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I calciatori più sottovalutati del decennio
08 gen 2020
Avremmo dovuto considerarli di più.
(articolo)
31 min
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Il concetto di “sottovalutato” è uno dei più ambigui ma al contempo più abusati nello sport contemporaneo. Specie nelle discussioni sui social non facciamo che ripetere o sentirci ripetere che un atleta è sottovalutato, o sopravvalutato, e anche tra i commenti su l’Ultimo Uomo sono le categorie più utilizzate da diversi lettori. La prima cosa opaca del concetto di “sottovalutato” è “da chi?”. Si fa sempre riferimento a una specie di entità trascendentale (I giornalisti? I media? Gli intellettualoni? Il pensiero unico? I savi di Sion? Dio?) che sottovaluta o sopravvaluta un giocatore come per assecondare fini oscuri. Un gigantesco complotto a causa di cui i calciatori del mondo vengono sottovalutati o sopravvalutati rispetto al loro vero valore. Spesso chi sostiene che un calciatore è sottovalutato lo fa quindi per posizionarsi, per autocertificarsi come più furbo e saggio della media del pubblico.

Scusate la premessa acida, ma era per dirvi che il concetto di sottovalutato è oggi piuttosto logoro. Abbiamo però voluto raccogliere la sfida e stilare la nostra classifica dei calciatori più sottovalutati del decennio. I calciatori che seguono quindi secondo noi hanno avuto una carriera o dei riconoscimenti inferiori rispetto al loro valore. Nel discorso pubblico, secondo la nostra fallibilissima percezione, se ne parla spesso sottostimandone le possibilità o le prestazioni. È un modo come un altro per dichiarare il nostro amore per questi calciatori.

Darijo Srna

Forse ci siamo resi conto troppo tardi del ruolo chiave degli esterni bassi nell’impostazione dell’azione. Con le squadre avversarie che si chiudono al centro i terzini hanno assunto la funzione di registi. Tempo che ce ne siamo accorti e Darijo Srna era già vecchio. Peccato perché pochi terzini destri come lui erano raffinati nelle letture col pallone; in pochi avevano la sua sensibilità tecnica. Forse ci soffermavamo sul suo nasone, sul mento sfuggente, su un aspetto che meno glamour non si può. Non riuscivamo a vedere che era uno dei migliori terzini della Champions League con la maglia dello Shakhtar. Mentre i suoi compagni brasiliani se ne andavano, uno dopo l’altro, Srna rimaneva ad arare le fasce dei campi ucraini. Lo ha fatto per 15 anni, Darijo Srna, senza che nessuno lo pensasse adatto a una squadra di alto livello.

Srna in questa classifica ci sta perché al suo prime era molto meglio di tanti terzini che hanno giocato nelle migliori squadre al mondo. Domanda provocatoria: se facessimo una top ten degli esterni bassi del decennio Srna ci potrebbe rientrare? Secondo me sì.

Dimitri Payet

Sul finire del 2019 Opta ha pubblicato diverse statistiche riguardanti il decennio, ma nessuno mi ha sorpreso come quella secondo cui Dimitri Payet è il calciatore che ha creato più occasioni da gol in questi dieci anni. Per occasioni create si intende la somma di assist e passaggi chiave, cioè quei passaggi che hanno portato un compagno al tiro. Payet ne ha create 974, un numero incommensurabile, difficile da commentare.

Payet quindi è stato uno dei giocatori più creativi del decennio, e probabilmente nessuno di noi avrebbe detto di trovarlo in classifica davanti a gente come Özil, Messi, Fàbregas o De Bruyne. Per doti tecniche, però, Payet potrebbe legittimamente stare in quel gruppo di giocatori. Il suo controllo orientato - la qualità che secondo me più distingue un grande giocatore - è a livello d’elite. La sua visione di gioco è raffinatissima, la qualità del suo calcio unica, il suo carisma debordante.

Quando si parla dei migliori calciatori al mondo, però, non si parla mai di Payet, perché?

Payet innanzitutto si è fatto notare tardi. La sua prima grande stagione è la 2010/2011, quando ha 24 anni, e non è comunque sufficiente a raggiungere un livello europeo. Passa al Lille, poi all’OM e quando si trasferisce in Inghilterra, al West Ham, ha già 28 anni e nessuna squadra di prima fascia se la sente di puntare su di lui. In quel momento era al suo apice, alla fine di quella stagione aveva servito un numero ridicolo di passaggi chiave (125) e Fabio Barcellona ne scriveva come un giocatore in ascesa, che sarebbe potuto finire all’Atletico Madrid di Simeone. Sapete quanto ha speso il West Ham per acquistarlo? 15 milioni, una cifra minuscola letta con gli occhi di oggi.

Al West Ham Payet fa un’altra grandissima stagione, segna 15 gol in 44 partite. Alcuni sono assurdi e impensabili. Come quel gol su calcio di punizione in cui la palla si alza in cielo prima di ricadere all’incrocio dei pali, e per cui vale davvero la pena di usare l’aggettivo da youtuber “insane”, cioè malato.

Alla posizione numero uno.

