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I 10 momenti che hanno cambiato gli anni '10 in NBA
30 dic 2019
La storia della lega è cambiata parecchie volte nell’ultimo decennio, e non solamente in campo.
(articolo)
13 min
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Come si fa a tirare un bilancio di un periodo lunghissimo come un decennio, specialmente in una lega come la NBA?

La pallacanestro mondiale, e in particolare quella della NBA, è cambiata tantissimo negli ultimi dieci anni. Per renderci conto di quanto tempo è passato, basti pensare che nel 2010 si affrontavano in finale giocatori che ora commentano le partite in abiti borghesi (spesso ricordandoci quanto fossero migliori le squadre ai loro tempi) oppure sono giocatori di contorno delle proprie squadre (di fatto solo Rajon Rondo e Pau Gasol sono ancora in attività).

Ci sono stati tantissimi momenti incredibili, in negativo e in positivo, e altrettanti che meriterebbero di rimanere scolpiti nelle memorie di tutti. A nostro modo di vedere, però, ce ne sono dieci in cui la storia della NBA è cambiata drasticamente: non sono i momenti più belli in senso assoluto, o quelli più memorabili in senso stretto, ma quelli che hanno dato una svolta alla direzione in cui stava andando la lega, cambiandola per sempre.

Di fatto, sono quelli senza i quali non sarebbe possibile raccontare gli ultimi dieci anni di NBA.

2010: The Decision - l’inizio della Player Empowerment Era

Senza The Decision il resto del decennio semplicemente non avrebbe senso. È stato l’inizio di un trend che è poi continuato per i successivi dieci anni con i giocatori - specialmente quelli di maggiore talento - che hanno guadagnato sempre più potere e, soprattutto, consapevolezza del proprio potere. La NBA è una “copy-cat league”: se una cosa funziona, gli altri cercheranno inevitabilmente di copiarla. Nessuno ha più imitato quello che ha fatto LeBron con lo speciale televisivo di un’ora su ESPN (giustamente, visti i danni che ha provocato alla sua immagine pubblica), ma tutti si sono resi conto di quanto un singolo giocatore possa tenere in scacco l’intera lega.

È successo di nuovo nel 2014 e poi nel 2016 quando Kevin Durant è andato ai Golden State Warriors, fino all’apice della scorsa estate con il modo in cui Kawhi Leonard ha forzato il suo passaggio ai Clippers portandosi dietro Paul George ancora sotto contratto con OKC. Ma risale tutto a quel 10 luglio 2010 a Greenwich, Connecticut, dove con poche famigerate parole («I’m taking my talents to South Beach»), LeBron James ha cambiato la storia della NBA per sempre.

Sono cambiate molte cose da The Decision, fortunatamente anche il senso di LeBron per l'eleganza.




2011: i Dallas Mavericks battono i primi “Heatles”

La storia della NBA stava andando in una certa direzione: gli Heat avevano vinto gara-1 contro Dallas ed erano in controllo di gara-2, toccando un vantaggio in doppia cifra nel corso del secondo tempo, con i Mavs in confusione davanti alla loro lunghezza di braccia e pressione asfissiante. Poi qualcosa si è bloccato nell’attacco di Miami, Dallas ha portato a casa in qualche modo il pareggio nella serie e - pur perdendo gara-3 - ha lentamente preso il controllo delle Finals, fino a vincere in sei partite davanti al crollo dei primi Heat.

Senza quella serie ricorderemmo la carriera di Dirk Nowitzki in maniera diversa (purtroppo), ma anche la carriera stessa di James, se avesse vinto subito al primo colpo, non sarebbe stata la stessa. Lui stesso ha ripetuto più volte come quella sconfitta fosse stata la miglior cosa che gli potesse succedere, anche se al tempo non poteva rendersene conto. Come sarebbero cambiati i rapporti di potere con Dwyane Wade all’interno della franchigia se avessero vinto subito? Chris Bosh avrebbe accettato così di buon grado di diventare un giocatore di complemento negli anni successivi? Avrebbero resistito per quattro anni senza il pungolo di dover dimostrare di vincere e successivamente di rivincere? Non lo sapremo mai, ma di sicuro non ci è andata male così come si è sviluppato il loro quadriennio - e il titolo dei Mavs rimane uno dei più emozionanti del decennio.

La rivincita dei gregari e la prima grande sconfitta di LeBron.




