura che venissero usati come armi, ma soprattutto della strage dell’Heysel, che venne assunta come data spartiacque nella storia dell’hooliganismo e dalla quale nacquero tutte le successive leggi in materia. Le risposte della politica inglese si esplicarono attraverso misure preventive e repressive: impianti militarizzati e un innalzamento esagerato di gabbie e recinzioni divennero la cornice abituale attorno all’esperienza da stadio, in un clima sempre maggiore di insofferenza tra cittadini e forze dell’ordine. Le due edizioni del Popplewell Report – redatte per indagare sull’incendio di Bradford e poi allargate ai fatti dell’Heysel, pur senza entrare nelle questioni legali di competenza della magistratura belga – suggerirono di ampliare i poteri di arresto della polizia e renderne illimitato il potere di perquisizione ai tifosi prima del loro ingresso negli stadi. Venne anche incentivata la messa a punto di un sistema di affiliazione, sull’esempio di quello indicato da Evans, in modo da escludere i sostenitori ospiti – idea che genererà le accuse di voler attuare una schedatura completa dell’individuo e violare le sue libertà personali.

Le leggi specifiche anti-hooliganismo

Nel 1985 la regina Elisabetta II emanò lo Sporting Events (Control of Alcohol etc) Act per contrastare il consumo esagerato di alcolici, all’epoca considerato una delle cause della devianza hooligan, vietandone la vendita e il possesso negli stadi, nelle aree limitrofe, su treni e autobus con la reclusione fino a tre mesi per i trasgressori. L’anno seguente il Public Order Act introdusse gli exclusion order con i quali la magistratura poteva impedire l’accesso negli stadi ai tifosi violenti, costringendoli anche all’obbligo di firma nelle stazioni di polizia. La legge introduceva i reati di sommossa, disordini violenti, rissa, incitamento alla violenza e spaurimento, molestie, provocazione di allarme o di disagio, oltre a sanzionare la discriminazione razziale.

L’ossessione nel garantire a tutti i costi «la legge e l’ordine» spinse addirittura il Segretario di Stato per gli Affari Interni Douglas Hurd ad allestire un gabinetto di guerra per indagare sui giovani che scatenavano disordini in città e negli stadi il venerdì e il sabato sera, sposando una logica del terrore che instillò nella popolazione e nelle forze dell’ordine una nuova ondata di panico morale da hooligan hysteria.

Questo quadro di decadenza e malessere generale intorno al gioco, composto da stadi vecchi e pericolosi, hooliganismo ma soprattutto paura dell’hooliganismo, ubriachezza e scarsa leadership, costituì una delle cause remote che innescarono il disastro di Hillsborough. Anche se le responsabilità di polizia e soccorsi tardivi furono confermate solo dopo parecchi anni, tutti gli attori dell’industria calcistica furono costretti a un esame di coscienza di fronte a una situazione ormai insostenibile. Quello che ne derivò, in ottemperanza alle raccomandazioni contenute nelle due edizioni del Taylor Report, fu un insieme di riforme atte a migliorare tanto le strutture, quanto a responsabilizzare i tifosi e le istituzioni calcistiche.

Nel novembre 1989 il Parlamento approvò il Football Spectators Act, con cui si introduceva la National Membership Scheme, un sistema di schedatura implementato attraverso la carta di identità che obbligava i tifosi di tutte le società a usufruire di una tessera per entrare negli stadi. Chi ne fosse stato sprovvisto avrebbe commesso un reato e rischiato fino a un mese di reclusione. La National Membership Scheme rappresentò la più estrema manifestazione del desiderio della Thatcher di vincolare la presenza dei tifosi al possesso di una tessera nominale.