Payet poi giocherà un Europeo maestoso, aperto con un tiro all’incrocio dei pali al novantesimo contro la Romania. È il centrocampista migliore di quegli Europei, uno dei migliori fantasisti in Europa. Un prodigio nel gioco tra le linee, ma rimane al West Ham qualche altro mese, poi decide di tornare all’Olympique Marsiglia. A 30 anni forse nessuno voleva davvero investire su di lui, e lui stesso non sembrava avere così grande voglia di competere sui migliori palcoscenici. In un decennio in cui i bilanci e le plusvalenze hanno avuto un peso decisivo, chi voleva assumersi il rischio di prendere un giocatore - per di più abbastanza pazzo - di 30 anni?

Payet non è un talento sprecato, perché quello che poteva fare su un campo da calcio ce lo ha ampiamente mostrato, aveva la consistenza dei migliori, ma non è comunque bastato per essere tra i migliori. Qualcuno in questi anni ne ha sottovalutato le qualità di certo, lui ci ha messo del suo con scelte non sempre razionali, almeno nella prospettiva della carriera piramidale che diamo per scontata per qualsiasi calciatore. Non abbiamo mai pensato che magari a Payet sta bene così.

Antonio Di Natale

Antonio Di Natale è il giocatore ad aver realizzato più gol in Serie A nell’ultimo decennio e scommetto che nessuno di voi lo avrebbe detto. Nel decennio in cui Ronaldo e Messi hanno ulteriormente rafforzato l’importanza dei numeri nel definire il valore di un calciatore, per Di Natale parlano i suoi numeri. 125 gol realizzati tra il 2009 e il 2016. Sul peso di questi gol possiamo dividerci: qualcuno dirà che realizzati con la maglia dell’Udinese, senza troppa pressione addosso, hanno meno importanza; altri faranno notare che farli in una piccola squadra è ancora più straordinario.

Ma per accorgerci del valore di Di Natale, della classe con cui giocava, basterebbe guardare i video dei suoi gol. Non sono gol comuni: contengono una qualità tecnica e un genio creativo che appartiene solo a lui. Un gol di Di Natale lo riconosci. Il mio preferito appartiene al decennio precedente, lo aveva segnato al Catania e racconta il suo talento. Uno scavetto di esterno quasi sulla linea di fondo a superare l’intervento disperato di un difensore in scivolata. Un attaccante così per me avrebbe potuto giocare - magari non da titolare - persino nel Barcellona di Guardiola. Non aveva molto da invidiare a David Villa. Tra le seconde punte iper-tecniche classiche del calcio italiano di provincia - Bellucci, Miccoli, Di Michele, Di Napoli - Di Natale ne è il re.

Di Natale ha giocato in Nazionale, pare che la Juventus abbia provato a convincerlo nell’estate del 2010 e lui disse di no, preferendo la tranquillità del Friuli. A differenza di molti giocatori di questa lista, il talento di Di Natale non era un segreto. Non siamo stati noi a sottovalutarlo ma lui a rinunciare a una dimensione più grande che di certo gli sarebbe appartenuta. In fondo è anche questa la sua grandezza.


Bruno Soriano

Bruno Soriano fa parte della generazione di centrocampisti spagnoli che hanno cambiato il calcio mondiale imponendo il loro stile di gioco e vincendo tutto. Per capirci, è ’84 come Iniesta e Santi Cazorla, poco più giovane di Xabi Alonso e Xavi e poco più vecchio di Fàbregas e Sergi Busquets. Eppure conta appena 10 presenze totali con la Nazionale spagnola, dove ha esordito solo a 26 anni proprio dopo la vittoria del Mondiale. Soriano ha partecipato a un solo torneo internazionale, l’Europeo 2016, guarda caso il primo torneo senza Xavi e Xabi Alonso. La carriera di Bruno Soriano è stata segnata dalla scelta di rimanere a giocare per la squadra del cuore, il Villarreal. Una squadra da alta classifica della Liga, ma che non ha mai realmente ambito a vincere titoli.

Il Villarreal per un decennio si è mosso sui suoi tocchi e sulle sue pause, assecondando la sua sensibilità nell’alternare gioco corto e gioco lungo, sfruttando tutta l’ampiezza del campo con precisione millimetrica per trovare in ogni punto il giocatore che gli interessa e ordinando così la propria squadra. Con il piglio da direttore d’orchestra Bruno Soriano era in grado di prendere in mano le partite.

Ma mentre i suoi coetanei si giocavano la vittoria della Champions League, lui ha partecipato a solo due edizioni e non ha vinto un singolo titolo in carriera. Bruno ha rinunciato a qualsiasi offerta anche quando il Villarreal è retrocesso: a sorpresa è rimasto un anno in Segunda. La sua dedizione gli è costata la riconoscibilità internazionale, ma ha contribuito a rendere La Liga il campionato dove il ruolo di regista aveva i migliori interpreti al mondo.

Dries Mertens

Un documentario della tv belga dedicato a Mertens.

