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La stagione degli Houston Rockets passa dalla difesa
26 apr 2019
Al di là di quanto siano straordinari Harden e Paul, se i Rockets vogliono avere una chance dovranno fare affidamento sulla loro difesa.
(articolo)
15 min
(copertina)
Foto di Tim Warner/Getty Images
(copertina) Foto di Tim Warner/Getty Images
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Per tutta la stagione ci siamo detti come Houston Rockets non siano più la macchina perfetta della scorsa stagione. I dubbi su Chris Paul si sono fatti sempre più grossi con il passare del tempo; la difesa è stata un tale disastro a inizio stagione da costringere a richiamare l’assistente allenatore andato in pensione; James Harden ha fatto il mostro, ma con il dubbio che poi potesse calare come sempre da maggio in poi; e l’aver voluto puntare sulla parabola discendente della carriera di Carmelo Anthony rimane una macchia indelebile anche per un General Manager di livello assoluto come Daryl Morey.

Eppure gli Houston Rockets restano la minaccia più credibile che la Western Conference ha da offrire contro lo strapotere dei Golden State Warriors. Come è possibile?

Il modo in cui hanno distrutto ogni tentativo di opposizione degli Utah Jazz nei primi tre episodi di questo primo turno dei playoff, la durezza mentale dimostrata nella combattuta gara-5, hanno scacciato via buona parte dei dubbi sul loro reale valore, sublimando quanto di buono fatto vedere negli ultimi due mesi di regular season, dove hanno sovrastato i propri avversari di oltre 10 punti su cento possessi. Dopo una stagione regolare dove ha definitivamente rotto l’asse del possibile e dell’impossibile, James Harden ha vivisezionato la difesa dei Jazz con una tranquillità e una sicurezza tale da far dubitare Snyder che possa essere reale, con la squadra che gira come un’orologio in entrambe le metà campo.

Tutti i modi con cui Harden ha distrutto i Jazz in gara-1. Oltre alla tripla in step-back contro cui O’Neale non può nulla, è inquietante come nel floater della seconda clip nel lob della terza non ci siano quasi differenze: stessa parabola, stesso movimento del corpo, impossibile da leggere per la difesa.

Con l’inserimento nella sua faretra di un tiro in avvicinamento più efficace, con cui rendere definitivamente illeggibili le sue penetrazioni al ferro, e dopo aver rivoluzionato la geometria del gioco con la sua signature move per antonomasia, la tripla in step-back – una fatality contro la quale le difese avversarie non hanno possibilità di fare nulla: solo sperare che sia lui a sbagliare – Harden è ora un attaccante senza punti deboli. E il livello di terrore che incute nei coaching staff avversari è tale da portarli a ideare piani difensivi sempre più elaborati solo nel tentativo di limitarlo.

Anche una difesa ermetica e preparata come quella dei Jazz per provare a difendere l’MVP in carica ha finito per snaturarsi. Utah ha provato a ricalcare la via mostrata prima dai San Antonio Spurs nei playoff del 2017 e poi dai Milwaukee Bucks, estremizzando ulteriormente i concetti nella speranza di togliergli non solo la mano sinistra, ma anche la possibilità di fluttuare sul perimetro. I Jazz però hanno finito col commettere errori ancora più grossi: le linee troppe dritte di penetrazione e l’ansia di collassare in area concedendo triple aperte dagli angoli sono diretta emanazione del terrore che Harden ha finito per incutere su di loro. I Jazz sono una delle squadre che concede meno triple dagli angoli nella lega, ma nelle prime due partite i Rockets (la squadra che, invece, crea di più questo tipo di soluzione) ne hanno tentate ancora di più rispetto alla stagione regolare.

