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African Hunger Games
30 mar 2015
La strana storia di Football Dreams, un incrocio tra un reality e una battaglia all'ultimo sangue, con cui il Qatar sta re-inventando il calcio africano.
(articolo)
15 min
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Nella foto profilo del suo account Twitter, Diawandou Diagne ha un sorriso molto tirato, gli occhi semichiusi a causa del sole contrario, il pollice alzato. Indossa una tuta viola del Barcellona su cui campeggia il logo della Qatar Airways in bianco. Se le immagini valessero davvero più di mille parole, potrei fermarmi qui.

Quello che l’immagine non dice è che Diagne è uno dei prospetti più interessanti del Barcellona B. Il sito ufficiale della squadra catalana lo descrive come un difensore centrale forte fisicamente, bravo ad uscire dalla difesa palla al piede. Viene definito un “leader naturale”.

La prima intervista di Diagne. Il primo pensiero è per la sua famiglia, in Senegal.

La sua infanzia a Thiès, settanta chilometri a est di Dakar, si può ricostruire senza troppi sforzi di immaginazione. Non sappiamo se da piccolo Diagne giocasse scalzo tutto il giorno in uno di quei campi in terra battuta arancione che vediamo negli spot dell’UNICEF, non lo sappiamo perché non esistono informazioni sulla sua infanzia, non c'è certezza nemmeno sulla sua data di nascita. Prima dei tredici anni Diagne è solo un numero, forse annoverato in qualche statistica delle Nazioni Unite sugli indici di povertà in Africa.

Quella di Diagne assume la consistenza di una storia vera e propria solo quando, all’inizio del 2008, i suoi genitori decidono di farlo partecipare ai provini di Football Dreams.

Sweet dreams are made of _______?

Quando si presenta ai provini Diagne è solo uno dei 430mila bambini che gli scout stanno valutando tra Senegal, Camerun, Ghana, Marocco, Kenya, Nigeria e Sud Africa. Spiegare Football Dreams non è semplice, a cominciare da quel nome che fa pensare ad un reality show. Se si va sul sito ufficiale la prima espressione utilizzata per descriverlo è “progetto umanitario”. In realtà somiglia di più a Hunger Games, il romanzo/film in cui ragazzi e ragazze pescati casualmente tra le regioni più povere sono costretti ad uccidersi tra di loro in un’arena costruita apposta, per il piacere delle classi più agiate che li guardano in tv.

Football Dreams ha l’obiettivo dichiarato di scovare i migliori calciatori in circolazione tra i bambini di 16 Stati diversi. La prima fase consiste nello screening di diverse partite da 25 minuti ognuna. Ogni anno vengono scremati circa mezzo milione di bambini in 22mila partite diverse. Dal 2007, anno in cui è partito il progetto, a oggi, lo screening ha coinvolto oltre 3,5 milioni di ragazzi, quasi il doppio della popolazione del Qatar.

Alla fine della prima fase viene stilata una sorta di classifica in cui solo i primi cinquanta possono passare a quella successiva. A quel punto la brutalità della competizione aumenta: i migliori cinquanta sono invitati nella capitale dei rispettivi Paesi per sfidarsi tra di loro per 3-4 giorni. Dopodiché gli scout (guidati da Josep Colomer, il leggendario osservatore del Barcellona che per primo si accorse di Messi) fanno un’ulteriore scrematura e selezionano i migliori tre. Ma non sono ancora arrivati al traguardo.

I migliori tre di ogni Paese formano una squadra di 48 bambini che si allenerà per un mese a Dakar o a Doha, dove avverrà la selezione finale. Quest’ultima consiste in 20 giocatori, tra i 13 e i 15 anni, allenati e istruiti nelle avveniristiche strutture dell’Aspire Academy, in Qatar, dove verranno trasformati in calciatori professionisti.

