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Gli Houston Rockets sono in rampa di lancio
06 dic 2024
Come la franchigia texana è passata dal fondo della NBA a lottare per le prime posizioni.
(articolo)
12 min
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L'ultima volta che gli Houston Rockets hanno vinto 14 o più gare delle prime 20 era il 2017/18: Daryl Morey era il General Manager, Mike D’Antoni l’allenatore e James Harden il potentissimo fulcro offensivo a guida di un sistema eliocentrico fatto di isolamenti (14.5% di frequenza di possessi, primi a +4.0 sui Thunder secondi) e tiri da tre punti (42.3 a partita, +6.6 sui Nets al secondo posto). Era anche la stagione in cui la franchigia andò più lontano in postseason, portando i Golden State Warriors di Curry, Thompson, Green e Durant a gara 7 delle finali di Conference. Sì, è la serie caratterizzata dal fatidico infortunio a Chris Paul in Gara-5 e del 7 su 44 da dietro l’arco nell’ultima gara casalinga, di cui 27 consecutive. Dopo non aver più superato le semifinali ad Ovest nei due anni successivi, la squadra è stata smantellata a partire dai ruoli di GM e head coach fino alla trade che ha portato James Harden a comporre i Big Three ai Brooklyn Nets con Kyrie Irving e Kevin Durant.

Dopo la cessione del Barba Houston ha fatto tabula rasa, ripartendo dalle scelte ricevute al Draft e da alcune stagioni tremende dal punto di vista del record (appena 59 vittorie nel triennio tra il 2020/21 e il 2022/23). In questo lasso di tempo, tra una sconfitta e l’altra, la franchigia ha saputo però costruire una squadra ricca di prospetti: prima Jalen Green e Alperen Sengun, poi Jabari Smith e Tari Eason, Amen Thompson e Cam Whitmore e per finire Reed Sheppard all’ultimo Draft. In mezzo il cambio alla guida tecnica, con l’arrivo di Ime Udoka dopo essere uscito dalla sospensione dei Boston Celtics.

Una ricostruzione forse anche troppo veloce, visto che oggi Houston si trova a essere una delle squadre più sorprendenti a Ovest pur avendo tanti giocatori sotto i 23 anni, pieni di potenzialità ma ancora lontani dal concretizzarle. Quali di loro rappresenteranno le fondamenta dei nuovi Houston Rockets? Chi invece diventerà merce di scambio più o meno preziosa per arrivare a una stella o comunque a giocatori più adatti a quello che sarà il loro stile di gioco? Due domande che sono legate tra loro, perché ogni ricostruzione di successo implica delle scelte sia finanziarie che sportive. Per questioni contrattuali tenerli tutti è impossibile, e il fardello delle decisioni peserà sullo staff tecnico e sulla dirigenza.

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In realtà i Rockets una prima scelta l’hanno già fatta, concordando l’estensione del contratto da rookie di Alperen Sengun e Jalen Green nell’ultimo giorno disponibile. Lo hanno fatto in una maniera meno convenzionale, scegliendo di non offrire ai due il massimo a disposizione. Inoltre, se per Sengun la durata del contratto è di 5 anni con player option nell’ultima stagione, per Green hanno preferito un insolito accordo di tre anni, anche qui con possibilità per il giocatore di uscire dopo il secondo. Due contratti che inquadrano lo status dei due giocatori: Sengun sempre più una certezza per la franchigia, mentre più volatile il giudizio su Green, visto che si passa da partite in cui sembra un All-Star in divenire ad altre in cui i dubbi sulla sua comprensione del gioco e su quello che può diventare sono consistenti. Houston però non poteva rinunciare a cuor leggero a quella che è stata la scelta numero 2 al Draft, inquadrato al suo arrivo come la possibile pietra angolare della franchigia.