Mertens ha iniziato il decennio come ala dribblomane dall’enorme volume offensivo nel PSV e l’ha concluso come uno degli attaccanti dalle letture più raffinate al mondo, abilissimo nei movimenti senza palla e nell’utilizzare la sua tecnica per aiutare la manovra e segnare. Motore della trasformazione è stato com’è noto l’incontro con Sarri a Napoli e l’infortunio alla punta centrale Milik, che ha portato il tecnico toscano a insistere su un’intuizione che sembrava di breve durata e che invece ha fatto diventare Mertens l’attaccante centrale del suo iconico Napoli.

Mertens è diventato uno dei migliori attaccanti della Serie A a suon di gol. Un numero assurdo viste le premesse (34, 22 e 19 nelle tre stagioni da attaccante) e soprattutto per la bellezza di alcuni di essi: come quello con controllo e tiro immediato su di un lancio di 50 metri di Diawara contro il Genoa, o quello con un pallonetto morbidissimo contro il Torino o il pallonetto veramente impossibile dal lato dell’area di rigore contro la Lazio, tutti gol che abbiamo già celebrato tra i migliori del decennio.

Ma se i gol hanno reso Mertens un attaccante riconoscibilissimo della Serie A degli anni ‘10, come detto non è stato solo lì che la sua trasformazione è stata incredibile, perché non si è trasformato da ala che dribbla a punta d’area di rigore, si è trasformato in un attaccante di manovra, in grado di abbracciare tutto il fronte offensivo e partecipare attivamente allo svolgimento della manovra. Mertens è diventato un maestro nello sfruttare i mezzi spazi, da dove può ricevere spalle alla porta e giocarla magari ad un tocco prima di buttarsi in area a finire la giocata, uno di quei giocatori che non si possono apprezzare appieno solo attraverso gli highlights dei gol.

Dani Parejo

Regista a tutto campo, elegante nei gesti, preciso sui lanci e soprattutto sui calci piazzati. La tecnica di Parejo e la sua capacità di influenzare il gioco della squadra non è stata però esaltata fin quando non ha raggiunto la piena maturazione caratteriale, raggiungendo però con Marcelino in panchina, in un Valencia che dipendeva dalla sua gestione del pallone, anche la Nazionale. Non fosse che lui che per talento poteva far parte del ricambio post-generazione d’oro, ci è arrivato solo a 29 anni.

Quando però ha raggiunto il suo livello picco di gioco, assumendosi le responsabilità che derivano dal suo talento, è diventato una delle stelle della Liga, pur giocando in un ruolo affollatissimo. Nessuno dubitava della sua tecnica, ma probabilmente prima della piena maturazione non era abbastanza evidente la sua capacità di alzare il livello dei compagni in campo. Perché parliamo di un calciatore che deve toccare tanti palloni, e che deve sentirsi sempre parte del gioco e far scorrere la partita attraverso le sue decisioni.

Ha passato un decennio in un ambiente disfunzionale come il Valencia post-crisi economica, grande decaduto della Liga, ma è legato proprio a una sua prestazione contro il Barcellona l’unico trofeo che la squadra ha alzato negli anni ’10. L’ultima Coppa del Re del decennio l’ha visto esibirsi in tutto il suo repertorio proprio nella finale, prendendo in mano il centro del campo e tirando i fili di entrambe le squadre. Parejo è stato fenomenale nella gestione del pallone, nella resistenza alla pressione e nei lanci verso i compagni. Se un giocatore è per distacco il migliore in campo in una partita contro il Barcellona ha per forza qualcosa di speciale, peccato solo che ce ne siamo accorti tardi.


Josè Callejon

Josè Callejon è il giocatore di movimento con più presenze (351) nell’ultima decade. È davanti agli iper-utilizzati Messi e Hazard, che nelle loro squadre sono stati mandati in campo anche con la febbre o una gamba rotta. Callejon è quindi stato irrinunciabile per il Napoli, nonostante a ogni sessioni di mercato si faccia il toto-nomi per un suo sostituto. Doveva prima essere Ounas, poi Younes, poi Lozano: tutti dovevano aggiungere al Napoli l’opzione di un giocatore decisivo col pallone anche a destra. Nessuno ce l’ha fatta.

La verità è che Callejon è un giocatore formidabile per una parte poco visibile del gioco, ovvero i movimenti senza palla. Un aspetto che abbiamo celebrato per il suo affiatamento con Insigne - che dovrebbe finire nell’ipotetica classifica sulle migliori connessioni fra giocatori del decennio - ma che riguarda anche altri aspetti, magari più sottili. La capacità di allungare le difese con i tagli dietro il terzino; la sua capacità di smarcamento tra le linee; la sua intelligenza nel capire quando accorciare verso la palla e quando dare la profondità. Callejon ha giocato in tutti i sistemi del Napoli e lo ha fatto sempre bene, a volte svolgendo un ruolo più da mediano che da shadow striker (il suo ruolo naturale). È divertente chiudere con una citazione su Callejon ormai misconosciuta. È di Josè Mourinho, ai tempi in cui Callejon giocava pochi minuti a fine partita nel Real Madrid: «Mi piaceva come giocava nell'Espanyol, mi piaceva la sua duttilità in campo. A Madrid poi ho conosciuto un ragazzo con una personalità forte, un giocatore umile che ha saputo ritagliarsi il suo spazio, il rispetto della gente e dei compagni di squadra. Sa rendere prezioso ogni minuto in cui è in campo: per molti giocatori entrare per 10 minuti è un problema, per lui no. Quando viene chiamato in causa è sempre al top. Mi piace molto la sua mentalità, è un esempio per tutti».