20 su mezzo milione ce la fanno

Fondata nel 2004 a Doha, l’accademia è costituita da uno stadio da 50mila posti, il centro sportivo indoor più grande del mondo (è a sua volta costituito da una pista d’atletica, un campo da calcio e uno in parquet per la ginnastica), quattro piscine olimpioniche, innumerevoli palestre e campi da calcio all’aperto. L’Aspire Academy, oltre a vivere in funzione del progetto Football Dreams, ospita anche i ritiri invernali di molti top club europei (tra cui Real Madrid, Bayern Monaco, Manchester United e PSG) ed è la sede di un torneo giovanile internazionale, l’Al Kass International Cup.

Oltre a vitto, alloggio e istruzione, ad ognuno dei venti ragazzi vincitori di Football Dreams viene offerto un piccolo stipendio, biglietti aerei gratuiti per fare visita a casa e 5mila dollari l’anno per il mantenimento delle proprie famiglie. Diagne è uno dei venti vincitori dell’edizione 2008, lo 0,005% di coloro che si erano presentati inizialmente.

Formalmente il progetto Football Dreams finisce qui. Nella realtà dei fatti i giocatori continuano ad essere controllati dalla proprietà Aspire ancora per qualche anno. Il disegno qatariota, infatti, si completa con il KAS Eupen: il club di serie B belga acquistato dalla Aspire nell’estate del 2012.

Ma la proprietà araba non ha nessuna intenzione di trasformare questa squadra semisconosciuta in una superpotenza mondiale, come sta facendo con il PSG. Il KAS Eupen serve unicamente come trampolino di lancio per l’arena principale: il calcio europeo. In altre parole, i talenti africani allevati in Qatar passano qui l’ultimo periodo della loro crescita calcistica, di solito tra i 16 e i 20 anni, prima di essere smistati nelle varie squadre europee interessate. Lo stesso Diagne ha passato qui due anni (dal 2012 al 2014) prima di essere venduto al Barcellona.

Il KAS Eupen ha lo sponsor dell’Aspire ma perde ugualmente 7-0 nei sedicesimi di finale della Coppa del Belgio contro l’Anderlecht. Diagne è il capitano.

Ci si potrebbe chiedere che motivo c’era di andare fino in Belgio quando un club in Europa, il PSG, era già nelle mani della stessa proprietà. Le motivazioni sono tre.

Frontiera belga

La prima, la più importante, è che il Belgio, al contrario della Francia, non ha limiti al tesseramento di extracomunitari in squadra. Su 32 giocatori totali, il KAS Eupen ha attualmente 19 extracomunitari, africani (da Senegal, Camerun, Mali, Costa d’Avorio e Nigeria) e qatarioti.

La seconda è che fino al primo gennaio del 2013 il Belgio era il Paese europeo dove era più facile ottenere la cittadinanza: bastavano tre anni di residenza. Avere un passaporto comunitario aumenta esponenzialmente il mercato dei giovani cresciuti in Qatar. Adesso il periodo di residenza necessario è stato allungato a cinque anni, che rimane comunque molto breve per la media europea (in Italia, ad esempio, ce ne vogliono dieci).

L’ultima motivazione, che poi è quella ufficiale della dirigenza qatariota, è che il Belgio è un Paese anche francofono e in questo modo favorisce l'integrazione dei ragazzi, provenienti principalmente dai Paesi del Golfo di Guinea, che già conoscono il francese. Quest’ultima spiegazione è quella che regge meno alla prova dei fatti, trovandosi il club in una zona germanofona del Belgio.

Nazionalismo qatariota?

Secondo alcuni, l’intero progetto avrebbe l’obiettivo di naturalizzare i giovani scoperti, così che il Qatar possa presentarsi al Mondiale del 2022 con una squadra competitiva. D’altra parte non sarebbe una pratica nuova per il piccolo emirato del Golfo. È successo, per esempio, ai Mondiali di pallamano, dove il Qatar è arrivato a sorpresa in finale grazie ad una squadra costruita su giocatori europei naturalizzati.