L’iniziativa non trovò una concreta attuazione per via delle rimostranze manifestate nel Final Report dal giudice Peter Taylor, che la ritenne «sproporzionata» rispetto al problema hooliganismo a causa delle complesse e costose procedure per attivare, immettere e gestire un’enorme quantità di tessere; «controproducente» perché troppo macchinosa; «ingiusta» perché avrebbe costretto la stragrande maggioranza degli altri tifosi a sostenere, oltre alla spesa del biglietto, quella della tessera (compresa tra le quattro e le dieci sterline) – ribadendo come «le misure anti-hooligan dovrebbero colpire solo gli hooligan, e non causare disagio a milioni di spettatori nella speranza di eliminarne alcuni». Il Football Spectators Act autorizzava ad arrestare i cittadini residenti in Inghilterra e Galles condannati anche per reati commessi all’estero, ai quali il tribunale poteva vietare di assistere a eventi sportivi sia in casa che al di fuori dei confini nazionali.

Le leggi che rafforzarono il quadro normativo già esistente furono tre: il Football Offences Act 1991 introdusse per la prima volta – su richiesta di Taylor – specifici reati da stadio, quali il lancio di oggetti, i cori razzisti o indecenti, e l’invasione di campo. L’aggettivo “indecente” lasciava tuttavia ampio margine interpretativo e una difficoltà di applicazione – discorso analogo per il Criminal Justice and Public Order Act 1994 che vietava il bagarinaggio e garantiva alla polizia i poteri di fermo e perquisizione qualora venisse ravvisata la minaccia di «seria violenza» da parte del tifoso. Poi fu la volta del Football (Offences and Disorder) Act 1999 che sostituì gli exclusion order con gli attuali football banning order e alzò fino a dieci anni il tempo massimo di interdizione dagli stadi, valevole anche per le partite internazionali. Un ulteriore inasprimento arrivò dal Football Disorder Act 2000, diretta conseguenza delle intemperanze registrate agli Europei in Belgio e Olanda. La legge conferì alla polizia il potere di sequestrare il passaporto a un individuo, persino sulla base di un tatuaggio, cinque giorni prima di una gara internazionale. Il divieto di espatrio poteva riguardare non solo hooligan con precedenti penali specifici, ma anche tifosi sospettati di poter causare eventuali disordini. Da misura esclusivamente sanzionatoria, i banning order divennero nell’evenienza una misura di prevenzione.

Grazie a un draconiano giro di vite – unito a un sensibile aumento del prezzo dei biglietti, in netta opposizione con le richieste di Taylor di «impiegare una politica tariffaria che adatti i posti più economici alle tasche di coloro che attualmente pagano per stare in piedi» –, gli inglesi sono stati in grado di ridurre sensibilmente gli episodi di hooliganismo. Oltre alla promulgazione di norme dall’effetto deterrente, a segnare il declino della terrace culture e della violenza ad essa correlata ci pensò in parte l’avvento della acid house. Nato a Chicago nei primi anni Ottanta, questo genere musicale si diffuse in Gran Bretagna alla fine del decennio e appassionò un’intera generazione di tifosi, che preferì distrarsi in luoghi diversi dalle gradinate quali le discoteche o i rave party.

Oggi non si può dire che l’hooliganismo sia effettivamente morto, e probabilmente mai lo sarà, ma è indubbio come sia stato potenzialmente ridotto. Pur esistendo ancora sotto forma di risse pianificate in luoghi isolati, il fenomeno è diventato meno notiziabile rispetto al passato e ha perso buona parte della sua forza catalizzatrice nei media – specie per via della costante diminuzione del numero di arresti. Per quanto il modus operandi adottato Oltremanica sia stato spesso citato come esempio per sradicare il teppismo da stadio, rimane un cortocircuito di fondo: la rivalutazione del calcio inglese, prima morto e poi rinato, avvenne attraverso una bonifica trasversale fatta di leggi punitive e di controllo, trasformazione degli stadi, responsabilizzazione delle società e un’alterazione “culturale” dell’approccio dei tifosi alle partite. Soltanto la simultanea presenza di questi fattori – unita a impegno comune di tutte le parti, al di là dei colori politici o sociali –, ha permesso a quello che fino ai primi anni Novanta era il più disastrato movimento calcistico europeo di diventare, da ormai una decina d’anni, uno spettacolo dentro e fuori dal campo.

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