Due azioni praticamente in fotocopia, con la difesa che nel tentativo di salvarsi dal lob lascia scoperto l’angolo (in entrambi casi Mitchell deve dividersi tra due giocatori, cosa in cui dimostra di avere 21 anni). Nella terza clip Harden legge bene il movimento della difesa di Utah, con Rubio che stringe al centro per disturbare Capela lasciando libero House, subito pescato dal Barba per una tripla aperta.

Un esperimento andato in mille pezzi nelle prime due partite della serie, dove il Barba ha manipolato a piacimento gli spazi e gli uomini attorno a lui, reagendo a ogni trappola o tentativo di depistarlo segnando e facendo segnare i compagni in ogni modo.

Il clinic di gara-2 è stato ancora più impressionante, soprattutto nel primo quarto.

Nel corso della serie i Jazz sono migliorati nella gestione di Harden, rendendogli la vita più difficile e magari tracciando una nuova via da seguire in futuro. Ma per quanto il Barba sia stato stellare nel corso di tutta la stagione, impedendo ai suoi di naufragare nel periodo più buio con una striscia di prestazioni irreali, la migliore notizia per i Rockets sono i progressi mostrati dagli altri pezzi importanti del quintetto base. Dopo una stagione travagliata e piena di infortuni, Clint Capela ed Eric Gordon sono tornati sui loro livelli abituali, portando energia e atletismo il primo e forza fisica il secondo, che da dopo la pausa per l’All-Star Game ha ripreso a cannoneggiare come suo solito, sparando oltre nove triple a partita con il 43% di realizzazione. L’aver ritrovato la precisione sul perimetro è una condizione di esistenza necessaria per un giocatore così centrale nello scacchiere tattico dei Rockets, una squadra talmente rigida nel rispettare i propri principi fondanti da aver appena chiuso la prima serie della storia dei playoff con più tiri tentati da tre (211) che da due (210).

Anche P.J. Tucker ha ritrovato la mano, e da febbraio a questa parte tira con oltre il 40% da tre, soprattutto dagli angoli, dove è stato un fattore contro Utah. Il suo apporto non è mai mancato, tra difesa, aiuti, comunicazione, e tutte le altre piccole cose che fa. Nelle vittorie tirate di gara-3 e gara-5 c’è tutta la purezza del suo gioco sporco, quello che non finisce nei tabellini di fine partita ma che è indispensabile nell’economia di una squadra che punta in alto come Houston.

Il conundrum di CP3

Poi c’è Chris Paul, sul quale si sono scritti fiumi di parole nel corso di tutta la stagione e col quale i Rockets (e Harden) sono legati a doppio filo. Nei due anni con Houston, Paul non ha mai giocato più di 58 partite: per il terzo anno consecutivo è sceso sotto la soglia dei duemila minuti, le sue statistiche offensive sono drasticamente calate e sulle sue condizioni fisiche c’è sempre più apprensione. Per di più nella scorsa estate ha firmato un triennale da oltre 115 milioni di dollari garantiti con un’opzione da 44 milioni sul quarto anno (quando avrà 37 anni). Se facessimo un breve sondaggio chiedendo ad alcuni dirigenti NBA chi preferirebbero avere a roster, se lui o quello che i Rockets scambiarono per lui due estati fa – ovvero Lou Williams & Montrezl Harrell, aka i proprietari del pick-and-roll più efficace della NBA – difficilmente in tanti parteggerebbero per il primo.

La capacità di tagliare in diagonale entrando in area, quasi saltellando, sbilanciando quel tanto che basta la difesa per prendersi il tiro dalla media distanza, suo marchio di fabbrica. Fisicamente sembra essere fresco come una margherita.

