C'era anche un ragazzo della buona borghesia nella Francia campione del mondo 2018, costretta nelle etichette di “squadra delle banlieue” che molte mani le hanno appiccicato sopra.
Tra i Pogba, i Kanté, i Matuidi, dei sobborghi parigini – stigmatizzati fin quando non serve raccontarli come base di un riscatto – tra i campioni simbolo del talento che salva dalla marginalità, c'era anche Hugo Lloris, il capitano. Cresciuto in Costa Azzurra, diplomato al Liceo scientifico, figlio di un'avvocatessa d'affari e di un banchiere che lavora a Monte Carlo.
Introverso ma non solitario. Calmo, misurato, elegante. Nel gioco e nel comportamento. Se sbaglia in campo, sulle prime rimane imperturbabile: l'analisi la fa solo dopo, quand'è completamente lucido, ha spiegato suo padre.
Da anni Lloris non ha un agente: amministra da solo il proprio percorso. Veste ininterrottamente la fascia da capitano della nazionale francese dall'autunno 2011, quando ancora doveva compiere venticinque anni. È sempre sembrato più maturo della sua età. Ha sposato la fidanzata del liceo, Marine, con cui ha avuto due figlie (le hanno chiamate Anna-Rose e Giuliana). Ha una pagina Instagram da febbraio scorso, la usa con estrema sobrietà.
Per tutte queste ragioni, il suo fermo per guida in stato d'ebbrezza, la notte dello scorso 24 agosto, crea un cortocircuito.
Foto di Clive Mason / Getty Images
Nasce a Nizza, il 26 dicembre 1986. A Nizza si forma da calciatore, portato nel 1997 dall'ex portiere della nazionale Dominique Baratelli, e a Nizza diventa professionista. A Nizza sposa la fidanzata di sempre, con un primo matrimonio in chiesa e un secondo celebrato dal sindaco in Comune.
A Nizza, nei suoi posti, torna appena ha qualche giorno libero. Dice che stare con gli amici di sempre, lo stesso gruppo dai tempi del liceo («Le mie guardie del corpo», li definisce), gli permette di «mantenere il contatto col mondo reale, prendere coscienza dei miei privilegi».
Comunque Lloris non è il tipo di persona mutevole, che cambia a seconda di dove si trova. Le testimonianze di chi lo conosce da anni concordano sul fatto che il suo successo non l'ha trasformato sotto nessun aspetto. È sempre lo stesso, nel tempo. Come il paio di guanti che lo accompagna da quando ha diciassette anni. Ed è sempre lo stesso nei vari contesti, Lloris: «In un ricevimento ufficiale come al barbecue del sabato pomeriggio», dice il suo preparatore all'Olympique di Lione.
Da ragazzino dimostra subito di essere bravo e determinato. Durante un allenamento, va a sbattere sul palo per raggiungere il pallone: rialzandosi, si rivolge a chi ha tirato: «Visto? Mi sono spaccato il sopracciglio, ma tu non hai segnato».
La sua professoressa di Storia e Geografia al liceo ricorda quanto Hugo non fosse portato per le sue materie, ma si impegnasse come se lo fosse. Ricorda anche che lei ignorava completamente che giocasse a pallone parallelamente agli studi: solo anni dopo il diploma, ha scoperto che Lloris facesse “sport ad alti livelli”.
Negli "Aiglons" rossoneri ha compiuto l'intero percorso delle giovanili. Senza aver ancora debuttato in prima squadra, aveva vinto da titolare l'Europeo 2005 con la nazionale U19 (tra gli altri c'erano Gourcuff e Cabaye). L'inserimento graduale ha portato i suoi frutti: dopo tre stagioni di Ligue 1, Lloris è stato pronto per una squadra più ambiziosa.
Nizza, stagione 2007-08. Il mestiere del portiere. (foto di Valery Hache / Getty Images)
Aveva iniziato a giocare a pallone a Cimiez, sulle colline nizzarde. A sei anni, in un centro culturale e sportivo per giovani, il CEDAC.
Il padre non si stupì che Hugo scegliesse di fare il portiere, essendo «molto simili le qualità di base tra il tennista e il portiere, dal senso della posizione alla concentrazione». Fin dai tre anni, in effetti, prima che il calcio prendesse il sopravvento, Hugo aveva mostrato un talento nel tennis.
È un padre molto presente, Luc Lloris (il cognome ha origini catalane), che quando guarda le partite del figlio interpreta ogni suo gesto per capirne lo stato d'animo, e si considera troppo coinvolto: «Non è mai un piacere, per me, assistere. Perché io mi senta bene, non basta neanche la vittoria: serve che Hugo sia stato decisivo».
Se deve indicare cosa gli abbiano insegnato i genitori, Hugo sceglie «il rispetto, il piacere del lavoro e l'apertura verso gli altri». A lui e ai suoi fratelli: una sorella maggiore e un fratello molto più giovane (classe '95), difensore, che è un tesserato del Nizza ma in prima squadra ha giocato solo 96 minuti.
Ad aprile 2008, la madre muore per un cancro. Poche settimane dopo, Lloris lascia la terra dov'è nato e firma con il Lione. A novembre, poi, l'esordio tra i pali della nazionale francese. In pochi mesi, la sua vita è stravolta.
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Arriva a Lione quando il club ha concluso un ciclo trionfale. La rifondazione di una squadra che ha vinto ogni campionato degli ultimi sette anni, passa anche per l'avvicendamento in porta: Lloris subentra alla bandiera Grégory Coupet.