Pizzi

Quando non era che un ragazzino Luís Miguel Afonso Fernandes, tra gli amici al campetto, segnava grappoli di gol. È per questo che hanno cominciato ad affibbiargli un soprannome che rimandava al centravanti dell’epoca del Barcellona, un argentino che sarebbe poi stato naturalizzato spagnolo: Pizzi. Juan Antonio “Macanudo” Pizzi, poi, non ha avuto una carriera brillantissima da centravanti (anche se da DT ha vinto una Copa América con il Cile): potremmo dire che gli amici di Luís Miguel lo stessero sopravvalutando. Il meccanismo perverso della sopravvalutazione e del suo contrario, in fin dei conti, poggia proprio su questo tipo di contingenze: se il centrocampo portoghese degli anni Dieci non avesse avuto Meireles o Veloso, se fosse stato più appropriato al suo modo di interpretare il calcio, forse oggi ci ricorderemo di più di Pizzi, appiccicheremmo il suo soprannome a qualcuno che ce lo ricorda per la balistica di tiro impietosa, per la particolare accuratezza dei passaggi, per la capacità di brillare soprattutto nei third pass, cioè in quelle agevolazioni all’assist che sono spesso pregevoli tanto e quanto gli assist stessi.

Se ci ricordiamo così poco di Pizzi, invece, se esce fuori raramente nei nostri discorsi, forse è perché nessuno ha mai davvero creduto in lui. L’Atlético Madrid, con il quale ha vinto l’Europa League nel 2012, non lo ha riscattato a fine prestito, lasciandolo tornare a Braga. E anche il Benfica, dopo averlo acquistato, per una stagione l’ha girato all’Espanyol. Pizzi è così dimenticabile perché è rimasto per metà di questo decennio in Primeira Liga? O forse perché ha abbandonato l’idea di affermarsi come ala, uno dei brodi primordiali da cui meglio si distilla la percezione del talento tra i portoghesi, per piazzarsi in un interregno in cui la sua tecnica ha finito per disperdersi? Pensateci bene: in otto anni ha giocato solo 14 partite con la Nazionale lusitana. A Euro 2016 neppure è stato convocato: c’era Rafa Silva, in compenso. Se vi sembra un’ingiustizia siete nel mood giusto, quello che cala quando ci viene il sentore che qualcuno, qua, sia un po’ troppo sottovalutato.

Papu Gomez

Oggi il “Papu” Gomez ha 32 anni e non solo la sua capacità di incidere sulla Serie A non si è minimamente attenuata, ma Gomez sembra persino migliorare. Gomez in questi dieci anni ha subito una grande evoluzione: da ala dribblomane che rientra per il tiro con la maglia del Catania, con Gasperini Gomez è stato ala, trequartista, regista, finalizzatore. Serve assist, segna, cuce il gioco della squadra in quasi ogni zona del campo, aggiustandone le mancanze. La sua sensibilità tecnica, il senso degli smarcamenti, la sua intelligenza nel capire il momento della partita, lo rendono davvero un calciatore di alto livello. È offensivo verso l’Atalanta dire che avrebbe meritato una carriera migliore, anche perché è stato tra i principali artefici di una delle poche storie belle del decennio di Serie A. Però sarebbe bello avere a disposizione un’altra carriera per il “Papu” Gomez, un’altra possibilità di mettere alla prova le sue qualità con club di alto livello e magari anche con la Nazionale argentina.


Max Kruse

Carattere spigoloso, qualche festa di troppo e passione più per il canto, il poker e le freccette che per gli allenamenti; ma anche un repertorio tecnico completo con un grandissima tecnica di calcio e gioco aereo e uno strano mix tra visione di gioco e un’insospettabile capacità nella pressione, talmente duttile da poter giocare ovunque sul fronte offensivo.

Un decennio passato tra squadre di culto come il St Pauli e il Friburgo, ma anche squadre ambiziose come il ‘Gladbach e il Wolfsburg e una grande decaduta come il Werder. 141 tra gol e assist in 249 partite di Bundesliga. 5 stagioni finendo in doppia cifra di gol su 8 giocate e mai meno di 6 assist a stagione. Una stagione in Champions League al Wolfsburg nel 2014/15, lo stesso periodo in cui era nel giro della Nazionale tedesca prima di sparire ovviamente più per problemi con Joachim Löw che tecnici.

Eppure probabilmente in pochi avranno sentito il suo nome abbastanza da ricordarsene e in pochissimi saprebbero dargli un volto nonostante la faccia allungata da una scucchia che lo rende simile ad una di quelle caricature disegnate per i personaggi di “indovina chi”. Max Kruse è stato il giocatore simbolo di una Bundesliga che ha fatto fatica a vendere l’attenzione per le squadre sotto Bayern e Dortmund, dov’è mancata la capacità di creare interesse anche attorno a giocatori talmente unici dal punto di vista tecnico e caratteriale da sembrare fatti apposta per essere interessanti.