2012: l’infortunio di Derrick Rose

Ai tempi del primo titolo di MVP, si parlava di Derrick Rose come un giocatore non solo in grado di rimanere ai vertici della NBA per il resto della sua carriera, ma come uno destinato direttamente alla Hall of Fame. Per quel maledetto infortunio in gara-1 contro Philadelphia - al termine di una stagione piena di acciacchi, con sole 39 partite disputate su 66 - a 23 anni abbiamo perso un giocatore che avrebbe dovuto/potuto lasciare il segno sul decennio ai livelli dei più grandi. Ora sembra quasi che la memoria si sia persa nel tempo, ma in quegli anni si parlava di Rose negli stessi termini in cui si parlava di Kevin Durant - e quella sarebbe dovuta essere la sua traiettoria.

Invece è andato giù, e con lui tutti i Chicago Bulls, che non sono più riusciti a tornare alle finali di conference nonostante un’intelaiatura da contender, pur con tutti i loro difetti di prevedibilità offensiva. Chissà cosa sarebbe successo alla carriera di Jimmy Butler se Rose non si fosse fatto male di nuovo anche nel 2013, di fatto aprendogli lo spazio necessario a livello di minuti e responsabilità per diventare il giocatore che è diventato. E chissà che finali di conference avremmo avuto negli anni successivi con gli Heat dopo il primo assaggio di quelle del 2011.

Piuttosto che con le tremende immagini dell'infortunio preferiamo ricordare Rose al suo massimo splendore, quando sembrava un tutt'uno con la sua città natale.




2012: la trade di James Harden

Non si può raccontare la storia degli anni ‘10 senza passare da Oklahoma City. Anzi, i Thunder sono i veri attori non-protagonisti del decennio, perché tutto è passato da loro senza che potessero prendersi neanche un pezzetto della gloria che altri invece hanno raggiunto. Quando OKC ha rimontato da 0-2 nelle finali di conference del 2012 contro i San Antonio Spurs, c’era la sensazione che fossimo all’inizio di un’era in cui i Thunder avrebbero dominato quantomeno la Western Conference senza interruzione. D’altronde Durant e Westbrook dovevano ancora compiere 24 anni, mentre Ibaka e Harden ne avevano persino uno in meno. Nessuno ha mai creato un nucleo giovane così forte, e forse mai nessuno lo farà in futuro.

Non è ancora uscita la scatola nera di quello scambio che ha portato Harden a Houston, né come sono davvero andate le trattative tra i Thunder e il giocatore - arenatesi per qualche milione di dollari di distanza che al tempo sembravano insormontabili, e che invece col senno di poi (alla luce dell’esplosione del salary cap) sarebbero stati risibili. Forse lo stesso Harden non voleva più stare all’ombra di Westbrook e Durant come sesto uomo, o forse anche loro due preferivano una strutturazione con meno giocatori che necessitavano del pallone tra le mani. Fatto sta che il Barba è poi andato a Houston, e chissà come sarebbe stata la carriera di Daryl Morey, del Moreyball e dell’esplosione del basket analitico se non ci fosse stato Harden a mostrare una nuova frontiera di efficienza da esplorare.

Recentemente Daryll Morey si è seduto a parlare con Bill Simmons della trade che ha cambiato la sua vita.




2013: la tripla di Ray Allen

Dopo aver vinto il titolo nel 2012, LeBron James non aveva l’assoluta necessità di vincere l’anello, ma sentiva la pressione di non perderlo. Perché se avesse perso la seconda finale in tre anni gli sarebbero tornati addosso tutti i critici che erano rimasti in silenzio nel 2012, sottolineando come avesse vinto in un anno con l’asterisco (quello del lockout delle 66 partite) e contro una squadra di ragazzini, mentre Mavs e Spurs con la loro esperienza lo avevano di nuovo mandato al tappeto nel momento più importante.

Nulla di tutto questo è successo grazie al tiro di Ray Allen, il singolo momento più iconico di questo decennio (senza dimenticare il rimbalzo offensivo di Bosh, importante alla stessa maniera seppur oggettivamente meno bello). Senza quel titolo LeBron avrebbe avuto una legacy diversa, e gli stessi Spurs probabilmente non avrebbero avuto la stessa fame per vincere nel 2014 con il loro “Beatiful Game” (il punto esteticamente più alto degli anni ‘10, Warriors compresi), così come Kawhi Leonard non avrebbe vinto il suo primo titolo di MVP delle Finals e tutta un’altra serie di altre cose che al momento nemmeno si riescono a mettere in fila compiutamente. In ogni caso, su quella tripla dall’angolo qualcosa è decisamente cambiato anche nella testa di James, che poi in gara-7 ha messo il suo sigillo sulla legacy.