Ma la teoria non è convincente. Innanzitutto è improbabile che il Qatar possa avere una Nazionale competitiva nel 2022, anche naturalizzando tutti i talenti prodotti da Football Dreams. In secondo luogo, le regole FIFA per “naturalizzare” un giocatore nella propria Nazionale sono molto più rigide rispetto ad altri sport, come la stessa pallamano. Il giocatore deve aver giocato per almeno cinque anni ininterrottamente nel territorio del Paese in questione dopo i 18 anni, e non deve aver disputato due o più partite ufficiali consecutive con un’altra Nazionale.

Non sembra (almeno per adesso) che né il Qatar né i vincitori di Football Dreams abbiano intenzione di seguire questa strada. L’emirato del Golfo ha vinto la Coppa d’Asia U-19 presentando solamente un naturalizzato in squadra (ovviamente di origine senegalese). Diagne, dal canto suo, ha esordito con il Senegal nel maggio dello scorso anno dopo aver giocato sia nell’U-17 che nell’U-20 della compagine africana.

Dopo le accuse di corruzione e il mancato rispetto dei diritti umani, Doha sa di avere tutti gli occhi addosso e presentare una squadra di soli naturalizzati la metterebbe ulteriormente in discussione.

«Cosa succederà se naturalizziamo alcuni giocatori? Everyone will kill us», ha dichiarato Andreas Bleicher, direttore degli affari internazionali dell’Aspire, al New York Times. Il che non vuol dire che si tratti di una teoria del tutto falsa. È probabile che il Qatar naturalizzerà alcuni giocatori per farli giocare nella propria Nazionale, ma si può escludere che l’obiettivo principale di Football Dreams sia questo. Al massimo si tratterà di un gradito effetto collaterale.

Sistema di potere?

Un’altra teoria molto quotata è che Football Dreams sia servito al Qatar per “comprarsi” l’assegnazione dei Mondiali del 2022.

Dal 2007 a oggi il progetto qatariota si è gradualmente espanso a Paesi rappresentati nell’onnipotente comitato esecutivo della FIFA, cioè l’organo che di fatto decide l’assegnazione dei Mondiali: il Guatemala, la Thailandia, la Costa d’Avorio, il Camerun e il Paraguay (che però non è più nel comitato dal 2013).

La teoria è che il Qatar abbia portato soldi e pubblicità a queste federazioni che, in cambio, si sarebbero “convinte” della bontà della candidatura di Doha. Anche in questo caso siamo di fronte ad una verità parziale. Non si può escludere che il Qatar abbia utilizzato Football Dreams per fare pressioni su queste federazioni e portare acqua al suo mulino. Anzi, sembra probabile, ma non si può affermare che sia questo lo scopo principale di Football Dreams. Non bisogna dimenticare che la famiglia reale qatariota, con le sue disponibilità economiche, possiede altri mezzi ben più concreti per persuadere dei rappresentanti.

Il calcio è il nuovo petrolio?

Per capire perché un Paese senza alcuna tradizione calcistica abbia deciso di cercare talenti in Africa bisogna tornare indietro di qualche anno, scavando nel terriccio della sua storia per individuarne le radici.

Il Qatar è una porzione di deserto grande poco più della Campania da cui l’impero britannico importava perle e dove i pochi abitanti vivevano in povertà. Dopo la fine del dominio coloniale, arrivata con l’indipendenza del 1971, il Qatar scopre alcune delle più grandi riserve di petrolio e gas naturale al mondo. E con lo sfruttamento industriale degli idrocarburi diventa in pochi anni uno dei Paesi più ricchi al mondo. La ricchezza e il potere si concentrano nelle mani della famiglia reale Al Thani, che può disporre a suo piacimento di somme di denaro immense senza avere nemmeno la seccatura di dover dar conto alla società civile.

Alla fine degli anni ’90, però, ci si è resi conto che persino le mastodontiche riserve di combustibili fossili del Qatar un giorno finiranno. Dato che la famiglia reale si è abituata ad avere rubinetti d’oro e a mandare i propri figli in prestigiose università britanniche, viene deciso di reinvestire le somme derivanti dall’esportazione di idrocarburi in attività produttive: compagnie aeree, aziende high-tech, banche, e così via, in modo che un giorno (il governo di Doha spera già a partire del 2030) il Qatar possa sostenersi senza fare affidamento solo su petrolio e gas naturale.