Ciò nonostante, CP3 è un giocatore essenziale per questa squadra. Per quanto non sia più in grado di gestire lo show come qualche anno fa, il suo fit con Harden resta perfetto come lo è stato fin dal primo giorno. La sua capacità di riempire sapientemente gli spazi che il Barba apre con la sua presenza, il comprendere quando spingere e quando rallentare, il modo in cui riesce a trovare i compagni liberi, ne fanno il co-conduttore ideale per i Rockets. Già dall’anno scorso D’Antoni separava rigidamente i minuti delle sue due stelle, di modo da averne sempre una in campo, ma da quest’anno la sua capacità di gestire la second unit è divenuta ancora più fondamentale per gli equilibri della squadra. Dei sette giocatori ad aver giocato almeno mille minuti in stagione, infatti, Paul vanta il miglior Net Rating (+8.1) che sale ancora (+9.7) quando Harden siede in panchina. È lui a dirigere le operazioni, a riprova di quanto i Rockets restino una squadra eccellente anche nei (pochi) minuti in cui l’MVP tira il fiato.

L’attenzione che esercita quando naviga intorno ai cinque metri dal canestro è sempre di alto livello, con Gobert che rispetta il suo jumper tanto da allontanarsi e concedere a Capela una facile schiacciata. Sempre in controllo sia del tempo che degli spazi attorno a lui.

Inoltre, Paul è un difensore estremamente competente, in grado di difendere sia gli scivolamenti dei piccoli che di tenere contro avversari più grossi di lui, una capacità chiave per l’intero sistema difensivo dei Rockets. La sua importanza è tale che quando è in campo Houston concede appena 103.2 punti concessi su cento possessi - un dato già eccellente di suo, ma che scende addirittura sotto i 99 punti concessi quando Harden è in panchina, a certificazione dei progressi compiuti dalla squadra dopo i disastri di inizio anno.

Passa tutto dalla difesa

Se i Rockets hanno rimesso a posto le cose nella seconda parte di stagione lo devono, appunto, ai miglioramenti nella loro metà campo. Nonostante abbiano chiuso con 110 punti concessi su cento possessi (18esimi nella lega), dopo la pausa per l’All-Star Game solo i Jazz hanno fatto meglio dei loro 105.3 punti concessi. Il sistema difensivo di Houston ideato nella passata stagione dall’assistente Jeff Bzdelik, basato su rotazioni e cambi continui, su tutti i blocchi, di tutti e cinque i giocatori in campo, ha vissuto momenti burrascosi dopo le perdite di Trevor Ariza e Luc Mbah a Moute durante l’estate.

I Rockets avevano iniziato la stagione con lo stesso schema difensivo di un anno fa, cambiando su tutti i blocchi. È stato un disastro.

Alle difficoltà di Harden nel difendere lontano da canestro si sono sommate quelle di Carmelo Anthony – divenuto da subito il bersaglio da attaccare in ogni pick-and-roll per gli avversari – e, ancora peggio, i cambi sistematici costringevano quasi sempre Clint Capela ad allontanarsi dal pitturato per vedersela contro gli esterni avversari, privando i Rockets in un colpo solo dell’unico rimbalzista e protettore del ferro di un certo livello.

I problemi di Capela nel difendere lontano da canestro sia nel contestare i jumper da lontano che nel tenere gli scivolamenti degli esterni al ferro. L’ultima clip è forse la più esplicativa di tutte: Collin Sexton lo batte dal palleggio, sbaglia, ma Tristan Thompson sfrutta l’assenza dello svizzero per prendere il rimbalzo offensivo, restituire la palla a Sexton che al secondo tentativo segna.

L’aver chiuso al 28° posto per rimbalzi disponibili catturati e al 29° posto per quelli difensivi ha amplificato i problemi di una difesa che ha come obiettivo primario quello di togliere il più possibile gli stessi tiri che poi ricerca in maniera ossessiva nell’altra metà campo: al ferro e da tre. Ma mentre sul perimetro i Rockets sono, assieme a Denver, la squadra che concede meno tentativi (21.4) e la percentuale più bassa (33% che diventa 36% nelle triple wide open, altro dato discreto), sotto canestro si sono visti tutti i problemi di una difesa spesso sbilanciata e priva di fisicità nel reparto degli esterni.