Jamie Vardy

Nell’undici titolare del Leicester di quest’anno, Kasper Schmeichel e Jamie Vardy sono gli ultimi sopravvissuti dell’impresa del 2016. Alla fine di quel campionato nessuno avrebbe scommesso che quattro anni dopo sarebbe stato ancora alle “Foxes”, pur rimanendo uno dei migliori centravanti del miglior campionato del mondo.

Fate caso alla varietà di soluzioni sotto porta.

Jamie Vardy non è un attaccante completo, non è tecnico in spazi stretti, nella preparazione al tiro e nel gioco spalle alla porta. Ma è uno dei migliori al mondo in una specialità molto ricercata nel calcio contemporaneo: l’attacco della profondità dietro le linee difensive avversarie. Vardy attacca gli spazi con una qualità e un’intensità non comuni. Sotto porta è freddo e creativo. Ha dimostrato di trovarsi a suo agio sia in sistemi che vogliono attaccare in transizione che in altri che attaccano più posizionalmente, come quello di quest’anno, in cui ha già segnato 17 gol in 18 presenze. Oggi ha 32 anni e da almeno tre ci si attende che il suo rendimento, assecondando la naturalità delle statistiche, cali. Ma non cala.

Difficile che Vardy non potesse servire a squadre che in questi anni hanno faticato a trovare centravanti affidabili sotto porta, come Chelsea, Arsenal e Manchester United. Probabilmente c’entra il fatto che il Leicester voleva una barca di soldi per Vardy, e i club non si fidavano di lui, pensavano fosse un fuoco di paglia. Non lo era.

Iago Aspas

Iago Aspas è con Isco uno degli ultimi grandi talenti del calcio spagnolo cresciuti giocando per i vicoli del loro paesino. Se però Isco è riuscito a trovare una collocazione per il suo immenso talento anche in una grandissima squadra come il Real Madrid, per Aspas l’esperienza fuori dal suo Celta è andata male, con le tappe a Liverpool prima e al Siviglia poi che gli hanno affibbiato l’etichetta di flop. Tornato a casa però si è ritrovato, diventando il simbolo della Liga delle provinciali, forse il miglior giocatore fuori quelli delle tre grandi. Aspas è stato in questo decennio un giocatore che da solo ha innalzare il livello del Celta segnando tanto (26, 23 e 21 gol nelle ultime tre stagioni) e segnando gol unici. Una sorta di Antonio Di Natale galiziano, un giocatore di culto totalmente legato a una squadra di provincia e per questo solo chi segue da vicino il campionato dove gioca è riuscito davvero ad apprezzare.

Tolto Messi, non c’è stato nella Liga un giocatore con la sua varietà tecnica di calcio e pochi sono stati tanto difficili da marcare, con tutta la metà campo offensiva del Celta come territorio per ricevere, un gioco spalle alla porta perfetto e la capacità di trovare la porta da ogni posizione.

Iago Aspas ha vissuto una carriera sotto lo standard fisico minimo richiesto, con una settantina di chili su di un corpo minuto e per nulla definito. Il suo è un calcio basato unicamente sull’intelligenza, sulla determinazione e sulla sensibilità tecnica. Aspas è un calciatore che sa stare nel posto giusto al momento giusto e sa cosa fare e come farlo. Quando ha scritto di lui due anni fa Emanuele Mongiardo lo definisce un calciatore malizioso, sempre il più furbo in campo, uno di quelli per cui vedere una partita: «Iago Aspas è uno di quei giocatori per cui vale la pena guardare una partita a cui siamo indifferenti, giocatori come lui sono il sale di ogni campionato nazionale, quelli che invitano a non rinchiudersi nei quartieri alti del calcio ma ad esplorarne anche i vicoli dei rioni popolari».


Cesar Azpilicueta

Cesar Azpilicueta è arrivato a Londra nel 2013 per 7 milioni di euro. Non aveva mai giocato per la Nazionale spagnola, veniva dall’Olympique Marsiglia e aveva tutte le carte in regola per diventare il nuovo Asier Del Horno: un terzinaccio mediocre arrivato per caso. È stato effettivamente così, finché non è arrivato Josè Mourinho sulla panchina dei blues, lo ha spostato terzino sinistro e Azpilicueta è diventato un punto fermo del nuovo Chelsea. Un esempio di giocatore completo, che sa fare praticamente tutto a un livello accettabile e che, cosa più importante di tutte, non sbaglia quasi niente. Alla fine della stagione Azpilicueta viene eletto miglior giocatore del Chelsea e Mourinho fa una di quelle dichiarazioni altisonanti con cui vuole spostare l’attenzione su qualcosa a cui nessuno prima di quel momento aveva pensato: «Penso che una squadra con 11 Azpilicueta vincerebbe il campionato perché il calcio non è puro talento. Il calcio è anche carattere e personalità e Azpilicueta ha tutto di una personalità vincente».