Quante volte avete visto questo video? Non abbastanza.




2015: i Clippers si suicidano contro i Rockets

Può una serie al secondo turno cambiare la storia della NBA? Sì, perché i Clippers sembravano davvero aver trovato la chimica giusta per arrivare fino in fondo. Dopo aver battuto i San Antonio Spurs al primo turno al termine di una delle serie più belle del decennio (sicuramente tra quelle al primo turno), Blake Griffin e soci erano riusciti a vincere gara-1 a Houston e a difendere il fattore campo fino a gara-6, cominciando l’ultimo quarto con 13 lunghezze di vantaggio.

Sembravano finalmente sul punto di portare a compimento il percorso cominciato nel 2012 con “Lob City” e proseguito con l’arrivo di Doc Rivers, e invece si sono sciolti completamente in un ultimo quarto da 40-15 con Josh Smith (!) e Corey Brewer (!!) indiavolati, mentre Harden osservava dalla panchina in silenzio e in rotta col resto della squadra. Se quei Clippers non si fossero sciolti, sarebbero andati in finale di conference contro i Golden State Warriors non ancora campioni, probabilmente nella versione più vulnerabile del loro quinquennio incredibile (infortuni esclusi). Quanto se la sarebbero potuta giocare? E quanto sarebbe cambiata la carriera di CP3, uno dei giocatori più forti e allo stesso tempo meno vincenti del decennio, se fosse stato davvero in salute nel momento più importante? Come valuteremmo ora Blake Griffin se quell’anno - in cui stava giocando a livelli celestiali - fosse riuscito ad arrivare fino in fondo? Avrebbero potuto battere anche i Cavs privi di Kyrie Irving (infortunato in gara-1 ma già acciaccato per tutti i playoff) e Kevin Love? Tante domande, nessuna risposta.

Non pensavamo di dover citare il nome di Josh Smith in un pezzo sui momenti più importati del decennio appena trascorso ed invece eccoci qui.




2016: la gara-6 di Klay Thompson contro OKC

La singola prestazione che ha dato una svolta all’intero decennio, segnando inequivocabilmente tutti i successivi titoli. Perché se Klay Thompson non avesse realizzato quelle 11 triple impossibili (e Steph Curry non lo avesse accompagnato con 31 punti), staremmo parlando di un’altra NBA. Kevin Durant, ad esempio, probabilmente non avrebbe lasciato i Thunder per unirsi a una squadra che aveva appena eliminato ai playoff, indipendentemente che riuscisse poi a vincere in finale contro Cleveland o no. E gli Warriors avrebbero continuato a dover passare attraverso di lui e Russell Westbrook per vincere il titolo, con l’età del supporting cast sempre più avanzata e uno stile di gioco difficile da rendere ancora più efficace nei momenti decisivi dei playoff - soprattutto senza poter contare sulla valvola di sfogo che KD ha portato sulla Baia con la sua decisione nell’estate del 2016.

Senza quella partita, probabilmente, non avremmo mai avuto i Golden State Warriors del 2016-17 - già adesso una delle squadre più forti della storia del gioco, specialmente quando si considerano le capacità su entrambe le metà campo e la loro quantità enorme di talento. E forse non avremmo avuto neanche gli Houston Rockets delle ultime stagioni, andati all-in proprio perché costretti ad alzare il livello del proprio gioco per andare a prendere i Mostri della Baia, fino a metterli in tremenda difficoltà nei playoff del 2018.

Una delle singole prestazioni più incredibili del decennio. E una delle più decisive.




2016: the Flagrant + the Block + the Shot

Il 2016 è stato l’anno chiave del decennio, non solo per come si è concluso, ma anche per chi si è ritirato (Kobe Bryant, Tim Duncan, Kevin Garnett) e la qualità del gioco vista (gli storici Warriors delle 73 vittorie dopo aver cominciato 24-0). Ora pare scontato dire che quella versione di Golden State non potesse vincere, ma la realtà di quella serie ha raccontato di come Curry e soci fossero molto più forti di Cleveland, una superiorità legittimata dalle prime due partite ad Oakland e dalla vittoria fuori casa per portarsi sul 3-1 a Cleveland. In un mondo normale, quella serie sarebbe finita 4-1 e avrebbe consegnato il secondo titolo in due anni per Golden State, coronando con il titolo una delle stagioni più dominanti di sempre.

