L'ultima volta che gli Houston Rockets hanno vinto 14 o più gare delle prime 20 era il 2017/18: Daryl Morey era il General Manager, Mike D’Antoni l’allenatore e James Harden il potentissimo fulcro offensivo a guida di un sistema eliocentrico fatto di isolamenti (14.5% di frequenza di possessi, primi a +4.0 sui Thunder secondi) e tiri da tre punti (42.3 a partita, +6.6 sui Nets al secondo posto). Era anche la stagione in cui la franchigia andò più lontano in postseason, portando i Golden State Warriors di Curry, Thompson, Green e Durant a gara 7 delle finali di Conference. Sì, è la serie caratterizzata dal fatidico infortunio a Chris Paul in Gara-5 e del 7 su 44 da dietro l’arco nell’ultima gara casalinga, di cui 27 consecutive. Dopo non aver più superato le semifinali ad Ovest nei due anni successivi, la squadra è stata smantellata a partire dai ruoli di GM e head coach fino alla trade che ha portato James Harden a comporre i Big Three ai Brooklyn Nets con Kyrie Irving e Kevin Durant.
Dopo la cessione del Barba Houston ha fatto tabula rasa, ripartendo dalle scelte ricevute al Draft e da alcune stagioni tremende dal punto di vista del record (appena 59 vittorie nel triennio tra il 2020/21 e il 2022/23). In questo lasso di tempo, tra una sconfitta e l’altra, la franchigia ha saputo però costruire una squadra ricca di prospetti: prima Jalen Green e Alperen Sengun, poi Jabari Smith e Tari Eason, Amen Thompson e Cam Whitmore e per finire Reed Sheppard all’ultimo Draft. In mezzo il cambio alla guida tecnica, con l’arrivo di Ime Udoka dopo essere uscito dalla sospensione dei Boston Celtics.
Una ricostruzione forse anche troppo veloce, visto che oggi Houston si trova a essere una delle squadre più sorprendenti a Ovest pur avendo tanti giocatori sotto i 23 anni, pieni di potenzialità ma ancora lontani dal concretizzarle. Quali di loro rappresenteranno le fondamenta dei nuovi Houston Rockets? Chi invece diventerà merce di scambio più o meno preziosa per arrivare a una stella o comunque a giocatori più adatti a quello che sarà il loro stile di gioco? Due domande che sono legate tra loro, perché ogni ricostruzione di successo implica delle scelte sia finanziarie che sportive. Per questioni contrattuali tenerli tutti è impossibile, e il fardello delle decisioni peserà sullo staff tecnico e sulla dirigenza.
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In realtà i Rockets una prima scelta l’hanno già fatta, concordando l’estensione del contratto da rookie di Alperen Sengun e Jalen Green nell’ultimo giorno disponibile. Lo hanno fatto in una maniera meno convenzionale, scegliendo di non offrire ai due il massimo a disposizione. Inoltre, se per Sengun la durata del contratto è di 5 anni con player option nell’ultima stagione, per Green hanno preferito un insolito accordo di tre anni, anche qui con possibilità per il giocatore di uscire dopo il secondo. Due contratti che inquadrano lo status dei due giocatori: Sengun sempre più una certezza per la franchigia, mentre più volatile il giudizio su Green, visto che si passa da partite in cui sembra un All-Star in divenire ad altre in cui i dubbi sulla sua comprensione del gioco e su quello che può diventare sono consistenti. Houston però non poteva rinunciare a cuor leggero a quella che è stata la scelta numero 2 al Draft, inquadrato al suo arrivo come la possibile pietra angolare della franchigia.
Una cosa è certa: i Rockets vogliono rimanere flessibili. Dalla prossima stagione i contratti di Sengun e Green, anche messi assieme, non andranno mai oltre i 75 milioni di dollari (dati via Spotrac), una cifra non eccessiva in un contesto in cui il monte ingaggi a disposizione delle squadre è in costante aumento anno dopo anno. A questi due, in un futuro a breve termine, Houston potrà allora negoziare altri contratti dei giovani talenti che ritiene necessari al progetto. Sarà interessante vedere se, pur non arrivando alle cifre dei primi due, manterranno lo stesso approccio.
L’ORIGINE DELL’ATTACCO HA UN NOME E UN COGNOME
Fin dall’inizio della stagione la principale preoccupazione per i Rockets è stata l’identità offensiva. Ci vorrà tempo per trovare la giusta direzione: le statistiche al momento dicono che Houston ha il decimo offensive rating (115.1 punti su 100 possessi, via Cleaning the Glass), pur essendo ventiquattresima per canestri da tre punti realizzati a partita (11.9) con la ventiseiesima percentuale realizzativa da dietro l’arco (33.1%), nonché ultima per percentuale di canestri assistiti (54.0%, via NBA.com).
Sono numeri che riflettono una certa inconsistenza, tipico tratto giovanile fatto di alti e bassi. Le spaziature dei Rockets, ad esempio, sono un problema e, se dovessero arrivare ai playoff come sembra, lo saranno ancora di più. Ma è anche così che si costruisce una contender: provando e riprovando, sbattendo il muso sui limiti del roster e cercando di risolverli col tempo, anche capendo come disegnare le proprie gerarchie. A tal proposito è interessante notare come Houston stia sempre più decidendo di passare da Sengun. Il suo contributo non ha ancora raggiunto lo stile di Jokić e Sabonis, cioè quello di toccare oltre 75 palloni a partita (per la cronaca, Jokic viaggia a 113.2, Sengun a 61.5, via NBA.com), o quello che JJ Redick sta tentando di mettere in atto con Anthony Davis. Ma Sengun è quel tipo di giocatore attraverso il quale si può far passare un attacco, dato che ha sia visione che tocco per mettere in ritmo i compagni. Quando riceve in punta o al gomito, essenzialmente si può attivare ogni sorta di gioco a due e handoff con un compagno, split action tra guardie e ali, aprire l’area portando il lungo avversario fuori dal pitturato aprendo per eventuali tagli o penetrazioni dal palleggio.