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Una cosa è certa: i Rockets vogliono rimanere flessibili. Dalla prossima stagione i contratti di Sengun e Green, anche messi assieme, non andranno mai oltre i 75 milioni di dollari (dati via Spotrac), una cifra non eccessiva in un contesto in cui il monte ingaggi a disposizione delle squadre è in costante aumento anno dopo anno. A questi due, in un futuro a breve termine, Houston potrà allora negoziare altri contratti dei giovani talenti che ritiene necessari al progetto. Sarà interessante vedere se, pur non arrivando alle cifre dei primi due, manterranno lo stesso approccio.

L’ORIGINE DELL’ATTACCO HA UN NOME E UN COGNOME
Fin dall’inizio della stagione la principale preoccupazione per i Rockets è stata l’identità offensiva. Ci vorrà tempo per trovare la giusta direzione: le statistiche al momento dicono che Houston ha il decimo offensive rating (115.1 punti su 100 possessi, via Cleaning the Glass), pur essendo ventiquattresima per canestri da tre punti realizzati a partita (11.9) con la ventiseiesima percentuale realizzativa da dietro l’arco (33.1%), nonché ultima per percentuale di canestri assistiti (54.0%, via NBA.com).

Sono numeri che riflettono una certa inconsistenza, tipico tratto giovanile fatto di alti e bassi. Le spaziature dei Rockets, ad esempio, sono un problema e, se dovessero arrivare ai playoff come sembra, lo saranno ancora di più. Ma è anche così che si costruisce una contender: provando e riprovando, sbattendo il muso sui limiti del roster e cercando di risolverli col tempo, anche capendo come disegnare le proprie gerarchie. A tal proposito è interessante notare come Houston stia sempre più decidendo di passare da Sengun. Il suo contributo non ha ancora raggiunto lo stile di Jokić e Sabonis, cioè quello di toccare oltre 75 palloni a partita (per la cronaca, Jokic viaggia a 113.2, Sengun a 61.5, via NBA.com), o quello che JJ Redick sta tentando di mettere in atto con Anthony Davis. Ma Sengun è quel tipo di giocatore attraverso il quale si può far passare un attacco, dato che ha sia visione che tocco per mettere in ritmo i compagni. Quando riceve in punta o al gomito, essenzialmente si può attivare ogni sorta di gioco a due e handoff con un compagno, split action tra guardie e ali, aprire l’area portando il lungo avversario fuori dal pitturato aprendo per eventuali tagli o penetrazioni dal palleggio.

Gli Houston Rockets sono molto vicini ad aver trovato il loro leader, e non soltanto tecnico. Sengun appare devoto alla causa, coinvolto emotivamente, e l’infortunio che gli ha fatto terminare anzitempo la scorsa stagione (e che alla vista sembrava particolarmente grave) è ormai alle spalle. Nel suo gioco si nota come sia ancora in una fase di creazione del bagaglio offensivo, che è già di altissimo livello. Le clip qui sopra dimostrano, oltre al talento, la predisposizione a “pensare” di squadra. Quelle qui sotto, invece, come sia anche una “guida” per i Rockets: un giocatore, seppur ancora molto giovane, che riesce a motivare i compagni, a scegliere i gesti e i passaggi giusti per metterli in ritmo e segnalargli le giocate degli avversari.

Non è tutto perfetto, ovviamente: Sengun è ultimo per percentuali nel pitturato tra i primi 50 centri per tentativi in NBA (80/144, pari al 56.5%, via NBA.com). Riguardo questo, è bene specificare che all’interno di questo campione Sengun è quello che registra la più alta percentuale di tiri non assistiti (66%). Non essendo una minaccia con i lob dei compagni, tanti di questi tiri arrivano da isolamenti e certo non vengono aiutati dalla poca pericolosità dei compagni fuori dall’arco, che permette alle difese di collassare sul di lui e rendergli la vita difficile. A ogni modo, in quel canestro in uno contro uno contro Rudy Gobert, è veramente difficile non intravedere qualcosa di Jokić.