Ma se Azpilicueta fosse solo carattere e personalità non potrebbe stare in questa lista. Con l’arrivo di Antonio Conte Azpilicueta è diventato un centrale di destra nella difesa a tre, mostrando una qualità di letture difensive impressionante. Oltre a una qualità tecnica nel gioco di passaggi poco appariscente ma molto efficace, emersa in quel periodo in cui serviva a Morata assist a ripetizione (6 in una stagione).

Azpilicueta è un giocatore imprescindibile e a novembre ha interrotto una striscia di 73 presenze consecutive dal primo minuto in Premier League. Questo dovrebbe bastarci per considerarlo uno dei più sottovalutati del decennio.

Hatem Ben Arfa

Il modo più corretto, più realista anzi, per definire il livello di sottovalutazione di Hatem Ben Arfa sarebbe compilare una lista di tutti i giocatori che a 32 anni giocano in una qualsiasi squadra di Ligue 1, Premier League, Serie A, Bundesliga, Liga, Primeira Liga, Eredivisie, e chiedersi quanti di loro sono capaci di fare quello che sa fare Hatem Ben Arfa in un campo da calcio. Non è solo questione di talento, Ben Arfa ha dimostrato anche in tempi recenti di poter essere importante per una squadra di questo livello, lo ha fatto a Nizza e a Rennes, dove ha giocato 39 e 41 partite in due stagioni. In mezzo l’esperienza triste del Paris Saint-Germain che lo ha fatto ripiombare in un abisso fatti di interviste profonde e tristi a bordo fiume, aspettando il cadavere di qualche nemico, e dichiarazioni pazze («Nessuna squadra mi ha fatto una proposta che mi interessava. È come con una ragazza, se non ti eccita lascia perdere»).

Certo è anche colpa di Ben Arfa se non riesce ad avere una carriera neanche lontanamente vicina a quelle aspettative che aveva creato fin da bambino, ma insomma è possibile che un giocatore col suo potenziale non riesca a trovare un suo posto? Che richieste potrà mai accampare che superano le richieste di qualsiasi assistito da un superagente come Mino Raiola o Jorge Mendes? Adesso si parla di Galatasaray, Genoa e soprattutto Lione (che deve rimpiazzare Depay), ma la carriera di Ben Arfa è “sotto” il suo “valore”, con troppi mesi e anni persi dietro a incomprensioni. Nessuno, pensando a Ben Arfa, lo fa considerandolo uno dei migliori giocatori della generazione ‘87 (che, per capirci, è quella di Benzema). Anzi, in molti lo ritengono semplicemente un mezzo giocatore, non in grado di giocare da alto livello. È solo colpa sua? Può darsi, ma un sistema che non riesce a sfruttare un talento del genere un paio di domande deve farsele.

Branislav Ivanovic

Branislav Ivanovic è stato troppo grosso ed è sembrato troppo cattivo per essere giudicato obiettivamente. Prima dell’avvento dei terzini registi Ivanovic ha avuto una sensibilità tecnica che non gli abbiamo mai veramente riconosciuto. Certo, nel monolitico Chelsea di Mourinho quello che brillava era la sua capacità di agire come un difensore centrale in più, vincere un’infinità di duelli aerei, ma non era solo quello il suo gioco, ne quello di quel Chelsea, forse la squadra più sottovalutata del decennio.

Ivanovic inoltre era un terzino che sapeva segnare, spesso e in momenti decisivi come ricorderanno anche in tifosi del Napoli. Anche in questa stagione, allo Zenit, ha segnato già tre gol. Le sue reti erano spesso di testa, da calcio piazzato, fondamentale in cui è stato uno dei migliori al mondo per anni.

Un gol di testa molto difficile che ha regalato l'Europa League al Chelsea.




Yaroslav Rakitsky

Lo Shakhtar negli ultimi 20 anni - con i suoi progetti fondati sulla tecnica e il gioco di posizione - ha sfornato tanti giocatori dal talento riconosciuto e altrettanti dal talento sottovalutato. Uno dei casi più clamorosi è stato quello di Yaroslav Rakitsky, un centrale difensivo gigantesco ma con dei piedi squisiti. In pratica la risposta est-europea a Piqué. Come il catalano è stato il sergente dell’uscita palla di Guardiola; l’ucraina lo è stata di quella di Lucescu prima e Fonseca poi. In particolare nella stagione 2017/18 Rakitsky aveva brillato come uno dei migliori difensori della Champions League, dando vita a una specie di culto clandestino tra i tattici che scrivono su Twitter. Rakitsky era formidabile a eludere la pressione avversaria con dei passaggi taglialinee, in particolare in diagonale, e senza perdere di precisione anche nel gioco lungo. I suoi lanci di 40 metri in direzione di Marlos erano diventati uno strumento indifendibile dello Shakhtar di Fonseca.

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Una classica partita di Rakitsky, con il pressing avversario ridotto a un groviera.