Il fallo flagrant di Draymond Green nelle parti basse di LeBron James ha inevitabilmente inclinato da un’altra parte il piano che stava portando Golden State al repeat . La sua assenza in gara-5 ha lasciato spazio a James e Irving di segnarne 41 a testa (un’altra partita memorabile di questo decennio), innescando la serie di sfortunati eventi che ha portato fino a quei cinque minuti interminabili di gara-7. Prima di “The Block” e di “The Shot”, però, è stato il Flagrant di Green a cambiare la storia di quella serie e - insieme al punto precedente - degli anni ‘10 in generale.

I 200 secondi più folli della storia NBA.




2017: Kawhi Leonard si fa male in gara-1 delle finali di conference

Quand’è che le cose hanno cominciato ad andare male per Kawhi Leonard e i San Antonio Spurs? Il fatto che i nero-argento siano usciti con un solo titolo da questo decennio - per quanto memorabile - non rende giustizia al livello di competitività a cui hanno viaggiato nonostante l’età dei Big Three avanzasse inesorabilmente. Il punto più alto non legato al 2014, probabilmente, lo hanno raggiunto in gara-1 delle finali di conference del 2017, quando riuscirono ad andare avanti di 25 punti in casa dei primi Warriors degli “Hampton 5” (che avrebbero poi chiuso i playoff con 16 vittorie e una ininfluente sconfitta).

Cosa sarebbe successo se quel piede di Zaza Pachulia non fosse finito sotto Kawhi Leonard (26 punti fino a quel momento), portandolo a lasciare il campo e aprendo il mega-parziale con cui gli Warriors hanno poi ribaltato la partita? Probabilmente Golden State avrebbe finito per vincere comunque quella serie e quel titolo, ma quell’episodio è stato l’inizio della fine del rapporto tra Kawhi e gli Spurs, con un recupero sempre più difficoltoso che ha creato scompensi da altre parti del suo delicato fisico, il crollo della fiducia tra le parti e - in definitiva - la richiesta di essere ceduto un anno più tardi. Forse il rapporto tra Leonard e i nero-argento sarebbe comunque andato a rotoli, o forse avrebbero continuato a macinare vittorie su vittorie - e i Raptors non avrebbero mai neanche lontanamente pensato di poter arrivare a Leonard e quindi vincere il titolo del 2019.

Kawhi contro i Golden State Warriors: la prima battaglia fu vigliaccamente chiusa dal piede di Zaza, la seconda coronerà la più dolce delle vendette.




2019: gli infortuni di Kevin Durant

Ho ancora salvata da qualche parte la bozza dell’articolo che volevo scrivere sul livello di gioco raggiunto da Kevin Durant all’inizio dei playoff dello scorso anno. KD semplicemente sembrava essere asceso a un piano diverso rispetto a quello di tutti gli altri giocatori della NBA, raggiungendo il picco dei propri poteri: sembrava ancora più terrificante rispetto a quello già inarrestabile dei due titoli di MVP delle Finals consecutivi. Perfino uno come Steph Curry sembrava inadeguato di fianco alla sua grandezza.

Poi il primo infortunio al polpaccio contro Houston e la rottura del tendine d’Achille in gara-5 contro Toronto ci hanno privato di tutto questo, togliendo il quarto titolo in cinque anni ai Golden State Warriors e il suo terzo consecutivo con - probabilmente - tre MVP delle Finals, three-peat che non riesce a nessuno dai tempi di Shaquille O’Neal. Quella ennesima prestazione di onnipotenza ci avrebbe portato a incoronarlo definitivamente come il miglior giocatore del mondo, come KD disperatamente voleva essere ricordato? Oppure avremmo comunque continuato a preferirgli qualcun altro il cui ricordo era più vivido nelle nostre memorie? Avremmo continuato a sbattergli in faccia il fatto di essersi unito a una squadra da 73 vittorie per poter vincere oppure avremmo dato il giusto tributo a un talento generazionale come il suo?

Non lo sapremo mai, e ci portiamo queste domande anche nel prossimo decennio. In ogni caso, i dieci anni appena passati ci hanno dato tutto quello che potevamo sperare: momenti memorabili, storie infinite, what if giganteschi e un livello di evoluzione tattica con pochi precedenti. Poteva decisamente andarci peggio.

I pochi minuti in campo di KD nelle Finals 2019, un dominio talmente devastante quanto futile.




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