Il resto della produzione offensiva degli Houston Rockets è piuttosto dipendente dal pick and roll, concluso direttamente da chi lo gioca oppure da un terzo compagno. I pilastri sono VanVleet e Sengun e da questa stagione non mancano le situazioni invertite tra i due, sempre più utilizzate dagli allenatori NBA per creare mismatch e confusione nelle difese avversarie. Se da una parte sono meritevoli di menzione i miglioramenti di Smith e Brooks al tiro da tre (entrambi sopra il 35% con oltre 4 tentativi a partita), le reali lacune riguardano il gioco offensivo delle guardie.

VanVleet e Green sono infatti tra i 10 giocatori con il più basso dato di punti realizzati per tiro dal campo tra le point guard e le combo guard che hanno un usage superiore al 20% (via Cleaning the Glass). Se VanVleet compensa con una gestione dei possessi efficiente, Green è ultimo per rapporto tra assist e possessi utilizzati e quinto per percentuali di palle perse (sempre tra point guard e combo guard). I tempi di uscita del pallone sono fondamentali per mantenere un vantaggio generato e, di nuovo, se Sengun riceve contro una difesa in rotazione, è bravissimo nel trovare il giusto passaggio per generare un tiro ad alta percentuale.

Il concetto di fondo dell’attacco di Houston è di creare tiri diversi e per diversi giocatori, e se poi si sbaglia un tiro (e ne sbagliano tanti, visto che le loro percentuali sono bassissime) si avventano a rimbalzo offensivo per sfruttare i loro mezzi fisici e atletici, come testimonia il dato di 34.5% di rimbalzi presi in attacco, il più alto di tutta la lega (dati Cleaning The Glass). I Rockets sono poi molto bravi a non buttare via il pallone (quarti migliori in NBA), il che permette al loro attacco di rimanere nei dintorni della top-10.

L’ORIGINE DELLA DIFESA HA BEN PIÙ DI UN NOME E UN COGNOME
Ime Udoka è sempre stato considerato uno specialista difensivo e l’impatto del suo lavoro sulla difesa di Houston è evidente. L’allenatore ha responsabilizzato i giocatori, credendo nella capacità individuale di tutti di reggere il confronto col proprio avversario, limitando al minimo le rotazioni o gli aiuti, che possono concedere tiri facili. Allo stesso tempo, però, non mancano situazioni in cui concede al difensore la libertà di lasciare il proprio uomo e aumentare la pressione sul palleggiatore avversario.

È una scelta meticolosa e studiata, il cui obiettivo principale è ridurre il numero di tiri da tre punti concessi: prima del suo arrivo, gli Houston Rockets erano trentesimi per frequenza percentuale avversaria, oggi sono secondi con solo il 35.6% (via Cleaning the Glass). Questa impostazione difensiva, unita all’atletismo del roster, con molti giocatori abbastanza versatili da non soccombere in casi di cambi, limita il movimento palla degli avversari e quindi il numero di canestri assistiti: nessuno più dei Rockets ne concede meno (22 a partita, via NBA.com).

La crescita in efficienza di squadra (valutabile con i miglioramenti nel Net Rating) non è quindi dettata da un’esplosione offensiva, ma dalla capacità di Udoka di creare uno stile difensivo che ben si sposa con le caratteristiche della squadra e soprattutto una mentalità difensiva forte. Come lui stesso l’ha definito, è un aspetto «non negoziabile». Prima del suo arrivo il differenziale su 100 possessi degli Houston Rockets era -8.6 punti, il primo anno è passato a +2.1 e oggi si assesta a +8.3 con il terzo miglior dato di defensive rating (via Cleaning the Glass).

Una delle ragioni è la crescita di Amen Thompson. La combinazione di difesa perimetrale e prontezza in aiuto lo mettono già oggi nell’élite degli specialisti difensivi della NBA. Poter schierare un trio composto da lui, Brooks e Eason permette di avere una difesa in cui difficilmente esistono mismatch sfavorevoli: ognuno dei tre può difendere sul centro avversario e immediatamente cambiare su una guardia senza concedere troppo. Non è un caso se, in alcune circostanze, Udoka ha scelto di tenere Thompson in campo al posto di Green in momenti chiave di una gara: in 107 possessi in campo, il quintetto titolare con Thompson al posto di Green, registra un’efficienza difensiva di 91.6 punti, un dato irreale considerando che la media in NBA è di 113.9.