In quel momento Rakitsky aveva 28 anni ma ne dimostrava almeno 10 di più, col doppio mento e un corpo da sollevatore di pesi. Forse non è stato davvero sottovalutato: la sua mobilità non gli avrebbe forse permesso di giocare ai più alti livelli, a difendere con tanto campo alle spalle contro avversari molto veloci. Forse è stato meglio che sia finito allo Zenit, dove è comunque uno dei migliori difensori del campionato russo, così che noi adepti del culto di Rakitsky possiamo continuarci a raccontare che avrebbe potuto giocare nel Real Madrid accanto a Sergio Ramos.

Mathieu Valbuena

Dopo un Mondiale, quello brasiliano del 2014, giocato in maniera convincente, in cui si era imposto come il metronomo dei Bleus, Mathieu Valbuena ha lasciato l’Olympique Marsiglia per trasferirsi in Russia, alla Dinamo Mosca. Se vi sembra una stortura, una sliding door malvagia, in parte siete nel giusto, e ci sarebbe da capire se il motivo per cui oggi possiamo considerarlo uno dei più sottovalutati calciatori degli anni Dieci sia davvero quello, o se in qualche modo ne costituisca un punto zero. Poi però ci sarebbe da interrogarsi sulle cause di una scelta di carriera così tranciante, così vistosamente controintuitiva.

Valbuena non è mai stato un calciatore appariscente: il suo baricentro basso, la maniera con cui trotterellava per il campo, però, la sua visione di gioco illuminata, erano qualcosa che metteva l’allegria addosso, in maniera contagiosa, come “Happy” di Pharrell, per aggrapparci a qualcosa del 2014. Valbuena ha sempre cercato di apparire come qualcosa d’altro da ciò che è, che era: i pregiudizi legati alla taglia, lo stile di vita disinvolto, le macchine sportive, gli hanno cucito attorno i crismi di quello che in Francia chiamano “délit de sale gueule”, la colpa di apparire, appunto, come quello che non si è.

La Corniche, il Bosforo, il Pireo: la carriera di Valbuena si è dispiegata soprattutto in città di mare, su promontori, in posti in cui si sta con la valigia sotto al letto e l’occhio fisso all’orizzonte. Il leit-motiv della carriera di Valbuena, da un certo punto in poi, è diventato il tema della fuga. Certo, se non gli fosse successo quello che gli è successo - non avrete bisogno di googlare, e se lo farete capirete molto rapidamente perché Valbuena è in questa classifica - forse, chissà, vai a capire. Ma è il destino di tutti i sottovalutati, alla fine della fiera, e potrebbe tranquillamente rientrare nella casistica dei délit de sale gueule. Solo che stavolta i colpevoli saremmo (siamo già?) noi.

Aritz Aduriz

Non è stato il decennio dei centravanti. L’assoluta prevalenza dei moduli a una sola punta, la fluidità dei moduli e delle interpretazioni, ha reso i centravanti di alto livello rarissimi e ricercati come denti di tigre. A un centravanti è richiesta troppa completezza e anche quello che è probabilmente il miglior finalizzatore puro al mondo - Mauro Icardi - ha un valore sempre discusso. Questo ha fatto sì che diversi centravanti forti, ma non fenomenali, abbiano avuto forse carriere minori rispetto a decenni precedenti.

Uno di loro è Aritz Aduriz, centravanti nel paese della dittatura del centrocampo. Una caratteristica accomuna Aduriz ad altri giocatori presenti in questa lista: è esploso tardi ad alti livelli, a un’età in cui ha smesso di essere un investimento economicamente interessante.

La sua prima stagione da titolare in prima divisione è arrivata a 26 anni; la sua prima convocazione in Nazionale a 29; la sua prima da stagione da più di 20 gol a 33 anni. Lì sono cominciate le sue stagioni migliori: 36, 26, 24, 20 reti nelle annate successive. Come Fabio Quagliarella, negli anni Aduriz ha raffinato la sua efficacia da centravanti un tassello alla volta, facendocela sembrare un’arte della tarda età, così come Fabio Quagliarella. Lo scorso anno ha cominciato a rallentare perché il suo corpo era logoro. Oggi ha 38 anni e alla prima partita della Liga di quest’anno ha segnato al Barcellona con una rovesciata iper-atletica.

Sarà la sua ultima stagione, ci mancherà.


Fernandinho

Questa lista è ricca di mediani difensivi, che a questo punto potremmo definire il ruolo più sottovalutato del decennio. Ma del resto nel calcio si celebra sempre il talento tecnico e l’attitudine spettacolare, e i mediani possono al massimo aspirare a questa epica al contrario in cui a diventare interessante è la loro anti-epica. In questa parte dell’articolo abbiamo messo in fila tutti giocatori davanti la difesa. Fernandinho è stato il tassello fondamentale del City dei record di Guardiola: il perno attorno a cui si è sviluppato uno dei sistemi più efficaci e complessi del decennio.

Fernandinho ha un senso della posizione e delle letture difensive tra le migliori al mondo - la migliore tra i mediani oggi? - ma anche il suo contributo nell’uscita palla è sottovalutata. Due anni fa Guardiola ha definito Fernandinho “molto più forte di lui”.