Tra i settori adatti a reinvestire i risparmi della famiglia Al Thani viene scelto anche il calcio. L’idea è di Jassim bin Hamad Al Thani, fratello dell’attuale emiro e unico vero appassionato di calcio all’interno della famiglia reale qatariota. Ma forse più che appassionato bisognerebbe dire ossessionato. Si dice che Jassim abbia ricoperto la parete di fronte al proprio letto di televisioni sintonizzate 24 ore su 24 su partite di calcio diventando insonne.

Un documentario sull’Aspire Academy realizzato da Al Jazeera, anch’essa di proprietà della famiglia Al Thani.

Jassim ha intuito che investire sulle compravendite dei calciatori è un ottimo affare. Le vie attraverso cui i soldi spesi per Football Dreams tornano a Doha sono principalmente tre. La prima, la più ovvia, è la vendita diretta dei giocatori: la cessione di Diagne al Barcellona, solo per fare un esempio, dovrebbe ammontare a 12 milioni di euro.

La seconda è rappresentata dai diritti d’immagine. I giovani che entrano nel mondo Aspire cedono i propri diritti d’immagine alla dirigenza qatariota attraverso contratti molto rigidi. I diritti d’immagine sono ormai una fonte di ricavi enorme, almeno per i giocatori più famosi, rappresentando praticamente un secondo stipendio.

La terza si chiama contributo di solidarietà. Questa regola prevede che il 5% di ogni trasferimento vada alle società che hanno contribuito a crescere il giocatore, calcisticamente parlando. Le regole FIFA dividono questo contributo a seconda del numero di anni che quel giocatore ha passato tra club e accademie giovanili tra i 12 e i 23 anni. In questo modo, il ritorno economico dell’Aspire non si esaurisce al momento della vendita di Diagne, ma si prolunga ogni volta che il senegalese viene trasferito da una società a un’altra.

Se il Barcellona, ad esempio, vende Diagne a 20 milioni di euro, l’Aspire ottiene il 65% del 5% di quella cifra (ovvero 650mila euro) per averlo cresciuto tra il 13esimo e il 20esimo anno d’età.

Il giro d’affari in cui si vuole inserire l’Aspire è già oggi considerevole, e soprattutto è destinato a salire. Tra il 2011 e il 2013 il contributo di solidarietà ha superato i 250 milioni di dollari solo per quanto riguarda i club europei. Nel frattempo il numero degli scambi continua ad aumentare. Secondo la FIFA, il valore delle sole compravendite internazionali di calciatori (cioè tra club appartenenti a federazioni diverse) è arrivato nel 2014 a 3,6 miliardi di dollari. Tutto ciò senza calcolare che ci sono diverse proposte per aumentare le percentuali destinate al contributo di solidarietà.

Africa is the future

Se si guarda alla geografia di quell’enorme Risiko che è Football Dreams si noterà subito che ben 11 bandierine su 16 sono piazzate in Africa. La seconda capitale del progetto è Saly, in Senegal, dove l’Aspire ha aperto una succursale dell’accademia di Doha. I Paesi non africani (Vietnam, Thailandia, Paraguay, Guatemala e Costa Rica) sono stati aggiunti solo in un secondo momento e, come abbiamo visto, per ragioni che sono molto al di là delle finalità di Football Dreams. L’intero progetto fa perno sul continente nero.

Una clip sull’accademia Aspire di Saly.

Secondo Josep Colomer, il capo degli osservatori di Football Dreams, la scelta di puntare sull’Africa è di natura esclusivamente statistica. «Qui molti giocatori non hanno alcuna possibilità di essere visti e scoperti». L’idea alla base è che mentre in America Latina e in Europa tutti i bambini che sognano il pallone hanno prima o poi la possibilità di poter mettere in mostra il proprio valore, in Africa esiste un’enorme quantità di talento che rimane esclusa dai circuiti del calcio internazionale.