Il 66.7% concesso nella restricted area è indiscutibilmente un campanello d’allarme in vista delle sfide ai pesi massimi della lega. Ma come dimostra anche la serie contro i Jazz, D’Antoni e Bzdelik hanno saputo aggiustare il loro sistema in corso d’opera. La filosofia difensiva è diventata più flessibile: già da dicembre cambiare sui blocchi non è più un imperativo categorico, nel tentativo di avere più vicino al ferro possibile sia i lunghi che Harden, la cui capacità di prendere rimbalzi nel traffico e le letture ne fanno un pericolo in più, specie dal lato debole, come fosse effettivamente un “4” invece che un 2.

In entrambe le clip Gordon resta con Mitchell permettendo a Capela di scivolare dentro l’area. Nella seconda clip si vede bene come tutti e cinque i giocatori di Houston siano ampiamente dentro l’area, intasando gli spazi per le penetrazioni prima di riaprirsi sui possibili close-out.

Nella serie contro Utah, gli uomini di D’Antoni hanno preferito tenere una posizione più flottata verso l’interno, cercando di intasare l’area e sfidando i tiratori dei Jazz, non sempre precisi da oltre l’arco. Nelle cinque partite giocate, infatti, i Rockets hanno concesso oltre 35 triple a sera (ben 14 in più rispetto alle medie stagionali) ma Utah ha faticato a superare il 27% di efficacia, di gran lunga il dato peggiore del primo turno di playoff. I problemi difensivi sul pick-and-roll sono stati mascherati cercando di forzare gli avversari a giocare più isolamenti o situazioni di post-up, dove invece i Rockets sono più a loro agio grazie a giocatori come Paul, Gordon, Tucker e persino Harden.

Da anni ormai gli attacchi avversari commettono l’errore di portarlo vicino a canestro cercando di attaccarlo, ma nei 212 possessi difesi dal post-up in stagione regolare è nel 89° percentile con appena 0.68 punti concessi per singolo possesso. Stesso discorso vale per gli isolamenti, dove è nel 72° percentile nonostante i 157 possessi difesi ne facciano il quarto più attaccato dopo Capela, Kevon Looney e Steven Adams - non a caso tre lunghi.

Nel video si nota la capacità di Harden di tenere in post contro giocatori più grossi di lui. Sia fisicamente, come nelle prime due clip, sia sapendo anticipare lo svolgimento dell’azione come nella terza. Nella quarta clip invece è interessante vedere come lasci il diretto avversario, rimanendo a protezione del ferro. Piccole cose che nell’economia di una partita possono fare la differenza.

I Jazz raramente hanno cercato di portarlo lontano dall’area – così come poche volte hanno cercato di isolare Capela lontano da canestro – ma non è difficile ipotizzare che già in un ipotetico accoppiamento con gli Warriors al secondo turno le cose cambieranno drasticamente. A differenza di Utah, Steve Kerr ha a disposizione più di un giocatore in grado di battere il proprio uomo dal palleggio, così come è impensabile di chiudersi scommettendo contro i tiratori come in questo primo turno. D’Antoni però ha più di un motivo per cui essere ottimista: tutti i giocatori sembrano essere arrivati alla post-season nella migliore condizione fisica possibile, e gli scontri diretti della regular season dicono 3-1 a favore dei suoi che, grazie agli innesti a stagione in corso, hanno rotazioni più profonde e meglio assortite.

X-Factor(s)

I gregari sono l’ago della bilancia della stagione di Houston fin da inizio anno. Come è nel suo DNA gestionale, il GM Morey in estate ha speso soldi solo per le stelle (Paul, Capela) riempiendo le altre caselle vuote del roster con giocatori al minimo salariale. Dopo aver appurato il fallimento delle scommesse di inizio anno – ‘Melo, Marquese Chriss, Brandon Knight, Tyler Ennis e Michael Carter-Williams sono tutti da altre parti – Morey ha saputo aggiustare il tiro, mettendo le mani su giocatori più funzionali come Austin Rivers, Iman Shumpert e Kenneth Faried.