Nelle quattro stagioni successive, il club non vince che una coppa di Francia e una Supercoppa nazionale. Lui, comunque, si dimostra portiere affidabile e con importanti margini di crescita.
È in quel periodo che la TF1 vuole dedicargli uno spazio nella famosa trasmissione “Téléfoot”. Lloris rifiuta. L'emittente insiste. Lui pone due condizioni per accettare: due minuti al massimo e nessuna celebrazione che lo presenti come il miglior portiere del mondo.
Ed è in quel periodo che nasce la prima delle sue figlie. La paternità, dice, ha cambiato il suo modo “di essere e di vedere” ma non il suo modo di stare in campo.
In generale, anche oggi, Lloris mantiene una certa distanza nelle interviste: una strategia dichiarata per proteggere i propri cari e i propri compagni di squadra. Anzi, dello spogliatoio, per principio, non parla nemmeno a suo padre.
Dopo la semifinale di quest'estate con il Belgio, gli è stato chiesto di commentare una parata importante che ha fatto. Lloris ha nicchiato, poi ha detto: «È difficile parlare di sé».
Giugno 2008, la presentazione a Lione. Il disagio di fronte ai giornalisti. (foto di Philippe Merle / Getty Images)
La svolta professionale arriva quando il Tottenham lo acquista (per una cifra che oggi considereremmo molto bassa: 12,6 milioni di Euro) nell'estate 2012. Nelle gerarchie, Lloris sembra partire dietro a Brad Friedel. Conquisterà già nei primi mesi, pazientemente, il posto da titolare e la fiducia dell'ambiente.
Questa appena iniziata è la sua settima stagione con gli "Spurs", la quinta da capitano. Vive nel sobborgo londinese di East Finchley, a una manciata di miglia da White Hart Lane.
Non si lascia trascinare dalle emozioni. Semmai, con freddezza le trasforma in qualcosa di utile. Tre giorni dopo la morte di sua madre, Lloris decide di scendere in campo regolarmente per una gara di campionato contro il Lille. Il pubblico nizzardo gli tributa un minuto di silenzio, lui mantiene la porta inviolata.
Il padre ha raccontato uno di quei rari episodi in cui Lloris ha perso il controllo. Espulso per un fallo che non aveva commesso, in una delle prime gare in Nazionale, Hugo gli telefonò dagli spogliatoi. Era affranto: «La Nazionale... È tutto finito».
Novembre 2008. Allenamento a Clairefontaine, poche ore prima dell'esordio in nazionale (accanto a lui, Alain Boghossian; foto di Franck Fife / Getty Images).
Non era finito niente. Presto sarebbe diventato campione del mondo e vicecampione d'Europa. Sarebbe diventato il portiere con più presenze nella storia dei "Bleus". A novembre festeggerà i dieci anni dalla prima volta. Il giorno della finale contro la Croazia, ha anche superato il numero di presenze del CT Deschamps.
In realtà non è stata una grande finale per lui, a livello individuale: il gol di Mandžukić, nato da un suo improbabile dribbling, avrebbe potuto rimettere la Croazia in partita. E se fosse successo, su Lloris sarebbe quasi certamente calato il marchio del perdente. Perché un errore, per sua stessa ammissione, l'aveva fatto anche nell'altra finale della sua vita: contro il Portogallo, agli Europei 2016, quando il tiro di Eder lo aveva infilato con troppa facilità.
Invece, su Lloris è calato l'alloro del capitano che alza la Coppa del Mondo. Dopo la vittoria in Russia, la rete metropolitana di Parigi ha festeggiato lui e altri compagni modificando per un giorno il nome di alcune stazioni: così la fermata “Victor Hugo” è diventata “Victor Hugo Lloris”.
Foto di Odd Andersen / Getty Images
Se non si lascia andare praticamente mai, viene da pensare, è per mantenere la concentrazione. O meglio: per la paura che l'indulgenza sia un modo di adagiarsi, e quindi smarrirsi.
La visione di Lloris è chiara, in questo senso: «Un portiere si costruisce parata dopo parata. Anche se ognuna è tecnicamente simile a decine d'altre, ognuna è diversa: perché chi l'ha fatta è un homme à part».
Il rigore e la durezza verso se stesso sono due caratteristiche fondamentali di Hugo, secondo il padre: «È implacabile, non si perdona niente».
Non superare il controllo stradale di routine, essere portato alla stazione di polizia, dover versare una cauzione per essere liberato, trovarsi sui giornali per una condotta da persona irresponsabile e da atleta poco serio: tutto questo dev'essere stato bruciante come uno shock.
Il pomeriggio stesso del 24 agosto, Lloris rilascia una breve dichiarazione in cui si scusa con tutti: la famiglia, il club, i compagni, il manager, i tifosi.
Un'altra volta, anni fa, aveva dovuto rispondere di un comportamento non da lui.
Stagione 2010-11. Il suo Lione è in vantaggio per 2-0 in trasferta, ma viene rimontato e raggiunto nei minuti di recupero: la partita finisce con un clamoroso pareggio. Camminando ed entrando negli spogliatoi, Lloris non si tiene: di spalle alle telecamere che lo seguono, fa una sfuriata ai compagni, grida come solo le persone calme sanno gridare.
La partita si gioca a Nizza, esattamente in corrispondenza del terzo anniversario della morte della madre.
Giorni dopo, quando in tv gli chiedono un commento sulla sua reazione (il giornalista la definisce “stupefacente”), Lloris dice: «È stata una reazione umana».