«La prima volta che siamo venuti in Africa, la maggior parte dei posti dove organizzavamo il nostro progetto non aveva scuole calcio e club. Non avevano palloni, pettorine o allenatori con la voglia di lavorare con i giovani, ma erano pieni di bambini senza alcuna speranza di essere visti dagli scout internazionali».

Ma Colomer non dice tutta la verità. È vero, il calcio africano è in crescita e ha potenzialità enormi, ma l’Aspire non è la prima arrivata: i club europei hanno iniziato a perlustrare l’Africa già a partire dagli anni ’50 per scovare talenti e trarne profitto. Jean-Marc Guillou, allenatore e grande amico di Arsène Wenger, ha iniziato a fondare le proprie accademie in giro per l’Africa già a partire dal 1994 e adesso ha una rete che si disloca tra Mali, Ghana, Algeria, Costa d’Avorio, Egitto e Madagascar. Nel 2001 ha acquisito il controllo del KSK Beveren, società belga di prima divisione, ed ha stretto una collaborazione tecnica, guarda un po’, con l’Arsenal. Oggi i giocatori africani sono già quasi un quarto di tutti i calciatori stranieri presenti nei club dei cinque maggiori campionati europei.

L’importanza dell’Africa non risiede solo nelle sue potenzialità calcistiche ma anche (e forse soprattutto) nella possibilità, che solo il continente nero può offrire: una mano di vernice umanitaria su un progetto capitalista.

Pensate se Football Dreams si svolgesse in Europa. Che direste se venti ragazzini europei di 12-13 anni venissero portati a Doha per essere trasformati in calciatori da vendere al migliore offerente? Senza bambini scalzi che giocano su un campo di terra battuta arancione non si potrebbe giustificare l’intera operazione chiamandola progetto umanitario, come i dirigenti dell’Aspire continuano a sostenere. Non si potrebbero avere sponsor come l’UNICEF o l’Ufficio ONU dello Sport per lo Sviluppo e la Pace.

Per sottolineare il carattere salvifico del progetto, nel 2013 l’Aspire ha portato Messi a Saly. Il fuoriclasse argentino è servito all’Aspire per annunciare il suo piano di distribuire 400mila reti contro le zanzare e dislocare un medico in ogni città in cui Football Dreams si sarebbe svolto.

«Possiamo usare il calcio e il potere ispiratore dello sport per fare veramente la differenza». Forse per mostrare la propria gratitudine verso quel gesto, Messi ha poi venduto i propri diritti d’immagine proprio all’Aspire.

In questo spot dell’Aspire, una serie di bambini di etnie diverse si vedono riflessi nella figura di Messi.

Circolo vizioso

Alla domanda su cosa avrebbe fatto se non fosse riuscito a diventare calciatore, Gary Medel ha risposto: «O narcotrafficante o spacciatore». Nelle periferie del mondo occidentale il calcio è nella stragrande maggioranza dei casi l’unico modo per fuggire dalla miseria. Quando Colomer dice che «la cosa più importante che l’Aspire ha dato a questi posti è stata la speranza» in realtà nasconde ciò che l’accademia qatariota fa veramente: trarre profitto dall’unica speranza disponibile di avere una vita normale.

È un circolo vizioso: l'idea di un gruppo di affari che specula su dei minori è rivoltante, ma se non ci fosse neanche il calcio quei bambini sarebbero condannati alla povertà. La storia di Diawandou Diagne, quella di un bambino africano senza speranze che viene acquistato dal club più importante del mondo, serve all’Aspire a nascondere quella dei restanti 429.980 bambini che nel 2008 non rientrarono nella selezione finale. Molti di loro sono probabilmente rimasti ingabbiati nella speranza di diventare grandi stelle finendo per diventare preda dei veri trafficanti di esseri umani.

Nel romanzo, il vincitore degli Hunger Games è costretto a partecipare ad un tour nelle periferie per dichiarare pubblicamente quanto sia stato un onore parteciparvi. Non dovrà più lavorare e potrà godere dei privilegi della parte ricca della società. Il tour viene trasmesso in televisione ed ha lo scopo di convincere i benestanti che le periferie sono davvero grate, quasi onorate di poter partecipare ai giochi.

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