Per quanto i primi due abbiano permesso di aggiungere carattere sugli esterni (soprattutto grazie a Rivers, la cui versatilità è preziosa nella metà campo difensiva come stanno sperimentando a loro spese i Jazz), è quella di Faried l’aggiunta più interessante, con le sue treccine che sono tornate a sobbalzare su e giù per il campo come ai tempi di Denver. Considerate le sempre precarie condizioni fisiche di Nene, l’arrivo di Manimal ha restituito a D’Antoni un rim-runner di livello da alternare a Capela, in grado di sfruttare il suo agonismo tarantolato sia in difesa che nei duetti con Harden e Paul. Per sopperire all’assenza di Ariza in un ipotetico accoppiamento al secondo turno contro i Warriors, potrebbe essere lui l’agente segreto da spendere contro Kevin Durant, visto che nei 21 possessi in cui ha difeso contro KD lo ha costretto ad un differenziale di -11.8 rispetto alle sue medie stagionali, concedendogli appena 5 punti dal campo.

Due situazioni tattiche che potremmo rivedere nel corso di questi playoff.

Nei 52 minuti in cui Faried e Capela hanno condiviso il campo, i Rockets concedono 95 punti su cento possessi (+18.7 Net Rating) e per ovviare al problema offensivo di giocare con due lunghi nominali, l’ex Nuggets ha già tentato più triple rispetto alle altre esperienze in carriera (25 contro 21) convertendole col 35%. Un dato non eccellente ma accettabile, che potrebbe essere sufficiente per spingere le difese avversarie a rispettarlo nel corso di una serie di playoff.

Ugualmente importante è stata la scoperta di Danuel House, uno di quelli che c’era anche a inizio anno ma che per motivi contrattuali è tornato a far parte del roster solo da fine marzo. Entrato nella lega dall’ingresso secondario (forse anche terziario), è esploso quest’anno con i Rockets, emergendo come una combo-guard intrigante. Le sue misure fisiche (2 metri per quasi 1000 chili) e il fatto di essere passato dal 25 al 41% da tre in un anno, lo rendono un 3&D perfetto per la pallacanestro moderna, e non avendo bisogno della palla per incidere è perfettamente in grado di giocare sia con Harden che con Paul. Con lui in campo i Rockets sovrastano i propri avversari di 8.2 punti su cento possessi e segnano oltre 116 punti su cento possessi (alla pari di James Harden), tanto che D’Antoni ne ha fatto il sesto uomo della squadra, potendo così tenere Gordon nello schieramento iniziale senza squilibrare le rotazioni.

Due clic che spiegano l’importanza di House in entrambe le metà campo. Nella prima tiene la penetrazione di Rubio arrivando a stopparlo al ferro, mentre nella seconda è bravo nel correre in transizione per occupare l’angolo e sparare senza esitazioni dopo l’assist di Paul.

Battere i Golden State Warriors è da anni l’ossessione dei Rockets e di Morey in particolare. Dopo la delusione cocente delle scorse finali di Conference, Houston potrebbe avere l’opportunità di una Grande Rivincita nel secondo turno di quest’anno. Per quanto battere Golden State di per sé non garantirebbe niente di concreto (ci sarebbero altre otto vittorie da conquistare per arrivare al titolo), superare questo esame permetterebbe di scacciare via in maniera definitiva le ombre sulla propria stagione e sul proprio futuro.

I Rockets sono sembrati spesso sul punto di implodere all’inizio di questa stagione, e la macchina perfetta della scorsa stagione probabilmente non si vedrà più, così come è difficile capire quanto potranno mettere davvero in difficoltà i Warriors. Certo è che se devi affrontare la tua più grande ossessione, arrivarci nella migliore condizione possibile non è un brutto punto di partenza.

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