Casemiro

Il re dei mediani del decennio è stato però Casemiro, la necessaria compensazione monolitica alla fluidità del Real Madrid di Zidane. Così come da giocatore, Zizou ha bilanciato la presenza di tanti giocatori tecnici con un mediano dalle qualità difensive eccezionali. In questo senso possiamo considerare Casemiro l’erede di Deschamps e Makelele, forse persino una loro esasperazione. Durante l’uscita palla del Real Madrid la funzione di Casemiro era letteralmente quella di togliersi di mezzo. Eppure le sue qualità tecniche sono spesso sottovalutate quando si parla di lui, e sfigurano solo accanto ad artisti come Kroos e Modric.

Basta ricordare il tiro da fuori con cui ha segnato nella finale di Champions contro la Juventus. Casemiro però ha soprattutto doti difensive fuori dal comune, ed è un misto quasi irripetibile di letture intelligenti, forza fisica e protezione della palla. In più è un fenomeno del fallo tattico. In un decennio di moduli fluidi e in cui l’attenzione all’uscita pulita del pallone è diventata sempre più forte, mediani difensivi quasi puri come Casemiro sono stati rari. Di certo il brasiliano è stato il migliore.

Jorginho

Jorginho è stato pagato quasi 60 milioni di sterline, gioca nel Chelsea, ha giocato nel Napoli, è un punto fermo della Nazionale di Mancini tra le favorite ai prossimi Europei. Sostenere quindi che Jorginho sia sottovalutato può essere visto come una forzatura. Se lo abbiamo inserito è anche perché in questo decennio è stato a lungo sottovalutato e ci sono volute autentiche evidenze perché Jorginho dissipasse i dubbi sul suo conto, che comunque esistono tuttora. Ricordiamo che solo a gennaio scorso Rio Ferdinand si è permesso di dire che “Jorginho non serve a niente”. Secondo l’ex difensore Jorginho non aiuta né la fase difensiva né quella offensiva; in più non corre e “in duemila passaggi non ha fatto neanche un assist”. Non c’è pensiero che riassuma meglio i pregiudizi nei confronti di Jorginho, un centrocampista che ha la colpa di scomparire nel sistema migliorandolo, di brillare nelle cose semplici e per lo più invisibili di cui si compone una partita di calcio.

Jorginho ordina il possesso della propria squadra come forse nessun altro al mondo oggi, e questa qualità sarà sempre meno appariscente dei recuperi in motorino di Ngolo Kanté o dei lanci d’esterno di Modric.

Thiago Motta

Thiago Motta è riuscito a far litigare un paese, che per alcuni non era neanche il suo paese, per un numero di maglia. Il 10 affidatogli dalla Nazionale Italiana per l’Europeo del 2016 era un sacrilegio, uno schiaffo. Non era chiaro se Thiago Motta non avrebbe dovuto indossare il 10 perché non sufficientemente illuminato o proprio perché troppo scarso, però rimane il segnale preciso di quanto sia stato probabilmente il giocatore più sottovalutato degli ultimi dieci anni.

Motta è il classico giocatore che a prima vista sembra lento, compassato, capace solo a fare passaggi di due metri, che però è sempre stato titolare in grandissime squadre e allora il dubbio dovrebbe venire. Era titolare nel Barcellona a 20 anni e solo due infortuni al ginocchio ne hanno rallentato la carriera. Anche dopo che la sua carriera sembrava finita, Motta è stato il regista dell’Inter del Triplete, della Nazionale di Conte all’Europeo, del Paris Saint Germain degli sceicchi. In carriera ha vinto oltre 30 trofei, quasi tutti da protagonista.

Il tratto distintivo di Thiago Motta, quello che l’ha fregato agli occhi della gente, era l’essenzialità: uno, due tocchi. Il suo compito era quello di rendere fluido il possesso palla, muovere la squadra da una parte all’altra del campo. Rispetto ad altri registi della Serie A, mi viene in mente Pirlo, lo faceva quasi senza farsi vedere e meno lo vedevi, più stava influenzando la partita. Per questo è stato facile sottovalutare Thiago Motta, almeno per noi seduti a casa sul divano.

Sami Khedira

Dei calciatori dal talento invisibile, Khedira è di certo il principe. Perché se qualche anno fa le sue letture - difensive e offensive -, i suoi inserimenti in area di rigore, le sue corse col pallone, lo rendevano comunque un giocatore dal valore evidente, oggi la sua utilità è ben più dubbia. Khedira gioca spesso, nella lista di Champions ha scalzato Emre Can dalle preferenze, e molti tifosi della Juventus non se ne fanno una ragione. Come ha scritto Matteo Gatto in un pezzo proprio su quest’argomento: «La grandezza della carriera di Khedira ci sfida ad approfondire aspetti del calcio che vanno oltre le singole giocate, oltre i sistemi di gioco, in parte anche oltre i dati attualmente nostra disposizione. Ci apre la porta su un universo di altri modi in cui si può influenzare una partita, quasi senza toccare quello che apparentemente è l’oggetto del proprio mestiere, il pallone. O facendolo sempre in modo semplice, perché il calcio è un gioco semplice, diceva Cruyff, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia».

Il suo decennio intanto si chiude con un campionato spagnolo, 4 italiani, una Champions League e un Mondiale.




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