Non uno ma due esempi in cui Thompson da solo decide di vincere la partita: un manifesto di totale intimidazione contro l’avversario fatta di atletismo e verticalità, estrema rapidità e incredibile lavoro di mani. In una lega di super atleti, Thompson potrebbe essere il migliore in assoluto.

La naturale conseguenza è che gli Houston Rockets attaccano tanto in campo aperto, e non c’è niente di meglio per un attacco asfittico come il loro. Dopo il rimbalzo difensivo, aprono la transizione e in media segnano 121.4 punti su 100 possessi (sesto dato della lega) e la continuità con cui queste situazioni si verificano è passata dal venticinquesimo al nono dato (30.8%, via Cleaning the Glass).

Di solito, quando si cerca di togliere il tiro da tre agli avversari, a pagare è la difesa interna. Ed è vero: i Rockets sono la 20° squadra della NBA per frequenza di tiri concessi dal pitturato e la 24° per tiri al ferro, ma se si guarda quanto gli avversari segnano, i conti tornano. La banda di Udoka è prima per minor percentuale concessa nel pitturato e terza al ferro (via Cleaning the Glass). Questo perché più la difesa è in grado di tenere senza concedere aiuti, più c’è possibilità di contestare il tentativo dal campo e ridurne la qualità. In più, non appena si attiva un aiuto, soprattutto quando ci si avvicina a canestro, la fisicità dei giocatori in campo permette di forzare e rallentare gli scarichi, in modo da avere una finestra di tempo maggiore per recuperare e limitare i tiri completamente aperti.

Nella clip sotto si nota la pressoché totale disponibilità di Houston di cambiare lontano o sulla palla e di farlo in modo automatico. C’è poi un altro aspetto di cui si parla poco: i notevoli miglioramenti di Sengun a protezione del ferro. In questa stagione riduce la percentuale realizzativa di tiri entro i 3 metri dal canestro del -5.6% (era -2.0% nel 2023/24, via NBA.com) e questo è solo uno dei fattori che hanno portato il suo On/Off per efficienza difensiva da +2.0 a 8.8: Sengun è il giocatore con il quinto più alto incremento di questo dato rispetto alla passata stagione (via BBall Index).

Una difesa ben organizzata poi diventa valida in tutte le situazioni, e aiuta anche giocatori come Sengun, cioè non un difensore naturale, in situazioni come il pick and roll. Proprio per ridurre il numero di tiri da tre punti e canestri assistiti, gli Houston Rockets preferiscono mantenere il gioco come un due contro due, ma non esiste schema rigido: ognuno deve saper quando è necessaria una rotazione, ad esempio contro avversari che non sono una minaccia (come Martin Jr nella seconda clip). Inoltre, è una questione di interpretazione: se il pallone è in mano a un giocatore come Edwards, la difesa sarà più aggressiva e quindi c’è maggiore responsabilità per la seconda linea difensiva (clip 3 e 4).

Gli Houston Rockets continueranno a crescere, perché così avviene per le squadre giovani ricche di talento in più posizioni e con una direzione precisa. I segnali in questa prima ventina di partite della stagione sono evidenti, anche se non mancano i problemi: la difficoltà nell’eseguire sotto pressione, così come alcuni passaggi a vuoto, oltre a una doppia anima offensiva – una più da attacco a metà campo con Sengun, una più da corsa senza – che prima o poi andranno bilanciate meglio. Come detto, però, questa è la stagione della semina, quella dove raccogliere dati, provare cose, capire quale direzione prendere. La franchigia, probabilmente, non è ancora pronta a competere ad altissimo livello, ma le decisioni prese negli scorsi anni stanno mostrando i loro frutti e questa è già una vittoria in una lega in cui ricostruire è sempre difficile, soprattutto in un mercato non di alto livello. Per il futuro vedremo, intanto Houston è tornata sulla mappa delle squadre che contano.

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Pesaro, 26 anni. Avido consumatore di pallacanestro, interessato a tattica e numeri.

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